IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile del lavoro
 promossa  dall'Istituto  Bancario  San   Paolo   di   Torino   s.p.a.
 rappresentanto e difeso dall'avv. G.P. Borsotti e F. Bonamico, contro
 Abronio  Susanna,  Alciati  Rita,  Amerio  Paolo, Arri Paolo, Astolfi
 Alberto,  Audero  Massimo,  Baccan  Angelo,  Baggia   Chiara,   Baldi
 Fiorenzo,  Barale Laura, Basso Virginio, Beretta Marilena, Bertarelli
 Giovanni, Bertero Marina, Bevione Giuseppe, Bicego Luigi, Boffa  Ida,
 Bonini  Maurizio,  Bonito  Aldo,  Borgogno  Sergio,  Borsero  Marisa,
 Brescia  Mario,  Brunetto  Lorella,  Buffa  Valeria,  Burzio  Agnese,
 Cabella  Anna  Lisa,  Caccialupi  Alessandro, Campia Mauro, Candelari
 Paolo, Candellone Mario, Cappello Claudio, Carpignano Marco,  Casalis
 Anna   Grazia,   Chinelli   Marco,  Cianchini  Mario,  Ciccottino  M.
 Alessandra, Civiero Gianpiero, Codetta Marco, Coduti Bruno, Colasanto
 Antonio, Crescenzio Valerio, Dassano Maria Grazia, De  Trovato  Aldo,
 Del  Bosco Gianni, Deregibus Franca, Dompe' Silvia, Duo' Rita, Enrico
 Giancarlo,  Fanello  Francesco,  Fantini  Giuseppe,  Ferraris   Aldo,
 Ferretti Renzo, Francia Simonetta, Franco Federico, Fratenali Silvio,
 Frigato Marzio, Fumero Domenico, Galliano Roberto, Garabello Susanna,
 Garbolino  Maurizio,  Garrone  Bruno,  Gava Renato, Gay Andrea, Genga
 Vincenza,  Gentile  Pietro,  Giacomino  Paolo,  Gianoglio   Giuliana,
 Giordano  Antonella,  Giordano  Gianpaolo,  Giovannini Anna, Girbuola
 Silvana, Gorlato Ennio, Griffa Piero, Guelfo Claudio, Isoardi Walter,
 Liuzzo Paolo, Lupo Erminia, Magaldi Concetta, Maino  Flavio,  Manassi
 Gabriele,  Marchisio  Giovanna,  Marenna  Nando,  Marocco Maria Rosa,
 Martina Silvano, Masera Franco, Massa Rita, Massa Simonetta, Mazzetto
 Claudio, Mingolla Giuseppe, Mo Angelo,  Molon  Rino,  Morello  Carlo,
 Nebiolo  Fabrizio,  Oberto  Delfina,  Olivieri  Vilma,  Oppezzo Pino,
 Panero Anna, Parolini Roberto, Penasso Piero, Perrero Luciano, Petiti
 Claudio,  Petrini  Alberto,  Piccarolo  Giovanni,  Pizzuto  Cristina,
 Pomarico  Stefania,  Ponzone  Augusta,  Randazzo  Laura, Rao Roberta,
 Ricci Rita, Ronzano Mauro,  Rosso  Piergiorgio,  Rubba  Flavio,  Rubo
 Dario,  Salvatore  Giuseppe,  Sanfilippo  Michele,  Scassiano Oreste,
 Silvano Laura, Speggiorin Silvana, Summa Luigi, Tiboni Laura, Tonelli
 Gianpaolo, Toniolatti Paolo, Trinchero Aldo, Turturro  Enzo,  Valente
 Loretta,  Vergnano  Claudio;  rappresentati  e  difesi  dall'avv.  L.
 Sanfelici; e contro Occelli Pietro, Fassi  Marco,  Vay  Elena,  Baima
 Alberto,  Borello  Giovanni,  Giardini Alberto, Bosco Sergio, Andreis
 Piero, Mantero  Roberto,  Mignone  Paolo,  Scarzella  Massimo,  Pesce
 Mario,  Crosa  Giacomo,  Gallo Liviana, Ramazzina Ugo, Gallo Claudio,
 Chiecchio Ivana, Alberto Franco, Pira Guido, Biolatto Lucia, Saglicco
 Claudio, D'Apice Massimo, Bosticco Giovanni,  Rat  Floriano,  Vidotto
 Giancarlo, Filotti Elisabetta, Carlone Vincenzina, Galliano Cristina,
 Parodi  Andrea,  Tamietti  Alberto,  Piccione  Doris,  Rosso Roberta,
 Davite Valeria, Miseferi Anna, Doglio Fabio, Semeraro Piero,  Sobrero
 Flavia,  Gai  Gianpiero,  Cugno  Roberto,  Raviolo  Marina,  Barilla'
 Angelo, Joly Rosella, Achino  Roberto,  Passerino  Domenico,  Bonetto
 Daniela,  Sabbione Antonio, Penna Sergio, Ferrari Mauro, Rosso Luigi,
 Da Ros  Vittorino,  Petromilli  Aldo,  Traversa  Marilena,  Di  Bella
 Filippo,  Valente  Angela, Pastorino Luciano, Ferraris Sandro, Icardi
 Massimo, Buratti Claudio, Didoli Wilma, Catalano Rosa, Forza  Walter,
 De Cesare Franco, Agostinelli Alessandro, Rubinetti Sergio, Trinchero
 Antonella,Pugliese  Roberto,  Arossa  Lucio, Banzino Rosanna, Marsero
 Marisa, Dotta Maurizio, Morra Lucia, Zampillo  Antonio,  Dalla  Porta
 Massimo, Franzino Maurizio, Cavaglia' Armando, Ferrero Piero, Bocchio
 Paolo, Uscello Chiara, Cupipo' Pantaleone, Tonetti Antonella, Vanzino
 Clara,  De  Nadai  Lorenzo,  Solia  Giuseppe,  Barosso Rosanna, Serra
 Lucia, Feletto Marina,  Dagna  Fabrizio,  De  Mattia  Walter,  Rigoli
 Felice,  Paniate  Vera,  Abrate  Margherita,  Conti  Sergio, Speretta
 Luigino,  Labate  Paolo,  Castelli  Raffaella,  Lo  Giudice  Alberto,
 Boscolo Fabrizio, Binello Franca, Spina Sergio, Livigni Eugenio, Cora
 Daniela,  Italiano  Francesca, Ronco Gianfranco, Cristofaro Giuseppe,
 Ceccon  Carmen,  Ferrero  Pierluigi,  Giallorenzo  Antonio,   Mantica
 Giorgio,  Massa  Simonetta,  Trucco  Piero, Brazic Giovanni, Vincenzi
 Adriano,  Fiorentino  Alberto,  Merlo Piero, Geraci Giuseppina, Prato
 Roberto, Chiaramello Caterina, Novelli Pier Mauro, Baravalle  Sandra,
 Graziano  Maria Luisa, Pignatiello Antonia, Daidone Vincenza, Masetto
 Arturo, Melli Mauro, Dellavalle Maria, Luongo  Nina,  Albano  Angela,
 Cola  Martino Giorgio, Lupo Maria Assunta, Busato Alessandra, Raviolo
 Walter, Cappa Rosella, Bergero Floriana, Andreone Luciano,  Bertolino
 Marina,  Golzio  Massimo,  De  Gruttola  Paolo,  Rosso  Teresa, Berri
 Daniela, Busano Laura, Dotta Nadia, Cavallero Stefano, Volpi  Gloria,
 Tonelli  Rosalba,  Rosso  Liliana,  Colombatti  Laura, Berra Roberto,
 Conti Mario, Lerda Roberto, Ugoste Fabio, Cavalli  Davide,  Gramaglia
 Franca, Anelli Francesco, Vittone Pierangela; contumaci;
   e  contro  Borello  Bruno,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.  L.
 Sanfelici, intervenuto in causa.
   Premesso:
     che i lavoratori indicati in epigrafe,  dipendenti  dell'Istituto
 Bancario  San  Paolo  di  Torino  ed  addetti  al Centro contabile di
 Moncalieri, con ricorso depositato in data 4 giugno  1992  chiedevano
 al  pretore  di  Torino,  in  funzione  di  giudice  del  lavoro,  di
 condannare l'Istituto suddetto  ad  adottare  i  provvedimenti  e  le
 misure  idonee  a  sottrarli al c.d. "fumo passivo" negli ambienti in
 cui lavoravano, con il risarcimento dei rilativi danni patiti  previa
 affermazione   della   illiceita',   per   contrasto  con  l'art.  32
 Costituzione e l'art. 2087 Codice civile,  della  condotta  aziendale
 che  imponeva  la  prestazione dell'attivita' lavorativa negli stessi
 ambienti in cui operavano altri dipendenti fumatori;
     che, a sostegno di tali domande, venivano illustrate le  varie  e
 gravi conseguenze, ormai concordemente accertate in sede scientifica,
 della  prolungata  esposizione  al  fumo passivo e veniva invocato il
 diritto soggettivo alla salubrita' ambientale del  posto  di  lavoro,
 giudizialmente tutelabile a livello individuale;
     che  l'Istituto  Bancario  San  Paolo  di  Torino  si  costituiva
 chiedendo la reizione delle  domande  dei  ricorrenti,  da  un  lato,
 osservando  che  la pretesa di ottenere la imposizione del divieto di
 fumare nei luoghi di lavoro  o  di  approntare  locali  riservati  ai
 fumatori  non  trovava  sostegno  nel diritto positivo (non esistendo
 alcuna norma di legge che preveda il divieto di fumo  negli  ambienti
 di  lavoro  in  quanto  tali)  e, d'altro lato, assumendo di avere da
 tempo seriamente  affrontato  il  problema  del  fumo  passivo  negli
 ambienti  di  lavoro  apprestando  un  efficiente sistema di ricambio
 dell'aria tale da impedire concentrazioni  nocive  di  inquinanti  da
 fumo e da prevenire in tal modo la verificazione dei gravi pregiudizi
 lamentati dai ricorrenti;
     che  veniva espletata una consulenza tecnica diretta ad accertare
 se la salute dei  ricorrenti  fosse  esposta  o  meno  a  rischio  in
 relazione  al  fumo  passivo, tenuto conto della specifica situazione
 ambientale caratterizzata dalla presenza di impianti di  ventilazione
 e aspirazione dell'aria;
     che  in  corso  di  causa  i ricorrenti rinunciavano alla domanda
 risarcitoria e, su invito del pretore,  precisavano  i  provvedimenti
 giudizialmente  invocati  chiedendo  ordinarsi al datore di lavoro di
 elevare il divieto di fumo in tutti i locali ove essi operavano e  di
 predisporre  appositi "fumoirs" tali da evitare la trasmissione degli
 effetti inquinanti del fumo;
     che  il pretore, con sentenza in data 10 dicembre 1992-8 febbraio
 1993, ordinava all'Istituto Bancario San Paolo di vietare il fumo  in
 tutti  i locali in cui i ricorrenti prestano la loro opera nonche' in
 quelli di comune  frequentazione  (bar,  mensa,  servizio  postale  e
 sportello   bancario   interno)   a  conclusione  di  un  ampio  iter
 argomentativo incentrato soprattutto sulla affermazione  della  ampia
 portata del disposto di cui all'art. 2087 c.c., che impone l'adozione
 di  tutte  le  misure  necessarie  a  tutelare  in via di prevenzione
 l'integrita' fisica dei prestatori  di  lavoro,  e  sull'esame  delle
 risultanze  della  C.T.U.,  evidenzianti la sussistenza, a carico dei
 ricorrenti, di un apprezzabile rischio per la salute  in  conseguenza
 della  aspirazione  del  fumo  passivo,  nonostante la presenza degli
 apparati di ventilazione e ricambio dell'aria;
      che l'Istituto Bancario San  Paolo  di  Torino,  con  ricorso  a
 questo   Tribunale,  depositato  il  28  luglio  1993,  impugnava  la
 decisione pretorile chiedendo, in parziale riforma della  stessa,  la
 reiezione  della  domanda  di  elevazione  del  divieto di fumare nei
 luoghi ove i ricorrenti svolgono la  loro  attivita'  lavorativa  (ed
 accettando, invece, la posizione di tale divieto nei locali di comune
 frequentazione);
     che   l'appellante,   in   sintesi,   affermava   che   la  Corte
 costituzionale nella sentenza 7 maggio 1991  n.  202,  ricordata  dal
 pretore,  aveva osservato che la scelta dei mezzi idonei per una piu'
 incisiva e completa tutela  della  salute  dei  cittadini  dai  danni
 cagionati   dal   fumo   anche  c.d.  "passivo"  era  riservata  alla
 discrezionalita' del legislatore, ricordando peraltro che la  lesione
 del  diritto  alla  salute (art. 32 Cost.) poteva fondare da sola una
 richiesta di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c.;
     che pertanto nel caso  di  specie,  in  difetto  di  una  domanda
 risarcitoria  da  parte  dei ricorrenti (che vi avevano rinunciato in
 corso  di  causa)  non  poteva  essere  richiesto   ne'   emesso   un
 provvedimento  di  elevazione del divieto di fumo nei locali in cui i
 ricorrenti  operavano,  non  potendo  il   giudice   sostituirsi   al
 legislatore  nel  porre una statuizione in via di prevenzione, frutto
 di una scelta fra le varie  possibili,  dovendo  invece  statuire  su
 lamentate violazioni di diritti nei casi concreti in relazione ad una
 domanda risarcitoria;
     che  comunque  il  richiamo  dell'art. 2087 c.c. a sostegno della
 statuizione  impugnata  era  improprio   sia   perche'   la   pretesa
 inosservanza  di tale norma poteva essere fatta valere dal dipendente
 solo previo accertamento della verificazione di un danno  causalmente
 connesso  con il rischio ambientale specifico, sia perche' l'Istituto
 aveva predisposto tutte le misure ritenute idonee  dall'esperienza  e
 dalla  tecnica per l'aerazione dei locali con particolare riguardo al
 problema del fumo di sigarette nei locali di lavoro;
     che quella dell'aerazione e ricambio dell'aria appariva la misura
 piu' adatta a rimuovere eventuali fattori inquinanti  nei  luoghi  di
 lavoro,  privilegiata anche dal nostro ordinamento giuridico (v. art.
 9  d.P.R. n. 303/1956);
     che, infine, l'esposizione al fumo passivo, ancorche'  certamente
 suscettibile  di  rischi per la salute, aveva un rilievo inferiore ad
 altri  rischi  da   inquinamento   nell'attuale   generale   contesto
 ambientale,  nel  quale appariva utopistica la pretesa di raggiungere
 il  rischio  zero,  in   generale   mai   preteso   anche   ai   fini
 antinfortunistici e di prevenzione delle malattie professionali negli
 ambienti di lavoro;
     che  gli  appellati,  costituendosi  in  questo grado con memoria
 difensiva depositata il 17 giugno 1995, chiedevano la  reiezione  del
 gravame, ribadendo le tesi gia' esposte in primo grado ed accolte dal
 pretore  e,  con  appello  incidentale, chiedevano la rifusione delle
 spese dolendosi della compensazione delle stesse;
     che questo Tribunale all'udienza di  discussione  del  28  giugno
 1995  disponeva  una nuova C.T.U., affidata al dott. Giuseppe Oberto,
 diretta ad  accertare  se  in  relazione  alla  specifica  situazione
 ambientale   esistente  presso  il  Centro  contabile  di  Moncalieri
 dell'Istituto appellante  risultassero  o  meno  adottate  le  misure
 necessarie   secondo   l'esperienza   e   la   tecnica  per  tutelare
 l'integrita' fisica dei lavoratori appellati in riferimento alla loro
 esposizione al c.d. fumo passivo;
     che il C.T.U. rispondeva  al  quesito  formulato,  a  seguito  di
 approfondita  e  documentata  indagine,  affermando, fra l'altro, che
 l'impianto di ventilazione e condizionamento d'aria  funzionante  nei
 luoghi  di lavoro di cui sopra riduceva notevolmente ma non annullava
 il rischio cancerogeno dovuto al fumo passivo;
     che, all'udienza del 7 febbraio 1992,  i  difensori  delle  parti
 discutevano  nuovamente  la  causa  ed  il  Tribunale  pronunciava la
 presente ordinanza.
                                Ritenuto
   Dalle risultanze sostanzialmente univoche delle consulenze tecniche
 effettuate nel primo e nel secondo grado del  presente  giudizio  con
 impegno    ed   approfondimento   particolarmente   elevati   e   con
 l'incontestabile supporto scientifico derivante  dalla  consultazione
 dei  piu'  qualificati  e  recenti  studi  in materia di fumo passivo
 (inalazione involontaria di fumo di sigarette, sigari,  pipe,  fumati
 da  altri)  emerge che lo stesso e' fonte di concreto pregiudizio per
 la salute delle persone che vi sono esposte e, soprattutto,  che  non
 vi   e'   una  soglia  minima  di  rischio  (e  cioe'  un  limite  di
 concentrazione del fumo nell'ambiente al  di  sotto  del  quale  tale
 rischio   possa   ritenersi  annullato  o  comunque  irrilevante)  in
 conseguenza della presenza di componenti cancerogeni, in relazione ai
 quali e' ormai scientificazione accertato che non sussiste una soglia
 in base al modello lineare dose-risposta (ad  ogni  dose  corrisponde
 una data probabilita' dell'effetto, ma mai una probabilita' zero).
   Conseguentemente,  non  sussistendo  una  dose-effetto,  un  valore
 limite di  soglia  per  i  cancerogeni  da  fumo  passivo,  anche  un
 abbattimento  notevole  delle  loro concentrazioni non puo' annullare
 del tutto  e  assolutamente  il  rischio  di  produrre  una  malattia
 tumorale,  pur  certamente  influenzandone  la  incidenza,  cioe'  la
 frequenza, ossia il numero dei casi di malattia  (cosi'  testualmente
 si  afferma  a  pag.  14  della  C.T.U.  espletata in questo grado di
 giudizio).
   Esaminando ora specificamente le piu' rilevanti affermazioni  fatte
 dal   C.T.U.  nominato  dal  Tribunale,  dott.  Giuseppe  Oberto,  di
 incontestabile e specifica qualificazione (per essere specialista  in
 Medicina  Legale  e  delle  Assicurazioni,  in malattie polmonari, in
 malattie del lavoro e gia' Dirigente del Servizio di Medicina  Legale
 dell'Unita'  Sanitaria  Locale  di  Torino)  a seguito di un'indagine
 notevolmente  accurata,  attendibile  e   persuasiva,   occorre   qui
 evidenziare, in sintesi, quanto segue:
     il  fumo  di tabacco ambientale (ETS-Environmental Tobacco Smoke)
 rappresenta una miscela aereo diffusa di composti chimici concentrati
 e  totalmente  biodisponibili,  ad  elevata  potenzialita'   tossica,
 mutagena, cancerogena, genotossica;
     i costituenti del fumo passivo possono in particolare ricondursi,
 in ordine alla loro azione, in tre gruppi:
      1)  agenti  irritanti (acroleina, formaldeide, ammoniaca, ossido
 di azoto, particolato);
      2) agenti tossici (monossido di  carbonio,  benzene,  cianuro  e
 nicotina);
      3)  agenti  cancerogeni,  tra  cui  gli  idrocarburi policiclici
 aromatici, le amine aromatiche, le mitrosamine;
     gli  effetti  dannosi  irritativi  e  tossici   determinati   dai
 componenti  la  fase  gassosa  dell'ETS  si  verificano  a  soglie di
 concentrazioni  di  inquinanti  indicati  da  regolamentazioni  (CEE)
 ovvero   dalle   comunita'  scientifiche  (TLV)  mentre  gli  effetti
 cancerogeni di alcune sostanze  per  lo  piu'  contenute  nella  fase
 corpuscolata  o  particellata  dell'ETS  sono  stocastici,  ossia  di
 probabilita' e quindi privi di soglia;
     per quanto attiene alla specifica situazione in esame  l'impianto
 di  ventilazione  e  condizionamento  esistente nei locali del Centro
 Contabile di Moncalieri, ove gli appellati prestano la loro attivita'
 lavorativa, e' indubbiamente  efficiente  e  tale  da  consentire  un
 ricambio  dell'aria  ampiamente  superiore  a  quello  previsto dalla
 legislazione vigente (D.M.  18  maggio  1976)  al  fine  di  ottenere
 l'esenzione  dal  divieto  di  fumare  per  alcuni  locali  aperti al
 pubblico, come del resto  riconosciuto  da  una  commissione  tecnica
 mista attivata in adempimento di una norma contrattuale;
     tale  impianto  di condizionamento riduce sicuramente al di sotto
 delle soglie di attivita' (TVL) i componenti irritativi e tossici del
 fumo da tabacco ambientale e abbassa altresi'  la  concentrazione  di
 particolato  del  suddetto fumo conseguentemente limitando il rischio
 cancerogeno senza peraltro annullarlo.
   Afferma quindi il C.T.U. che "il rischio relativo di  ammalarsi  di
 tumore  polmonare  per  i dipendenti esposti all'ETS (fumo da tabacco
 ambientale) in locali del Centro Contabile di  Moncalieri  dotati  di
 impianto   di   ventilazione   e  condizionamento  sia  molto  vicino
 all'unita' (cioe' come eguale al rischio dei non fumatori non esposti
 all'ETS) ma non si  identifica  nell'unita':  quindi  questo  rischio
 connesso  con  l'esposizione  all'ETS  nei  locali  di  lavoro appare
 modesto, certamente inferiore al rischio del non fumatore  esposto  a
 ETS  in  ambiente  domestico  (-  non  dotato di adeguati impianti di
 ventilazione -  la  precisazione  e'  dell'estensore  della  presente
 ordinanza) ma pur sempre sussistente".
   Infatti,  in  presenza  di  ETS in ambiente confinato pur dotato di
 condizionamento d'aria  il  particolato  non  puo'  essere  eliminato
 completamente;  ora,  poiche'  i  cancerogeni  attivi  dell'ETS  sono
 contenuti nella fase particolata e  poiche'  e'  prevalente  opinione
 scientifica  che amine aromatiche e idrocarburi policiclici aromatici
 contenuti nella fase particolata di ETS non hanno dose  soglia,  deve
 concludersi  che  "l'esposizione  all'ETS anche in ambiente confinato
 dotato di validi sistemi di aerazione e  condizionamento  d'aria  non
 annulla  in  modo  totale e assoluto il rischio di tumore polmonare",
 pur riducendo "in modo sensibile la frequenza di comparsa del  tumore
 stesso",  e  che "l'annullamento totale e sicuro del rischio di danno
 da ETS non puo' che ottenersi che con la non produzione ambientale di
 ETS". (v. pag. 59, 60, 40 della relazione di C.T.U. dott. Oberto).
   Tali conclusioni sono perfettamente coincidenti con quelle cui  era
 pervenuto  il  C.T.U.  nominato  in  prime cure (dott. Paolo Pitotto,
 specialista in Medicina del Lavoro) il quale aveva affermato che, per
 effetto dei composti cancerogeni presenti nel fumo  da  tabacco,  "il
 rischio  zero viene raggiunto solo in totale assenza di fumo" si' che
 "risulta necessario vietare il fumo nei luoghi di lavoro, al fine  di
 tutelare  la  salute  dei dipendenti". (v. pagg. 63 e 64 relazione di
 C.T.U. di primo grado).
    La dannosita' del fumo passivo,  con  specifico  riferimento  agli
 ambienti  di  lavoro,  e', d'altra parte, chiaramente affermata anche
 dal Ministero della Sanita' nella nota 15 gennaio 1990, in  atti,  in
 cui  si legge che: "Il Ministero della Sanita' ... intende promuovere
 una serie di  iniziative  aventi  per  oggetto  la  salubrita'  degli
 ambienti  di  Lavoro, il cui inquinamento deve essere considerato con
 particolare preoccupazione  a  causa  della  permanenza  protratta  e
 concentrata nel tempo che ivi viene attuata", che "da numerosi dati a
 livello  di  ricerca  clinica,  rilevazioni epidemiologiche, indagini
 statistiche
  ... emerge ... la certezza del danno grave apportato alla salute dal
 fumo di tabacco, ivi compreso quello malato passivamente".
   Dopo avere ricordato che "al di la' della sua intrinseca  nocivita'
 nei  confronti  della  salute  umana" il fumo nell'ambiente di lavoro
 comporta anche conseguenze a livello infortunistico e di  igiene  del
 lavoro,  la  nota  ministeriale  evidenzia inoltre che "anche ove non
 esista rischio di esposizione ad altre sostanze inquinanti il  danno,
 anche  grave,  prodotto dalla inalazione del fumo passivo e' un fatto
 inequivocabile accertato dalla ricerca  clinica  ed  epidemiologica",
 che "nella legislazione italiana non esiste alcuna norma di legge che
 impone  tout-court  il  divieto  di  fumo negli ambienti di lavoro in
 quanto tali; il divieto e' previsto  solo  nei  luoghi  di  lavoro  a
 rischio  di  esplosione  e  incendio, per i quali e' fatto obbligo di
 affissione  dell'apposito  cartello  avvisatore",  e  conclusivamente
 auspica  che  vengano sollecitamente adottate "misure atte a limitare
 il danno prodotto alla salute dal  fumo  di  tabacco  nei  luoghi  di
 lavoro"
  ...  nello  spirito  di  una  fattiva  collaborazione  fra  le parti
 sociali, nell'interesse della intera collettivita'.
   Anche nella recente pronuncia della Corte  di  Cassazione,  Sezioni
 Unite  Civili,  del  6  ottobre  1995 n. 10508, in tema di divieto di
 propaganda  pubblicitaria  di  prodotti   da   fumo,   si   evidenzia
 "l'esigenza  di  tutela  di  salute della collettivita'" che sta alla
 base di  questa  disciplina  (L.  lo  aprile  1962  n.165)  la  quale
 individua  "l'uso  del  tabacco  come fonte possibile di danno per la
 salute dell'individuo fumatore ed  indirettamente  di  danno  per  la
 salute  collettiva  (comprendendo tra i soggetti tutelati anche i non
 fumatori)", si' che tale disciplina legislativa "appare come  diretto
 adempimento  dell'impegno  costituzionale di tutela della salute come
 fondamentale diritto dell'individuo e interesse  della  collettivita'
 (art. 32, primo comma, Cost.)".
   Puo' altresi' ricordarsi che fra le avvertenze che devono comparire
 sui  pacchetti di sigarette, ex art. 3 decreto ministeriale 31 luglio
 1990 come sostituito dall'art. 1 del decreto misteriale 16 luglio
  1991, figura anche la seguente: "Il fumo nuoce alle persone  che  vi
 circondano".
   Sul presupposto, dunque, dell'accertata nocivita' della esposizione
 al  fumo  passivo  e  dell'assenza  di  una  soglia  di rischio, deve
 prendersi atto, per quanto attiene alla fattispecie in esame, che  la
 presenza   di   un   pur   efficiente   impianto  di  ventilazione  e
 condizionamento dell'aria non vale a proteggere  in  modo  pienamente
 soddisfacente   i   lavoratori   appellati  dai  rischi  alla  salute
 conseguenti alla inalazione del  fumo  passivo  dovuto  alla  forzata
 coesistenza    con    numerosi    colleghi   fumatori   (circostanza,
 quest'ultima, pacifica in causa  e  comunque  accertata  in  sede  di
 sopralluogo  effettuato  dal  C.T.U.  nominato  nel giudizio di primo
 grado).
   Ne consegue che, nonostante la  spontanea  adozione  da  parte  del
 datore  di  lavoro di un impianto di depurazione dell'aria che poteva
 apparire idoneo,  secondo  l'esperienza  e  la  tecnica,  a  tutelare
 adeguatamente,  ai  fini  di  cui  si tratta, l'integrita' fisica dei
 prestatori di lavoro (risultando assicurato uno standard di  ricambio
 d'aria largamente superiore a quello previsto dalla vigente normativa
 per  l'esenzione  dal  divieto  di  fumare negli ambienti considerati
 dall'art. 1, lett.  b), legge 11 novembre 1975, n.  584,  di  cui  si
 trattera'  piu' avanti) residua comunque un pregiudizio per la salute
 degli stessi, che puo' definirsi grave (attesa la natura  cancerogena
 dei  fattori  inquinanti  presenti  nel fumo passivo e non eliminati)
 anche se il rischio di contrarre una patologia tumorale  o  di  altro
 genere  in  conseguenza  di  tale  situazione ambientale non e' certo
 elevato.
   Il primario  e  fondamentale  diritto  alla  tutela  della  salute,
 garantito  dall'art. 32 della Costituzione, non puo' quindi ritenersi
 pienamente realizzato nella situazione emersa in causa, perche'  tale
 tutela,  attesa  la  rilevanza del bene protetto, deve essere la piu'
 ampia possibile e non puo' ammettere condizionamenti o limitazioni di
 sorta.
   L'unico strumento che appare idoneo - alla  luce  delle  risultanze
 medico-legali  sopra  illustrate - ad assicurare una piena tutela dei
 lavoratori in relazione al danno da fumo passivo ed a consentire  nei
 loro   confronti   la   doverosa,  completa  attuazione  del  diritto
 costituzionale  alla  salute  ed  alla  salubrita'  dell'ambiente  di
 lavoro,  e'  dunque  l'imposizione  del divieto di fumo nei luoghi di
 lavoro (fatta salva eventualmente la possibilita' per  il  datore  di
 lavoro,  sensibile alle esigenze dei dipendenti fumatori, di separare
 fisicamente  gli  stessi  dai  colleghi   non   fumatori,   adottando
 particolari soluzioni tecnico-organizzative).
    Un  siffatto  divieto,  peraltro,  non risulta posto dalla vigente
 normativa, che non si e' mai preoccupata di  includere  i  luoghi  di
 lavoro  in  quanto tali nell'elenco delle aree per cui e' prevista la
 proibizione del fumo. Va, anzitutto, in proposito ricordata la  legge
 11  novembre  1975  n.  584  che  disciplina il "Divieto di fumare in
 determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico" stabilendo  tale
 divieto  (v.  art. 1 lett. a) nelle corsie degli ospedali, nelle aule
 delle scuole, negli autoveicoli pubblici per trasporto collettivo  di
 persone, nelle metropolitane, nelle sale d'attesa delle stazioni, nei
 compartimenti ferroviari riservati ai non fumatori, ecc., nonche' nei
 locali  chiusi  adibiti a pubblica riunione, nelle sale di spettacolo
 cinematografico o teatrale,  sale  da  ballo,  sale  corse,  sale  di
 riunione  delle accademie, musei, biblioteche, sale di lettura aperte
 al pubblico, pinacoteche e gallerie  d'arte  (v.  art.  1,  lett  b),
 prevedendo  inoltre  la possibilita' (v. art. 3) per il conduttore di
 uno dei locali indicati all'art. 1 lett. b  di  ottenere  l'esenzione
 dal   divieto   installando  un  impianto  di  condizionamento  o  di
 ventilazione dell'aria corrispondenti a  caratteristiche  determinate
 dall'UNI (Ente Nazionale Italiano di unificazione), indicate dal d.m.
 18 maggio 1976.
   Per  quanto  concerne  gli  ambienti  di  lavoro  e' stato da tempo
 previsto il divieto di fumare non gia' in via generale,  ma  solo  in
 riferimento  a  situazioni particolari, caratterizzate da lavorazioni
 comportanti  pericoli  di  incendio  o  esposizione   a   determinate
 sostanze,  quali amianto e piombo. (v. artt. 34 d.P.R. 27 aprile 1955
 n. 547, 75 d.P.R.  20 marzo 1956 n. 320; 40 d.P.R. 20 maggio 1956  n.
 321;  12,  26,  28,  d.lg.  15  agosto  1992  n.  277,  nonche' varie
 disposizioni del d.P.R.  9 aprile 1959 n. 128).
   Sono stati presentati alcuni disegni di legge da parte di  Ministri
 della  Sanita',  relativi alla introduzione del divieto di fumo anche
 nei luoghi di lavoro chiusi, pubblici e privati, che non hanno  avuto
 seguito.
   La settorialita' e la marginalita' del divieto di fumare nei luoghi
 di  lavoro risulta confermata dal recente intervento normativo di cui
 al Decreto  Legislativo  19  settembre  1994  n.  626,  che  ha  dato
 attuazione ad alcune direttive CEE riguardanti il miglioramento della
 sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro.
   In  tale decreto che, come si ricava dall'art. 1, "prescrive misure
 per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori  durante
 il  Lavoro, in tutti i settori di attivita' privati o pubblici", sono
 contenute norme concernenti la salubrita' dell'aria negli ambienti di
 lavoro.
   Anzitutto va richiamata la nuova  formulazione  data  dall'art.  33
 agli artt. 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956 n. 303.
   L'art. 9, nel nuovo testo, stabilisce:
               "(Aerazione dei luoghi di lavoro chiusi)
    1.  -  Nei  luoghi  di  lavoro  chiusi, e' necessario far si' che,
 tenendo conto dei metodi di lavoro e degli  sforzi  fisici  ai  quali
 sono  sottoposti  i  lavoratori,  essi  dispongano di aria salubre in
 quantita' sufficiente.
    2. - Se viene utilizzato  un  impianto  di  aerazione,  esso  deve
 essere  sempre  mantenuto  funzionante.  Ogni  eventuale  guasto deve
 essere  segnalato  da  un  sistema  di  controllo,  quando  cio'   e'
 necessario per salvaguardare la salute dei lavoratori.
    3. - Se sono utilizzati impianti di condizionamento dell'aria o di
 ventilazione   meccanica,  essi  devono  funzionare  in  modo  che  i
 lavoratori non siano esposti a correnti d'aria fastidiosa.
    4. - Qualsiasi sedimento o sporcizia che  potrebbe  comportare  un
 pericolo    immediato   per   la   salute   dei   lavoratori   dovuto
 all'inquinamento   dell'aria   respirata   deve   essere    eliminato
 rapidamente".
   Il nuovo art. 14, relativo ai locali di riposo, stabilisce, ai c. 4
 e  5: "Nei locali di riposo si devono adottare misure adeguate per la
 protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo.
   Quando  il  tempo  di   lavoro   e'   interrotto   regolarmente   e
 frequentemente e non esistono locali di riposo, devono essere messi a
 disposizione  del  personale  altri  locali  affinche'  questi  possa
 soggiornarvi durante l'interruzione del lavoro nel  caso  in  cui  la
 sicurezza  o  la  salute  dei lavoratori lo esige. In detti locali e'
 opportuno  prevedere  misure  adeguate  per  la  protezione  dei  non
 fumatori contro gli inconvenienti del fumo".
    Vi  e'  poi  l'art.  64, lett. b, che, nel prevedere misure per la
 protezione dei lavoratori da agenti cancerogeni presenti per  ragioni
 produttive,  recita:  "Il datore di lavoro limita al minimo possibile
 il numero dei lavoratori esposti o  che  possono  essere  esposti  ad
 agenti   cancerogeni,   anche   isolando   le   lavorazioni  in  aree
 predeterminate provviste di adeguati segnali  di  avvertimento  e  di
 sicurezza,   compresi  i  segnali  "vietato  fumare"  ed  accessibili
 soltanto ai lavoratori che debbono recarvisi per motivi connessi  con
 la  loro  mansione  o  con  la  loro funzione. In dette aree e' fatto
 divieto di fumare".
   Il divieto e' ribadito dal c. 2 dell'art. 65 ("Misure  igieniche"):
 "E'  vietato assumere cibi e bevande o fumare nelle zone di lavoro di
 cui all'art. 64, lett. b)".
   Dalla lettura coordinata delle citate norme del Decreto Legislativo
 n. 626/1994 si ricava chiaramente, ad avviso di questo Tribunale, che
 per i luoghi di lavoro in  quanto  tali  non  e'  stato  posto  alcun
 divieto  di  fumare, che solo per lavorazioni comportanti esposizione
 ad  agenti  cancerogeni  sussiste  tale  divieto  (evidentemente  per
 evitare di aggravare l'entita' del rischio) e, infine, che per i soli
 locali  di  riposo  e'  prevista l'adozione di "misure adeguate" (non
 meglio   specificate)   per   proteggere   i   non   fumatori   dagli
 "inconvenienti del fumo".
   Per  quanto  riguarda  la generalita' dei luoghi di lavoro, puo' al
 piu' ritenersi che il fumo  possa  essere  considerato  "sedimento  o
 sporcizia che potrebbe comportare un pericolo immediato per la salute
 dei   lavoratori",   e,  in  quanto  tale,  debba  essere  "eliminato
 rapidamente" affinche' i lavoratori "dispongano di  aria  salubre  in
 quantita' sufficiente"
  (v. citato nuovo testo art. 9 d.P.R. 19 marzo 1956 n. 303).
   Dunque, anche con il recente intervento normativo la protezione dei
 luoghi  di  lavoro dalla nocivita' del fumo passivo appare carente ed
 insoddisfacente in rapporto alla esigenza di  una  piena  tutela  del
 diritto alla salute nei termini sopra indicati.
   Occorre  a  questo  punto chiedersi se, nell'assenza di un precetto
 normativo di divieto di fumo  nei  luoghi  di  lavoro  chiusi,  possa
 essere  il Giudice ad imporre tale divieto una volta accertata, nella
 specifica  situazione  al  suo  esame,  la  nocivita'  lamentata  dai
 soggetti che hanno richiesto l'intervento giudiziale.
   Alla  questione,  secondo questo tribunale, non puo' darsi risposta
 affermativa,  non  potendo   il   Giudice   attuare   un   intervento
 sostanzialmente  normativo  consistente  nella creazione di regole ed
 obblighi non posti dall'ordinamento positivo cui egli e' soggetto.
   Il  pretore  ha  giustificato  la  statuizione  adottata  (condanna
 all'imposizione  del divieto di fumo) invocando l'ampia portata della
 norma di cui all'art. 2087 dal codice civile, che impone ai datori di
 lavoro di adottare tutti gli accorgimenti e le  misure  necessarie  a
 tutelare  l'integrita'  fisica dei prestatori di lavoro, e ricordando
 che la stessa, secondo le piu' recenti tendenze giurisprudenziali, ha
 un  contenuto  aperto  destinato  a  modificarsi  nel  tempo  con  il
 progredire  della tecnica e dell'esperienza, consente la tutela anche
 in ipotesi in cui la situazione di pericolo o di  danno  provenga  da
 terzi  o  sia il riflesso nell'ambiente lavorativo di fattori ad esso
 esterni, ed e' direttamente precettiva sul piano  della  prevenzione,
 costituendo la fonte di diritti soggettivi individuali (si' che dalla
 stessa sorge non solo il diritto, azionabile a posteriori, al ristoro
 dei  danni  eventualmente  derivati,  ma  anche  quello, azionabile a
 priori, ad ottenere la rimozione della situazione di fatto  contraria
 a  diritto e connotata quantomeno da pericolosita'). L'art. 2087 c.c.
 consentirebbe  dunque   di   ottenere,   sull'accertato   presupposto
 dell'esistenza  di  fattori  nocivi  provenienti  da terzi e presenti
 nel'ambiente lavorativo, "l'ordine  giudiziale  di  cessazione  della
 situazione  dannosa  o  pericolosa  per  la  sicurezza  e  la  salute
 individuale".   Questo   collegio,   in   proposito,   osserva    che
 effettivamente  la giurisprudenza ha negli ultimi anni evidenziato la
 rilevante valenza della norma citata, sia sotto il profilo della  sua
 riconosciuta  funzione  preventiva  (suggerita  altresi'  dall'art. 9
 dello  Statuto  dei  lavoratori  -  legge  n.  300/1970)  che  impone
 l'apprestamento  dei mezzi idonei al fine della "sicurezza", nel piu'
 ampio senso, dei lavoratori, legittimando un'  azione  individuale  a
 tutela  del  diritto  alla  integrita'  fisica quale diritto assoluto
 costituzionalmente garantito (con la  conseguenza  -  lo  si  osserva
 incidentalmente  - che, contrariamente a quanto sostiene la difesa di
 parte appellante, risulta ammissibile la  domanda  fatta  valere  dai
 lavoratori  in  causa  pur  dopo  la  rinuncia  alla iniziale pretesa
 risarcitoria), sia sotto il profilo della natura  di  "norma  aperta"
 dell'art.  2087 c.c. che consentirebbe di supplire alle lacune di una
 normativa che non puo prevedere ogni fattore di rischio, con funzione
 sussidiaria rispetto a quest'ultima (v. Cass.  6  settembre  1988  n.
 5048).
   Osserva  peraltro  questo tribunale come una lettura dell'art. 2087
 c.c. di ampiezza tale da ricavarne la  legittimazione  di  un  ordine
 giudiziale  inibitorio  del  fumo nei luoghi di lavoro, gia' alquanto
 dubbia in passato, sia divenuta non praticabile dopo l'emanazione del
 ricordato decreto legislativo n. 426/1994.
    Infatti, mentre prima di tale intervento  normativo  poteva  forse
 ritenersi  che, nella totale assenza di una disciplina riguardante il
 fumo negli ambienti di lavoro (la legge 11 novembre 1975 n. 584  pone
 il  divieto in luoghi diversi, tassativamente indicati), l'inibizione
 del fumo in tali ambienti potesse fondarsi sull'art. 2087 c.c.  quale
 norma  residuale  apprestante  in  favore  dei lavoratori particolari
 diritti di sicurezza e  protezione,  occorre  prendere  atto  che  il
 legislatore  e'  ora  intervenuto  dettando  una  completa, specifica
 normativa in materia di sicurezza e salute dei lavoratori sui  luoghi
 di  lavoro,  senza  affatto  prevedere,  come  sopra  s'e'  visto, un
 generale divieto di fumo in tali luoghi.
    Non pare, del resto, possa disconoscersi la rilevanza nel presente
 giudizio della normativa citata, pur sopravvenuta  durante  il  grado
 d'appello,  posto  che  la  stessa  si pone quantomeno quale doverosa
 chiave di lettura interpretativa della  portata  dell'art.  2087  con
 riferimento  alla  questione  dibattuta  in  causa;  sarebbe  infatti
 operazione incongrua e non corretta quella tendente  ad  interpretare
 la  citata  norma,  sia  pur con riferimento ad una fattispecie sorta
 precedentemente  all'emanazione  del  d.lgs.  n.  426/1994,  in  modo
 confliggente  con  quella  che  oggi  risulta  essere  la esplicitata
 volonta' del legislatore.
   Del resto, la situazione dedotta in causa non e' oggi esaurita ne',
 a maggior ragione, lo era prima di  questo  intervento  normativo  ed
 infatti   gli  appellati  chiedono,  con  la  reiezione  dell'appello
 avversario, la conferma  del  provvedimento  inibitorio  del  fumo  a
 valere, logicamente, soprattutto per il futuro.
   Ritiene,  dunque,  questo collegio che alla imposizione del divieto
 di fumo nei luoghi di lavoro chiusi, necessaria al fine di consentire
 la piena attuazione del diritto alla salute,  possa  pervenirsi  solo
 attraverso  un  intervento  del  giudice  delle leggi che dichiari la
 incostituzionalita' della vigente normativa, per  contrasto  con  gli
 artt.  3 e 32 della Costituzione, in quanto non prevede il divieto di
 fumare nei luoghi suddetti.
   La normativa di cui in questa sede si intende denunciare  d'ufficio
 la  incostituzionalita', attesa la rilevanza (non potendosi pervenire
 all'accoglimento  della  domanda  se  non  attraverso   la   invocata
 declaratoria  di incostituzionalita') e la non manifesta infondatezza
 (per le ragioni  gia'  illustrate)  della  questione,  e'  costituita
 dall'art.  1 lett.  a L. 11 novembre 1975 n. 584 (che pone il divieto
 incondizionato di fumare in taluni ambienti, diversi  dai  luoghi  di
 lavoro)  e  dal combinato disposto degli artt. 9 e 14 d.P.R. 19 marzo
 1956 n. 303 (nel testo sostituito dall'art. 33 c.6  e  10  d.lgs.  19
 settembre  1994 n. 626), 64 lett. b e 65 c.2 d.lgs. 19 settembre 1994
 n. 626, il cui contenuto e' stato sopra illustrato.
   Gia' si e' detto del contrasto di  tale  normativa  con  l'art.  32
 Cost.  che  tutela il bene della salute umana come diritto primario e
 fondamentale, comprendente il diritto alla  salubrita'  dell'ambiente
 di  lavoro,  che certo deve prevalere rispetto all'esigenza meramente
 voluttuaria dei lavoratori fumatori.
   Per  quanto  riguarda  la  violazione  dell'art.   3   Cost.   deve
 evidenziarsi,   soprattutto  con  riferimento  all'art.  1  legge  11
 novembre  1975  n.     584,  la   irragionevole   e   discriminatoria
 differenziazione  fra  luoghi  diversi  caratterizzati  dalla  stessa
 necessita' di protezione.
   L'omissione dall'ambito di operativita' del divieto dei  luoghi  di
 lavoro  chiusi  non appare, infatti, in alcun modo giustificata dalla
 diversita' delle ipotesi disciplinate; anzi, puo'  apparire  maggiore
 l'esigenza  di  protezione dei cittadini lavoratori nei luoghi in cui
 trascorrono normalmente un consistente periodo della loro giornata  e
 della  loro  vita, nella esplicazione di una attivita' tutelata dalla
 Repubblica che e' costituzionalmente "fondata sul lavoro" (v.   artt.
 1  e  35  Cost.),  rispetto  alla  esigenza di tutela dei fruitori di
 servizi pubbblici e sociali, o di varie  istituzioni  ricreative  (v.
 elencazione  di  cui  all'art. 1 legge n. 584/1975) i quali vengono a
 trovarsi nei locali tutelati dal fumo  in  circostanze  piu'  o  meno
 occasionali e comunque, mediamente, di durata limitata nel tempo.
   La  citata  normativa  del  1975  ha gia' costituito oggetto di una
 pronuncia della Corte costituzionale (7 maggio 1991 n.  202)  che  ha
 dichiarato  inammissibile per difetto di rilevanza la questione posta
 dal giudice conciliatore di Roma  affermando,  fra  l'altro,  che  la
 sentenza  richiesta  alla  Corte  "postula  una  scelta, fra le varie
 possibili, riservata alla discrezionalita' del legislatore, alla  cui
 attenzione,  pero', deve essere posta la necessita' di apprestare una
 piu' incisiva e completa tutela della salute dei cittadini dai  danni
 cagionati  dal  fumo  anche  c.d.  passivo,  trattandosi  di  un bene
 fondamentale e primario costituzionalmente garantito (art. 32 Cost.)"
 e aggiungendo che "la dedotta lesione del diritto alla  salute  (art.
 32 Cost.) puo' fondare da sola il richiesto risarcimento dei danni ex
 art.  2043 c.c. L'art. 32 Cost., in collegamento con l'art. 2043 c.c.
 pone  il  divieto  generale  e  primario  di  ledere  la  salute  ...
 costituzionalmente  garantito  ...  e  pienamente  operante anche nei
 rapporti di diritto privato. (vedasi in tal senso anche C.  cost.  14
 luglio 1986 n. 184).
    Tali   affermazioni,   mentre   ribadiscono   con  l'autorevolezza
 dell'organo da  cui  provengono  la  necessita'  di  una  incisiva  e
 completa protezione della salute dai danni del fumo passivo, non sono
 tali  da  precludere o sconsigliare la riproposizione della questione
 di legittimita' costituzionale.
   Infatti,   successivamente   a   questa   decisione   della   Corte
 costituzionale che auspicava un adeguato intervento legislativo nella
 materia  perche'  fosse  compiuta  la  scelta fra le varie possibili,
 rientrante nella discrezionalita'  del  legislatore,  quest'ultimo  -
 come  s'e'  detto  -  e'  intervenuto  con  il  d.lgs.  n. 426/1994 a
 disciplinare specificamente la salute e la sicurezza  dei  lavoratori
 sul luogo di lavoro.
    L'intervento   legislativo,   per  quanto  concerne  la  questione
 controversa in giudizio, si e' realizzato con precetti  tali  da  far
 dubitare  della  loro  conformita'  alla  Costituzione  in quanto non
 idonei alla realizzazione di quella incisiva e  completa  tutela  dai
 danni  del  fumo  passivo  che  il  monito della Corte costituzionale
 indicava come necessaria.
   In proposito si e' sopra evidenziata, alla  luce  delle  specifiche
 norme  del citato decreto, la mancata imposizione del divieto di fumo
 per la generalita' dei luoghi di  lavoro,  stante  la  previsione  di
 misure  anti-fumo  solo  in  via  del tutto marginale, in relazione a
 particolari ambienti e situazioni di lavoro.
   Nella  fattispecie  in  esame,  d'altro  canto,  neppure   potrebbe
 realizzarsi in favore dei lavoratori attuali appellati quella tutela,
 fondata  sugli  artt.  32  Cost.  e 2043 c.c., suggerita nella citata
 decisione della Corte costituzionale, posto che, come s'e' detto, non
 viene qui svolta una domanda di risarcimento  di  danni,  bensi'  un'
 azione  in  via preventiva per l'adozione di misure atte a evitare la
 verificazione di un danno, sul presupposto della accertata  nocivita'
 per la salute della situazione attualmente in essere.
   In  conclusione  il  Tribunale ritiene che appare rilevante ai fini
 della decisione della presente causa e non manifestamente  infondata,
 in  relazione  agli  artt. 3 e 32 della Costituzione, la questione di
 legittimita' costituzionale come sopra prospettata.