ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 91 del regio
 decreto 16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del
 concordato   preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e  della
 liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il
 22 luglio 1995 dal Tribunale di Alessandria sull'istanza proposta  da
 Gatti  Elio, curatore del fallimento di Picariello Paolo, iscritta al
 n.   713 del registro ordinanze  1995  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  44, prima serie speciale, dell'anno
 1995;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  20  marzo 1996 il giudice
 relatore Francesco Guizzi.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Il Tribunale di Alessandria, con sentenza in data 30 settembre
 1994, revocava il fallimento di Picariello Paolo e, disattendendo  la
 domanda  dell'opponente  volta  alla condanna per colpa del creditore
 istante, avanzata ai sensi  dell'art.  21,  terzo  comma,  del  regio
 decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento, del
 concordato  preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e   della
 liquidazione coatta amministrativa), compensava le spese del giudizio
 di  opposizione  nella  misura  del  50  per  cento e poneva la parte
 residua a carico del fallimento e del creditore procedente in solido.
 Allo stesso giudice, in sede amministrativa, venivano  sottoposte  le
 questioni  attinenti  al  compenso richiesto dal curatore, alle spese
 sostenute dalla procedura, alla destinazione del denaro restante dopo
 le  operazioni  fallimentari  e  giacente  sul  libretto  aperto  dal
 curatore.
   Con  provvedimento  del 10 luglio 1995, il Tribunale disponeva che,
 ai sensi dell'art. 91 della legge  fallimentare,  si  facesse  carico
 all'erario  delle spese sostenute dal curatore e che le somme residue
 - accreditate sul libretto di deposito intestato al fallito - fossero
 restituite al Picariello, mentre non vi fosse luogo a provvedere, per
 effetto della sentenza di questa Corte n. 46 del 1975, sulla  domanda
 di  compenso  presentata  dal  curatore.  In ordine alle spese legali
 accollate al fallimento dalla sentenza di revoca, in  solido  con  il
 creditore  istante,  il  Tribunale  ha sollevato, in riferimento agli
 artt. 3, 35  e  36  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art. 91 della legge fallimentare di cui al regio
 decreto n. 267 del 1942.
   2. - Va ricordato che il decreto legislativo del  Capo  provvisorio
 dello  Stato  23 agosto 1946, n. 153 (Norme circa la soppressione del
 ruolo degli amministratori giudiziari e  la  liquidazione  del  fondo
 speciale)  ha soppresso il ruolo degli amministratori giudiziari e ha
 stabilito la liquidazione del fondo speciale, entrambi previsti dalla
 legge 10 luglio  1930,  n.  995  (Disposizioni  sul  fallimento,  sul
 concordato  preventivo  e sui piccoli fallimenti); e va soggiunto che
 la citata sentenza n. 46  del  1975  ha  dichiarato  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art. 21 della legge fallimentare, nella parte in
 cui consentiva che le spese inerenti alla procedura e al compenso del
 curatore   fossero  da  ascrivere  al  debitore,  anche  in  caso  di
 accoglimento dell'opposizione alla dichiarazione di fallimento.
   Ad avviso del Collegio rimettente, la rigorosa  applicazione  della
 sentenza  n. 46, quando la pronuncia di accoglimento dell'opposizione
 non affermi la  responsabilita'  del  creditore  procedente,  farebbe
 sorgere   il   problema   della   imputazione  delle  spese.  Sebbene
 considerato non responsabile della dichiarazione  di  fallimento,  il
 creditore  e'  stato  infatti  condannato,  nel  caso  di  specie, al
 pagamento di una parte soltanto  delle  spese  processuali  sostenute
 dall'opponente,  non potendosi queste accollare al debitore che abbia
 visto prevalere le proprie ragioni, in base alla sentenza n. 46,  ne'
 tanto  meno  potendosi  imputare ad altri per l'impossibilita' di far
 ricorso al disposto dell'art. 91 della legge fallimentare - il  quale
 non  fa  piu' gravare sull'erario le spese di cui si tratta - essendo
 stata abrogata la citata legge n. 995 del 1930.
   E' vero che alcuni giudici di  merito  hanno  applicato  l'art.  91
 della  legge  fallimentare  al  fine  di  ricomprendere  gli oneri in
 questione nell'ambito delle spese anticipate dall'erario, ma  a  tale
 interpretazione  il  Collegio  rimettente non ritiene di aderire. Sia
 perche' l'art.  91 regolerebbe soltanto il caso in cui manchi  danaro
 liquido  nella  disponibilita'  della  curatela  (e  l'erario, per il
 preminente  interesse   pubblico,   non   potrebbe   che   effettuare
 l'anticipazione);  sia  perche' la dottrina e la giurisprudenza della
 Cassazione si sarebbero da tempo  orientate  univocamente,  adottando
 un'interpretazione  restrittiva  della  norma. Del resto, accogliendo
 l'opposta interpretazione non si saprebbe se nel concetto  di  "spese
 giudiziali"  possano  rientrare  anche  gli  onorari  e i compensi di
 qualsiasi specie.
   Nel caso in esame la questione verte su titoli  incontestabili,  in
 quanto  attiene  al  compenso  richiesto  da professionisti che hanno
 svolto la loro attivita' in favore della massa. Si' che - non essendo
 utilizzabile l'art. 91 della legge fallimentare  -  ne  conseguirebbe
 l'impossibilita'   di   decidere   sulle   richieste   avanzate   dai
 professionisti, con evidente lesione dei principi di cui  agli  artt.
 3, 35 e 36 della Costituzione.
   La  disparita'  di trattamento nei confronti di questa categoria di
 lavoratori autonomi si paleserebbe a seconda che il fallimento sia  o
 meno capiente; e vi sarebbe, comunque, un'ingiustificata minor tutela
 di  tale  attivita'  autonoma,  che  questa  Corte ha invero ritenuto
 meritevole di attenzione.
   3. - E' intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
 l'inammissibilita'  e,  nel  merito,  per   la   infondatezza   della
 questione.
   Secondo l'interventore vi sarebbero tre motivi di inammissibilita'.
   Il  primo,  poiche'  il  giudice  a  quo  non avrebbe adeguatamente
 argomentato sulle ragioni che non gli hanno consentito  di  accollare
 al debitore le spese: la citata sentenza n. 46 del 1975, infatti, non
 avrebbe  carattere  assoluto  e non impedirebbe di porre a carico del
 debitore le spese del fallimento revocato se e in quanto "sia incorso
 in  comportamenti  che  abbiano   indotto   il   giudice   all'errato
 convincimento   dell'esistenza   degli   estremi   necessari  per  la
 dichiarazione successivamente revocata".  Avendo la Corte pronunciato
 una   declaratoria   parziale   di  illegittimita'  costituzionalita'
 dell'art. 21, terzo comma, della legge fallimentare, la norma residua
 permetterebbe,  tuttora,  l'accollo  delle  spese  di  procedura   al
 debitore  responsabile  della  dichiarazione  di fallimento risultata
 illegittima: l'ordinanza di rimessione non avrebbe invero esaminato -
 come  pure  avrebbe  dovuto  -   la   sussistenza   d'una   eventuale
 responsabilita', escludendo a priori che le spese potessero restare a
 carico del debitore.
   Il  secondo,  per  la  richiesta d'una sentenza additiva al fine di
 applicare  l'art.  91  della  legge  fallimentare,  recuperandone  la
 disciplina  al  caso  in esame. Ma tale soluzione rappresenta uno dei
 possibili  rimedi,  ben  potendosi,  ad  esempio,  con   altro   tipo
 d'intervento,  modificare la prima parte del terzo comma dell'art. 21
 della stessa legge, in modo da uniformarne la disciplina al principio
 generale della soccombenza contenuto nell'art. 91, primo  comma,  del
 codice di procedura civile.
   Il  terzo, perche' il giudice a quo avrebbe omesso di apprezzare la
 "salvezza" posta nel citato primo comma dell'art. 21, con riferimento
 agli effetti degli atti gia' compiuti  legalmente  dagli  organi  del
 fallimento   anteriormente   alla   revoca.   Fra   questi   dovrebbe
 ricomprendersi anche  l'autorizzazione  a  resistere  alla  richiesta
 revoca  della sentenza dichiarativa di fallimento, si' che il giudice
 - prima di disporre le restituzioni  conseguenti  alla  revoca  della
 stessa  -  avrebbe  dovuto indagare se l'obbligazione contratta dagli
 organi fallimentari non potesse  ritenersi  conservata  e,  pertanto,
 posta  a  carico  delle  attivita'  residue,  costituite  dalle somme
 affluite sul deposito acceso a nome della curatela.
   Nel  merito  la  questione  sarebbe   infondata,   perche'   basata
 sull'accostamento  di  due  situazioni fra loro diverse, e dunque non
 comparabili, qual e' quella del  fallimento  capiente  e  quella  del
 fallimento  revocato.    Sarebbe,  inoltre,  del tutto fuori causa il
 diritto  del  professionista  a  svolgere   un'attivita'   lavorativa
 liberamente   scelta,   in  quanto  oggetto  della  tutela  accordata
 dall'art. 35, primo comma, della Costituzione; ne' sarebbe pertinente
 il riferimento all'art. 36, primo comma,  giacche'  non  verrebbe  in
 rilievo alcun problema di remunerazione della prestazione d'opera, ma
 soltanto quello di sopportazione del relativo onere.
                        Considerato in diritto
   1.  -  Viene all'esame della Corte, in relazione agli artt. 3, 35 e
 36 della Costituzione, la questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  91  della  legge  fallimentare  di cui al regio decreto 16
 marzo 1942, n. 267, avente a oggetto le anticipazioni delle spese del
 fallimento effettuate dall'erario, nella parte  in  cui  non  estende
 l'applicazione   anche   all'ipotesi   del  fallimento  revocato  con
 sentenza, a seguito di opposizione del debitore, la quale ultima  non
 abbia  attribuito,  ai  sensi  dell'art.  21  della  stessa legge, la
 responsabilita' al creditore  procedente,  cosi'  assicurando  minore
 tutela   all'attivita'   lavorativa   dei   professionisti  legali  e
 determinando,   conseguentemente,   una   evidente   disparita'    di
 trattamento a seconda che il fallimento sia o meno capiente.
   2.    -   Vanno   preliminarmente   esaminate   le   eccezioni   di
 inammissibilita' sollevate dall'Avvocatura  dello  Stato  -  due  per
 irrilevanza  e una per pluralita' di soluzioni - innanzitutto perche'
 il giudice a quo non avrebbe preventivamente valutato la possibilita'
 di  accollare  al debitore gli onorari del difensore della procedura;
 quindi, perche' non avrebbe esaminato quella  del  pagamento  con  il
 residuo  esistente  sul  deposito intestato al fallimento; e, infine,
 perche' la soluzione prospettata non sarebbe l'unica possibile.
   3. - Le eccezioni per irrilevanza della  questione  vanno  entrambe
 disattese.  La  prima,  in  quanto  la  possibilita'  di accollare al
 debitore il pagamento degli onorari  del  difensore  della  procedura
 fallimentare,   costituitasi   nel   giudizio   di  opposizione,  non
 eliminerebbe il problema dell'imputazione  della  meta'  delle  spese
 sostenute   dal   debitore   medesimo  e  poste,  dalla  sentenza  di
 accoglimento dell'opposizione, a carico del fallimento in solido  con
 il  creditore istante. La seconda, in quanto la revoca della sentenza
 di fallimento fa tornare in bonis  il  debitore,  al  quale  soltanto
 spetta  il  potere di disporre dei propri beni, ivi comprese le somme
 depositate sul libretto intestato alla procedura.
   4. - La terza eccezione va invece accolta, perche' il problema  che
 e'   alla   base   della   questione   e'   ascrivibile   alla  piena
 discrezionalita' del legislatore, pure nei limiti e con  l'osservanza
 dei   principi   costituzionali:   primo   fra   tutti  quello  della
 ragionevolezza, in considerazione della normativa vigente in  materia
 di regolamento delle spese giudiziali nel processo civile.
   La  questione all'esame delle Corte attiene all'art. 91 della legge
 fallimentare, che regola l'anticipazione delle spese occorrenti  allo
 svolgimento   e   all'autoalimentazione  della  procedura  effettuata
 dall'erario.  Il giudice rimettente ne propone l'estensione del campo
 di applicazione - fino a ricomprendere al suo interno anche  il  caso
 del  fallimento  chiuso  per  revoca  della sentenza dichiarativa - e
 chiede  una  pronuncia  di  accoglimento,   non   essendo   possibile
 l'espansione  della  norma  ne'  per  via  interpretativa ne' per via
 analogica. Ma l'art. 91 denunciato e' del tutto estraneo al  problema
 che  s'intende risolvere nel giudizio a quo, giacche' non riguarda la
 materia  dell'anticipazione  delle  spese  bensi'  quella  del   loro
 definitivo  regolamento.  La  disposizione  censurata  e' normalmente
 applicabile quando la procedura concorsuale si conclude  in  uno  dei
 suoi  modi  "fisiologici"  -  che,  certo, non e' quello della revoca
 della dichiarazione di fallimento - e vi si ricorre per la momentanea
 difficolta'  di  far  procedere  l'esecuzione  concorsuale.  In  tale
 ipotesi  l'anticipazione  delle spese da parte dell'erario risponde a
 una finalita' pubblicistica, destinata ad  alimentare  la  procedura,
 che  sara'  poi  in  grado di autoalimentarsi, tanto da permettere la
 restituzione all'erario di cio' che ha anticipato.
   5. - La mancanza d'una soluzione  ragionevole  al  caso  sorto  nel
 corso della procedura pendente davanti al Tribunale di Alessandria, e
 in quelli di fallimento incapiente o revocato, anche in ragione delle
 vicende  normative  gia'  ricordate,  non  puo',  tuttavia,  condurre
 all'accoglimento della questione. Anzitutto, perche' il problema, che
 pure esiste e necessita  di  una  soluzione  adeguata,  non  potrebbe
 essere  affrontato,  per la sua evidente estraneita' al caso, facendo
 ricorso  alla  cennata  disposizione;  in  secondo   luogo,   perche'
 comporterebbe la scelta fra una molteplicita' di soluzioni possibili,
 tutte  ascrivibili  alla  discrezionalita'  del legislatore quali, ad
 esempio, il pagamento a carico dell'erario o il  diverso  regolamento
 delle spese.