Il TRIBUNALE Ha pronuciato la presente ordinanza nella causa promossa da Margherita Nodari col proc. dom. avv. Angelo Mauro contro F. A. Orlando, E. Roveda col. proc. dom. avv. Cristina Teruzzi e contro Luisa Fiumara con l'avv. Paolo Marzano, sul reclamo avverso l'ordinanza del giudice isruttore del 13 febbraio 1996, proposto dall'attrice M. Nodari. Il presente giudizio e' pervenuto all'attuale istruttore e relatore in forza del trasferimento della causa disposto dal precedente istruttore, cui al causa era stata originariamente assegnata in applicazione dell'art. 91 della legge n. 353 del 1990 e successive modificazioni ed in ottemperanza alla ripartizione interna all'ufficio tra giudici assegnati alla nuove cause e giudici destinati alla trattazione dei giudici pendenti alla data di entrata in vigore della legge stessa. All'udienza del 13 febbraio 1996, successiva a tale trasferimento, il giudice istruttore, dopo aver assegnato termine alle parti per deduzioni istruttoria, ha ammesso i capitoli di prova dedotti da tutte le parti, previa eliminazione di talune espressioni in alcuni capitoli, fissando l'udienza per l'escussione e concedendo termine alle parti per la indicazione di altri testi: si trattava di fornire la prova storica, chiesta dallo stesso attore oltre che (con diverso significato) dalle altre parti, delle avvenute immutazioni dello stato dei luoghi (con la pavimentazione di un portico affacciantesi su un cortile comune, formando un dislivello, la costruzione di una ringhiera e la collocazione di tubazioni) che sarebbero state realizzate dai convenuti in un cascinale lombardo in cui vi erano piu' proprieta'. Mediante reclamo al collegio tempestivamente proposto, l'attore ha chiesto la revoca dell'ordinanza ammissiva di tutti i capitoli di prova in quanto, oltre ad essere inammissibili, a proprio giudizio solo una ctu avrebbe consentito di appurare se vi erano state opere abusive. Le parti hanno depositato memorie nei termini di legge e la causa e' stata rimessa al collegio composto come sopra per la decisione sul reclamo. Il collegio ritiene di sollevare d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale delle norme definitivamente entrate in vigore in forza della legge 20 dicembre 1995, n. 534, che lasciano sussistere il reclamo istruttori, che era stato invece soppresso dalla legge di riforma del 1990 non solo per le cause nuove (per le quali era stato introdotta la figura del giudice unico di primo grado con i poteri del collegio, con la sola eccezione della competenza collegiale per le cause tassativamente elencate: vedi art. 48 ord. giud., modificato dall'art. 88 della legge 26 novembre 1990, n. 353), ma anche per le cause che sono state riservate alla decisione del collegio. Nel testo originario era stabilito che gli stessi principi si applicassero anche ai giudizi in corso cosi' che risultava abolito anche per questi ultimi il reclamo istruttorio. La nuova legge di riforma (preceduta da diversi decreti-legge, piu' volte reiterati, che ne avevano anticipato i punti di maggior rilievo) ha dunque praticamente cancellato la disciplina transitoria cosi' come era stata predisposta dalla riforma del 1990 e ha sostituito a quella originaria una nuova formulazione dell'art. 90, che invertendo la regola dettata nell'ultimo comma - secondo la quale ai giudizi pendenti si applicano gli articoli della nuova legge - stabilisce al suo posto il principio secondo cui "ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 si applicano le disposizioni vigenti anteriormente a tale data". Ha invece statuito a mo' di eccezione che alcune disposizioni della riforma si applichino anche ai giudizi pendenti alla data del 1 gennaio 1993 (cfr. art. 90, decimo comma, modificato dall'art. 1 della legge). Tra queste non figura tuttavia la norma che modifica l'art. 178 c.p.c (oltre al connesso art. 187 c.p.c.) nel senso di prevedere come unica ipotesi di reclamo immediato al collegio il caso della ordinanza di estinzione del giudizio. Il sistema che si e' in tal caso venuto ad instaurare presenta, ad avviso di questo collegio, aspetti di incostituzionalita' sotto diversi profili. 1. - Un primo aspetto di illegittimita' del mantenimento dell'istituto del controllo del collegio sulle ordinanze istrutorie, di cui all'art. 178 c.p.c., scaturisce dalla mancata estensione ai giudizi pendenti di tutte le disposizioni della legge di riforma che lo comprendono, che rappresentava la regola sancita dal primo legislatore (cfr. art. 90, ottavo comma nella versione originaria). La implicita abrogazione di questa parte della riforma (operata dall'art. 9 del d.-l. 9 agosto 1995, n. 347, ribadito dal d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432, ora convertito in legge) ha creato un doppio binario per le cause pendenti in tempi diversi rispetto all'entrata in vigore del nuovo processo civile, dando luogo ad una disparita' di trattamento tra le parti di tali giudizi che non pare giustificata da alcuna ragione. La "gradualita'" che sembra avere suggerito il mantenimento in vigore delle norme previgenti puo' infatti avere senso solo se vista in prospettiva temporale (ed in effetti tale principio e' gia' stato seguito attraverso il ripetuto rinvio della entrata in vigore della legge, anticipandone via via significative parti). Divenuti ormai maturi i tempi per l'entrata in vigore dell'intera legge di riforma, anticipandone significative parti). Divenuti ormai maturi i tempi per l'entrata in vigore dell'intera legge di riforma, non sembrano piu' residuare motivi per osservare conteporaneamente due riti ormai profondamente diversificati. La duplicazione tra vecchio e nuovo rito crea olttretutto problemi assai ardui - giudicati addirittura insormontabili dalla dottrina processualistica - ad esempio quando si presenti la necessita', non disciplinata dal legislatore, del simultaneus processus tra una causa regolata dal rito previgente ed una soggetta al nuovo rito, cosi' da impedire la riunione delle due cause, con grave pregiudizio per la possibilita' di semplificazione dei giudizi. Ne deriva altresi' la violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione tra i soggetti che sono parti dei due ordini di controversie assoggettate a riti diversi, oltre che dello stesso principio di cui all'art. 24, primo comma, della Costituzione in quanto il perpetuarsi della forma dettata per il procedimento nelle cause in corso rende eccessivamente difficoltoso il raggiungimento della tutela dei propri diritti in queste controversie. Una siffatta disparita' di trattamento si apprezza anche sotto il profilo del discostarsi del legislatore dalle analoghe regolamentazioni in materia, avuto riguardo al doverso criterio seguito allorche' si tratto' di introdurre un nuovo processo per le controversie del lavoro con la legge 11 agosto 1973, n. 533, che all'art. 20 prevedeva una disciplina transitoria dei giudizi pendenti in tutto simile a quella stabilita dall'art. 90 della legge del 1990 nella stesura originaria, stabilendo che anche a questi si applicassero le norme previste dalle nuove disposizioni, con risultati che si sono rivelati apprezzabili sul piano della praticabilita' e della rapidita' nello smaltimento dell'arretrato. E' dubbio se la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della norma che ha abrogato una preesistente disposizione produca l'effetto di far rivivere quest'ultima (tale fenomeno pare invero configurabile solo in caso di abrogazione della norma abrogatrice, disposta dal legislatore, ove opera pur sempre sotto forma di atto legislativo del tutto autonomo che assume per relationem il contenuto della norma abrogata, mentre non si riconosce effeicacia abrogatrice in senso proprio alla dichiarazione di illegittimita' costituzionale: cfr. S. Pugliatti, voce Abrogatrice, in Enc. del dir. I, Milano, 1958, p. 151 ss). I principi contenuti nelle disposizioni transitorie abrogate dovranno in ogni caso essere reintrodotti, compreso il meccanismo di passaggio dell'uno all'altro rito (cfr. art. 90, quarto comma nella versione originaria). 2. - Ma anche in prescindendo dalle ragioni che rendono illegittima, ad avviso di questo collegio, la mancata applicazione alle vecchie cause dell'intera disciplina introdotta dalla novella, appaiono ragioni evidenti per la illegittimita' della mancata inclusione, tra le singole norme della riforma che sono state dichiarate applicabili anche ai vecchi processi, di una serie di disposizioni la cui estensione ai procedimenti in corso, come meglio si vedra' nel corso dell'esposizione, non sembra invero presupporre necessariamente l'applicazione dell'intera riforma. Si apre in tal modo un ventaglio di possibilita' tra le quali operare la opzione di illegittimita'. Tra le disposizioni richiamate non figurano anzitutto il testo novellato dell'art. 178 c.p.c., che abolisce il reclamo al collegio, cosi' come il corrispondente nuovo testo dell'art. 187 c.p.c., che non prevede piu' la possibilita' di rimettere al collegio la soluzione di questioni istruttorie. Basti ricordare che l'istituto del reclamo al collegio in tal modo ripristinato limitatamente ai giudizi in corso - del tutto sconosciuto agli ordinamenti stranieri, come quello francese che pure ha introdotto la figura del juge de la mise en e'tat de la proce'dure, e che non esisteva nemmeno nel nostro codice di procedura del 1942, essendo stato introdotto dalla riforma del 1950 - rappresenta per un verso un rimedio superfluo, essendovi gia' la facolta' di chiedere la revoca o la modifica del provvedimento sull'ammissione delle prove allo stesso giudice che l'ha emesso (il presente caso rappresenta un esempio emblematico della abituale pretermissione di un simile rimedio, probabilmente per il timore del decorso dei termini per il reclamo) e di rimettere ogni questione sulla prova al collegio al momento della decisione; per altro verso, il ricorso al reclamo al collegio, non di rado usato a scopi meramente dilatori, si risolve in un meccanismo che intralcia senza necessita' il regolare svolgimento dell'istruttoria, perpetuando una sovrapposizione tra i due organi investiti rispettivamente dell'istruzione e della decisione della causa, che giustamente il legislatore della riforma ha voluto eliminare anche nella ipotesi in cui il secondo organo ha una formazione collegiale. La soppressione del reclamo al collegio non e' quindi legata necessariamente alla introduzione della figura del giudice unico, ma potrebbe affermarsi anche nel sistema di collegialita' vigente per le cause in corso. Inoltre, come insegna l'esperienza, l'intervento del collegio in tema di ammissione della prova non e' definitivo in quanto ogni questione che dovesse insorgere riguardo alla materia sulla quale questi ha pronunciato dovra' essere pur sempre riproposta all'organo collegiale, con il quale si viene a creare una dipendenza permanente, che richiede un continuo passaggio dall'istruttore al collegio e viceversa, con il rischio di intralciare gravemente lo svolgimento dei giudizi. Oltre tutto, analogamente a quanto e' gia' stato rilevato in talune ordinanze che hanno sottoposto alla Corte la questione del reclamo avverso i provvedimenti cautelari di segno negativo (art. 669-terdecies c.p.c.), si profila una possibile violazione dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, dal momento che il giudice sottoposto alla prospettiva del reclamo, in luogo di operare una scelta tra il materiale probatorio offertogli dalle parti che meglio soddisfi le vere esigenze istruttorie della causa, potrebbe essere indotto a privilegiare l'adozione di una soluzione che non scontenti alcuna delle parti ovvero a ricorrere alla rimessione al collegio dell'intera causa ai sensi dell'art. 187 c.p.c., senza adottare alcun provvedimento istruttorio, demandando a quest'ultimo ogni decisione, ma in tal modo provocando un possibile ritorno della causa in istruttoria. Anche prima della riforma che lo ha eliminato (almeno per i giudizi nuovi), dunque, si rendevano palesi ragioni di illegittimita' insite nel sistema del reclamo istruttorio al collegio. Ostano al mantenimento di questa figura di reclamo anche ragioni pratiche contingenti. Nella particolare situazione di emergenza in cui si trova la definizione delle controversie pendenti alla data di entrata in vigore della riforma, affidate ad un numero di giudici dimezzato (ed anzi, come si dira', ancor piu' ridotto), la riproposizione dell'anacronistico sistema del reclamo istruttorio non giova certo al pronto e ordinato smaltimento dell'arretrato, ma perpetua al contrario un dannoso appesantimento di un procedimento che dovrebbe ormai avviarsi speditamente alla definizione. Secondariamente, la disparita' di trattamento che si determina a questo riguardo tra i soggetti che si trovano ad essere parti di controversie in corso e coloro che la iniziano successivamente alla data di entrata in vigore della norma da' luogo ad una palese violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3, cosi' come dell'art. 24 della Costituzione. Come si e' cercato di dimostrare, nessuna logica ragione sembra infatti giustificare una simile disparita' di trattamento. Anche in questo caso, ove la eventuale dichiarazione di illegittimita' non potesse condurre alla reviviscenza dell'originario sistema transitorio che prevedeva l'eliminazione del reclamo al collegio anche per le cause pendenti, occorrerebbe dichiarare la decadenza anche per queste ultime di ogni forma di controllo da parte dell'organo collegiale sulle ordinanze istruttorie. 3. - Questo Collegio non puo' esimersi inoltre dal sottoporre alla Corte anche l'ulteriore questione, che si rende a propria volta rilevante nella presente controversia (rivestendo carattere addirittura assorbente rispetto alla precedente), scaturente dalla mancata applicazione alle cause in corso della statuizione dell'art. 190-bis, laddove regola le modalita' di decisione delle cause da parte dello stesso giudice istruttore in funzione di giudice unico, mentre la nuova legge ha stabilito la regola opposta secondo cui nei giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 "il tribunale giudica con il numero invariabile di tre votanti" (cfr. quinto comma del nuovo testo dell'art. 90 disp. att., modificato dal d.-l. 21 aprile 1995, n. 121 e dipoi dal d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito in legge). E' stata in tal modo reintrodotta la necessita' dell'organo collegiale per la decisione di tutte le controversie pendenti, ossia anche per quelle nelle quali il legislatore del 1990 aveva demandato la decisione al giudice istruttore in funzione di giudice unico con i poteri del collegio (cfr. art. 88 della legge 26 novembre 1990, n. 353). Un simile sistema, che e' stato accompagnato dalla previsione del ricorso alle supplenze di vice pretori onorari "per sopperire alla finalita' dell'esaurimento delle controversie civili pendenti" (cfr. quinto comma citato), non sembra razionale. Si risolve infatti in un inutile aggravio di costi e di tempi processuali il ricorso all'organo collegiale per la decisione di controversie che, a causa dell'aumento sino al limite di lire 50.000.000, introdotto per la competenza del pretore e di quella del giudice di pace per gli incidenti stradali di valore non superiore a lire 30.000.000, rappresentano ormai la maggior parte delle controversie civili che statisticamente si attestano su valori medio-bassi e sono quindi divenute ormai di competenza di giudici monocratici (pretore o addirittura giudice di pace). Applicato ai processi pendenti - affidati, come si e' ricordato, ad un numero di giudici pari o addirittura inferiore alla meta' dell'organico - questo sistema comporta che le udienze di discussione avanti al collegio, derivanti dalla somma di quelle riferentesi al doppio ruolo, vengano differite a tempi lunghissimi, ritardando nel tempo la stessa attuazione ad organico pieno del nuovo processo civile, senza che il ricorso alle supplenze possa giovare ad ovviare all'inconveniente. Al contrario, la possibilita' che i giudizi pendenti vengano definiti da un giudice singolo - al di fuori del calendario delle cause rimesse al collegio ai sensi dell'art. 189 c.p.c., che la legge lascia sussistere (cfr. art. 90, quinto comma nel testo originario) e di quelle demandate necessariamente all'organo collegiale - consentirebbe di decidere le controversie ancora pendenti in istruttoria senza essere legati ai tempi e modi dell'attuale sistema e quindi in tempi verosimilmente piu' brevi. Resterebbe invece ferma anche in tale prospettiva la possibilita' di ricorrere alle supplenze che potrebbero essere utilizzate per integrare i collegi per le cause gia' rimesse al collegio ai sensi dell'art. 189 c.p.c., al pari di quelle necessariamente di competenza del collegio, cosi' da alleggerirne il carico, creando per l'appunto spazio per altre cause da decidersi singolarmente. La disposizione dell'art. 190-bis, che prevede la possibilita' che il giudice istruttore decida anche la causa non figura infatti legata ad una particolare struttura del procedimento nella quale quello in corso debba essere previamente convertito e puo' quindi essere estesa alle cause pendenti, indipendentemente dall'applicabilita' dell'intera riforma del processo civile. Per converso, anche per le cause che devono invece essere in ogni caso decise dal tribunale con la composizione di tre votanti (vedi art. 48 novellato dell'o.g.), la riforma lascia sussistere per la fase istruttoria la figura del giudice istruttore che deve rimettere all'organo collegiale la causa ai sensi dell'art. 189 c.p.c., cosi' che anche per tale aspetto appare possibile la trasposizione ai giudizi in corso del nuovo sistema introdotto per la fase decisoria dalla riforma medesima. Non va infine taciuto che proprio in vista di una auspicabile definizione transattiva delle vecchie vertenze assai piu' incisivo diverrebbe il ruolo del giudice istruttore ove vi fosse coincidenza con l'organo che decide la controversia. Il maggior ritardo imposto alle controversie pendenti, essendo ovviabile adottando sistemi di definizione analoghi a quelli previsti nel nuovo processo, e la disparita' di trattamento che ne deriva non trovano quindi giustificazione, con la conseguente duplice violazione dell'art. 3 e dell'art. 24 della Costituzione. Anche a questo proposito, soccorre il confronto con il diverso trattamento riservato dal legislatore alle controversie pendenti quando si tratto' di introdurre il nuovo processo del lavoro, laddove si stabili' che esse dovessero essere definite in ogni caso da un giudice singolo (vedi art. 20, terzo comma, legge 11 agosto 1973, n. 533, sia pure ricorrendo in quel caso a sezioni stralcio, che viceversa il legislatore attuale ha giustamente voluto evitare data la non omogeneita' delle materie che caratterizza le controversie attualmente da definire). Anche a livello comunitario, la raccomandazione n. 4 (86) 12 del comitato dei ministri del Consiglio di Europa in data 16 settembre 1986, recante "misure volte a pervenire e a ridurre il sovraccarico dei tribunali" indica, tra le altre, la misura della "generalizzazione del giudice unico di prima istanza in tutte le materie appropriate". La mancata inclusione del principio del giudice istruttore in funzione di giudice unico - per le cause non riservate all'organo collegiale e non ancora rimesse al collegio ai sensi dell'art. 189 c.p.c. - tra le disposizioni destinate ad essere applicate ai giudizi in corso (cosi' come previsto dall'originaria norma transitoria) costituisce quindi una ulteriore ragione di illegittimita' della legge. In effetti, anche la causa presente potrebbe per tale via trovare una soluzione ben piu' rapida dei tempi che attualmente, stante il numero dei collegi gia' fissati, sarebbe ragionevole preventivare, cosi' che anche sotto tale profilo la questione deferita alla Corte mantiene la propria rilevanza. Ove la eventuale pronuncia di illegittimita' non potesse far rivivere l'originario sistema transitorio - che affidava al giudice unico (salvo la riserva di collegiabilita') la decisione delle cause pendenti - dovrebbe essere in ogni caso sancita l'estensione di questa regola anche alle cause in corso. 4. - Un'ulteriore questione di legittimita' si ricollega alla mancata estensione ai giudizi in corso delle disposizioni della riforma relative alle preclusioni ed alla fase preparatoria del giudizio, tra di loro interconnesse. L'introduzione del duplice sistema risponde infatti al bisogno di una fissazione definitiva della materia del contendere evitandone la continua modificabilita', sia pure prevedendo un sistema elastico di termini successivi rispettivamente per la fissazione dell'oggetto del contendere e delle deduzioni istruttorie (artt. 183 e 184 novellati). In tal modo, il nostro ordinamento ha compiuto un notevole passo verso la realizzazione dello scopo, propostosi dal codice del 1942 (secondo la Relazione), ma non realizzato sopratutto a causa della mancanza della fissazione di termini antecedenti alla prima udienza di trattazione (di cui al vecchio art. 183), di allinearsi agli ordinamenti europei, regolando una prima udienza destinata alla preparazione della trattazione orale vera e propria, mediante l'indicazione di una serie dettagliata di funzioni (art. 183 novellato). Recentemente, questo sistema e' stato accresciuto dalla previsione di una udienza assolutamente preliminare, destinata al controllo sulla regolarita' formale degli atti e del processo (art. 180 c.p.c., modificato dall'art. 4 del d.-l. 9 agosto 1995, n. 347 e quindi dal d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito in legge). L'impianto che ne risulta riproduce ormai fedelmente quello contenuto nel codice austriaco dell'agosto 1895 (esattamente un secolo fa), che ha rappresentato il modello cui si e' ispirato il codice germanico (che conosce appunto una fase preparatoria della prima udienza di trattazione orale della causa: cfr. par. 273 dello ZPO, ormai simile al nostro attuale art. 183 c.p.c., e par. 275 dello ZPO), oltre agli altri codici europei (il codice francese prevede una sorta di mise en e'tat "intellectuelle" e il codice spagnolo le dilegencias preliminares), che sono giunti sino ai nostri tempi attraverso diffuse sperimentazioni e adattamenti. Come si sa, il processo civile angloamericano affida le fasi preliminari (pretrial procedures) a giudici onorari, riservando alla corte la decisione delle cause che residuano (rifacendosi addirittura alla distinzione tra la fase in iure e quella apud iudicem, di romanistica memoria). Come e' noto, in queste fasi, comunque strutturate, vengono definite una parte notevole delle controversie, cosi' che perviene al giudizio davanti al giudice (che in primo grado e' unico in tutti gli ordinamenti europei) solo un numero limitato di cause. In effetti, la creazione di una udienza preliminare (conosciuta ormai anche dal nuovo codice di procedura penale), che rappresenta a detta dei processualisti piu' attenti l'innovazione processuale piu' significativa che vi sia mai stata, non ha soltanto una funzione semplificatrice ed acceleratoria dei giudizi, ma ne propizia altresi' la definizione prima e senza bisogno della decisione. Anche l'esperienza delle prime applicazioni del nuovo processo civile nel nostro paese sta dando risultati positivi in questa direzione. La mancata possibilita' di applicazione di questa parte della riforma ai giudizi in corso potrebbe avere influsso anche sulla presente controversia, che e' ormai pervenuta alla fase istruttoria, dal momento che la disposizione transitoria originaria non distingueva (al pari della analoga disposizione dettata al momento dell'introduzione del processo del lavoro) tra i momenti processuali in cui si trova la controversia pendente e stabiliva in ogni caso il compimento degli adempimenti di cui agli artt. 163, 167, 183, quarto comma e 184 c.p.c. (vedi la originaria formulazione del quarto comma dell'art. 90, configurando una sorta di reimpostazione dell'intero giudizio, che non puo' non giovare alla sua rapida definizione. Da cio' la rilevanza della questione di costituzionalita'. Anche in questo caso, la dichiarazione di illegittimita' produrrebbe la reviviscenza dell'originario sistema transitorio che estende alle cause pendenti l'applicazione del nuovo rito con un provvedimento di transizione, che dovra' comunque essere estesa anche ai giudizi in corso. 5. - Infine, una ulteriore ragione di illegittimita' della nuova disciplina dettata per la fase transitoria - gia' sottoposta alla Corte, con motivazioni analoghe (vedi l'ordinanza del giudice istruttore di Brescia del 25 novembre 1995, pubblicata in Gazzetta Ufficiale 31 gennaio 1996, n. 5, p. 42 e segg, della quale peraltro non possono condividersi gli accenti) - riguarda l'organizzazione degli uffici in questo periodo: come si e' detto, il presente giudizio e' pervenuto al pari di numerosi altri all'attuale istruttore in se'guito alla designazione del precedente istruttore per la trattazione delle controversie instaurate dopo l'entrata in vigore della riforma. Si pone infatti l'ulteriore questione della distribuzione delle cause nuove e di quelle "vecchie" tra gli addetti agli uffici giudiziari. In effetti, la nuova disposizione transitoria - la quale prevede che alla trattazione dei giudizi pendenti sono designati, sino al 31 dicembre 1996, non piu' della meta' di tutti i magistrati incaricati della trattazione dei giudizi e degli affari civili, mentre negli anni successivi la proporzione sara' stabilita, per ciascun distretto di Corte d'appello, dal Consiglio superiore della magistratura sentiti i consigli giudiziari (vedi il testo attuale dell'art. 91 della legge 26 novembre 1990, n. 353, modificato dall'art. 10 del d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432 convertito nella legge n. 534 del 1995) - ha rovesciato lo stesso criterio seguito dalla disposizione originaria contenuta nell'art. 91 della legge del 1990 (non modificato su questo punto dalla legge 6 dicembre 1994, n. 673), che fissava nella meta' di tutti i magistrati incaricati della trattazione degli affari civili la quota minima (e non quella massima, che era allora rappresentata dai due terzi). La nuova disposizione non sembra avere tenuto alcun conto tra l'altro che dall'au- mento della competenza per valore del pretore sino a lire 50.000.000 e' prevedibile attendersi, come gia' si sta verificando - alla stregua delle statistiche che, come si e' detto, vedono la maggior parte delle controversie attestarsi su valori medio-bassi - l'accentramento presso questo organo di un numero notevole di cause nuove ed una corrispondente contrazione di quelle di competenza del tribunale (si pensi ad esempio alle cause di opposizione ad ingiunzione il cui valore e' certo). Anche riconoscendo la legittimita' della tendenziale separazione tra la trattazione di cause nuove e quella delle cause pendenti (analogamente a quanto avvenne per il nuovo processo delle controversie di lavoro, laddove peraltro si stabiliva in un solo terzo il numero di magistrati addetti alla trattazione delle cause nuove: cfr. art. 22 legge n. 533/1973), con la sola eccezione rappresentata dalla facolta' per il dirigente dell'ufficio di assegnare anche cause nuove ai magistrati addetti alla trattazione dei giudizi pendenti (art. 91, primo comma, ultima parte, come modificato dall'art. 10 del d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito), si rivela irrazionale la creazione di una proporzione, tra i giudici assegnati rispettivamente alle une ed alle altre cause, ancora deteriore rispetto a quella prescelta dalla legge del 1990, allorche' l'aumento della competenza del pretore era stato previsto solo sino a lire 20.000.000. Il criterio che fissa il limite della meta' delle unita' dei magistrati incaricati della trattazione delle cause pendenti crea una ulteriore sperequazione a svantaggio di queste ultime quando (come nel caso di questo ufficio) l'organico sia composto da un numero dispari di unita' (semmai, in questi casi dovrebbe valere un aregola opposta, che favorisse di almeno un'unita' la trattazione delle cause in corso). Un simile criterio, oltre a dare luogo ad una ulteriore diseguaglianza di trattamento tra le parti delle diverse cause, che vedono raddoppiati i tempi di durata del processo, gia' lunghissimi, violando il principio dell'art. 3 e 24 della Costituzione, si riflette anche sull'organizzazione interna di ciascun ufficio giudiziario, ledendo il principio - pure di rango costituzionale - secondo cui i pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione). L'accorpamento presso ciascun giudice di un numero doppio di cause, malgrado ogni impegno prouso, non puo' che avere ripercussioni negative sullo svolgimento del lavoro giudiziario. L'eventuale dichiarazione di illegittimita' della norma che ha modificato il testo dell'art. 91 dovrebbe portare quanto meno al ripristino del contenuto originario della disposizione (volta a garantire un numero minimo di magistrati da assegnare, almeno per i primi due anni, alla trattazione delle cause pendenti). Ma in realta', alla stregua dei nuovi criteri di competenza introdotti dal legislatore e del conseguente deflusso di cause dal tribunale, la proporzione tra i magistrati di questi uffici addetti alla definizione delle cause pendenti e quelli addetti alle cause nuove - pur restando separata tra gli uni e gli altri (salvo l'eccezione di cui si e' detto sopra, che non sembra illegittima) - avrebbe dovuto essere diversa e, ove si ritenga legittimo mantenere un rapporto fisso per il biennio iniziale, in luogo del criterio stabilito per gli anni successivi, esso deve comunque avvantaggiare con un numero congruo di unita' la trattazione delle cause in corso.