IL PRETORE Sciogliendo la riserva in ordine all'eccezione di illegittimita' costituzionale del d.-l. 27 maggio 1996, n. 295 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 28 maggio 1996, n. 123, che ha reiterato il d.-l. 28 marzo 1996, n. 166, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 29 marzo 1996, n. 75. O s s e r v a Come gia' sottolineato con l'ordinanza dell'11 aprile 1996 dalla dott.ssa Angela Arbore, in controversia similare, l'art. 1 del citato decreto-legge n. 75/1996 (sostanzialmente riprodotto dall'art. 1 del d.-l. n. 295/1996), si appalesa essere in contrasto con varie norme della costituzione. "In primo luogo", la norma de qua lascia del tutto irrisolto il profilo dell'accertamento del diritto dei pensionati rispetto alle prestazioni oggetto delle sentenze 495 del 1993 e 240 del 1994. Infatti, l'art. 1 statuisce solo in ordine alle modalita' di rimborso delle somme maturate in conseguenza delle suddette pronuncie, ma nulla prevede in ordine all'accertamento del diritto, diversamente, ad esempio da quanto previsto dalla legge n. 87 del 1994, ove si disponeva, si', l'estinzione dei giudizi pendenti, ma era presupposto l'accertamento satisfativo del diritto reclamato negli stessi. Come si legge nella sentenza della Corte costituzionale del 31 marzo 1995, n. 103 (vedasi, in proposito, Foro Italiano 1995, I, 1731 e segg.) "per individuare i limiti di costituzionalita' dell'intervento del legislatore nel processo quando di questo venga definito l'esito attraverso una norma che ne imponga l'estinzione, la Corte ha gia' in altre occasioni valutato il rapporto tra siffatto intervento ed il grado di realizazzione che alla pretesa azionata sia stato accordato per la via legislativa. Allorche' la legge sopravvenuta abbia soddisfatto, anche se non integralmente, le ragioni fatte valere nei giudizi dei quali imponeva l'estinzione, si e' esclusa l'illegittimita' costituzionale di tale ultima previsione, proprio perche' questa sarebbe coerente con il riconoscimento ex lege del diritto fatto valere giudizialmente. Ed invero, per escludersi la menomazione del diritto di azione e' necessario e sufficiente che l'ambito delle situazioni giuridiche di cui sono titolari gli interessati risulti comunque arricchito a seguito della normativa che da' luogo all'estin-zione dei giudizi, come nel caso oggetto della succitata sentenza n. 185 del 1981" (cfr. Corte costituzionale, 10 dicembre 1991, n. 185, in Foro Italiano, 1982, I, 346). Le suddette valutazioni sono state fatte proprie da una fondamentale ordinanza pronunziata dalla Corte costituzionale in data 1 aprile-2 maggio 1996 nella controversia tra Pietrangelo Riccardine e l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, avente ad oggetto l'applicazione della sentenza n. 240 del 1994. Come si legge nella citata ordinanza, con il recente d.-l. 28 marzo 1996 n. 166 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 29 marzo 1996, n. 75) si e' stabilito all'art. 1, per quando qui interessa: a) che il rimborso delle somme, maturate fino al 31 dicembre 1995, sui trattamenti pensionistici erogati dagli enti previdenziali interessati in conseguenza dell'applicazione delle sentenze della Corte costituzionale n. 495 del 1993 e n. 240 del 1994, e' effettuato mediante assegnazione agli aventi diritto di titoli di Stato aventi libera circolazione (comma primo); b) che tale rimborso avverra' in sei annualita', sulla base degli elenchi riepilogativi che gli enti provvederanno annualmente ad inviare al Ministero del tesoro (ivi); c) che il diritto al rimborso delle somme arretrate di cui al primo comma spetta ai soggetti interessati, nonche' ai loro superstiti aventi titolo alla pensione di reversibilita' alla entrata in vigore del decreto (comma secondo); d) che nella determinazione dell'importo maturato al 31 dicembre 1995 non concorrono gli interessi e la rivalutazione monetaria (ivi); e) e che i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge aventi ad oggetto le questioni di cui all'art. 1 sono dichiarati estinti d'ufficio con compensazione delle spese tra le parti, mentre restano privi di effetto i provvedimenti giudiziali non ancora definiti (comma terzo). Poiche' la ricorrente, titolare di una pensione di reversibilita', e' ricompresa, quindi, tra i destinatari del rimborso disciplinato dell'art. 1 e poiche' questo troverebbe, appunto, il suo fondamento nella sentenza della Corte costituzionale n. 240/1994, a norma di tale disposizione il presente giudizio dovrebbe dichiararsi estinto, con compensazione delle spese tra le parti e con i conseguenziali effetti, in favore dell'assicurata, disciplinati dai primi due commi della norma in oggetto. Il risultato che con tale disposizione il legislatore ha inteso conseguire suscita peraltro, sotto diversi aspetti, serie perplessita' in ordine alla sua legittimita' sotto il profilo costituzionale. Per individuare, alla stregua dell'art. 24 della Costituzione, i limiti di costituzionalita' dell'intervento del legislatore nel processo quando di questo venga definito l'esito attraverso una norma che ne imponga l'estinzione, nella giurisprudenza della Corte costizionale, si e' fatto riferimento, in termini generali, al rapporto tra siffatto intervento ed il grado di realizzazione che alla pretesa azionata sia stato accordato per via legislativa. Si e' affermato cioe' che, allorche' la legge sopravvenuta abbia soddisfatto anche se non integralmente, le ragioni fatte valere nei giudizi dei quali imponeva l'estinzione, sia da escludersi l'illegittimita', costituzionale di tale ultima previsione, in quanto il diritto di azione non puo' dirsi vulnerato ove l'ambito delle situazioni, giuridiche di cui sono titolari gli interessati risulti comunque arricchito a seguito della normativa che da' luogo all'estinzione dei giudizi (Corte costituzionale 10 dicembre 1981, n. 185; e, soprattutto, 31 marzo 1995, n. 103). Si e' ritenuto, viceversa, che allorche' lo ius superveniens si opponga alle richieste degli interessati ed alla interpretazione giurisprudenziale ad essi favorevole, stabilendo l'estinzione dei processi in corso, e si operi cosi' da parte del legislatore una sostanziale vanificazione della via giurisdizionale, intesa quale mezzo al fine dell'attuazione di un preesistente diritto, sia da ravvisarsi la violazione del diritto di agire, di cui all'art. 24 della Costituzione (Corte costituzionale 10 aprile 1987, n. 123; nonche' n. 103/1995 cit.). Nella specie, il decreto-legge n. 166 del 1996, nello stabilire l'estinzione ope legis dei giudizi in corso, ha - come detto - escluso anzitutto che sugli importi maturati sino al 31 dicembre 1995 possano essere computati gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, dei quali i soggetti aventi diritto all'integrazione al minimo verrebbero ad essere, quindi, privati nonostante la consolidata interpretazione giurisprudenziale ad essi favorevole. Poiche' lo ius superveniens e' preordinato, in definitiva, non gia' ad arricchire la situazione patrimoniale degli interessati, bensi' a depauperarla attraverso l'esclusione degli "accessori" del credito da essi vantato, e' legittimo il dubbio di costituzionalita' della disposizione in esame, in relazione all'art. 24 della Costituzione. Il dubbio investe anche il terzo comma dell'art. 1, nella parte in cui stabilisce che all'estinzione dei giudizi consegue la "compensazione delle spese tra le parti". Attraverso tale disposizione si sottrae, infatti, al giudice della pretesa sostanziale dedotta in giudizio un punto accessorio della controversia che, ad ogni modo, anche per i riflessi di ordine economico sull'entita' dell'incremento in concreto realizzato dal soggetto vittorioso, non puo' esserne distolto senza che ne resti vulnerato, ancora una volta, l'art. 24 della Costituzione (per riferimenti in tal senso, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, Ord. 3 maggio 1994, n. 664). La disciplina prevista dall'art. 1 e del d.-l. n. 166/1996 per il rimborso delle somme in favore dei soggetti interessati realizza sotto un duplice aspetto una deroga al diritto comune delle obbligazioni. Per un verso, tale disposizione consente invero, al soggetto tenuto al rimborso, di estinguere il proprio debito in sei annualita', precludendo al creditore la possibilita' di esigere tempestivamente l'adempimento dell'obbligazione nella sua interezza (art. 1181 c.c.). Peraltro versa essa, prevedendo che il rimborso delle somme in questione sia effettuato mediante assegnazione agli aventi diritto di titoli di Stato aventi libera circolazione, legittima l'estinzione delle relative obbligazioni mediante una datio in solutum, a prescindere dal consenso del creditore (art. 1197 c.c.). Ora, poiche' la predisposizione di questo particolare sistema di adempimento - inidoneo a realizzare una immediata ed integrale ricostituzione del patrimonio del creditore e per di piu' dotato in qualche misura, di un carattere aleatorio (in relazione alle oscillazioni che si verifichino nel mercato dei titoli di Stato) - ha per destinatari, in assenza di qualsiasi compresibile e razionale giustificazione, le sole categorie di pensionati alle quali il decreto-legge n. 166/1996 fa riferimento, non appare infondato il dubbio di costituzionalita' della relativa disposizione in relazione all'art. 3, comma primo, della Costituzione. Non sembra al Collegio che possa validamente invocarsi in senso contrario il precedente rappresentato dalla sentenza 30 luglio 1980, n. 141 del giudice delle leggi, che dichiaro' infondata, anche in relazione all'art. 3 della Costituzione, la questione di costituzionalita' della normativa che aveva stabilito che gli aumenti derivanti dalle varie azioni del costo della vita venissero corrisposti, per le fasce ivi individuate, tramite buoni del tesoro poliennali. Nel caso allora preso in considerazione dalla Corte costituzionale i soggetti "colpiti" dalla normativa cui si e' fatto cenno appartenevano, infatti, a categorie diverse (lavoratori-dipendenti, titolari di trattamenti pensionistici, ecc.), tra le quali quel "sacrificio" veniva quindi in qualche modo ripartito; laddove nella fattispecie i destinatari del sistema di adempimento delineato dal d.-l. n. 166/1996, coincidono con l'area piu' svantaggiata dei pensionati. (siccome titolari del diritto all'integrazione al minimo), i quali dovrebbero, in via esclusiva subire le conseguenze negative derivanti dalle pur innegabili difficolta' di bilancio della pubblica amministrazione. Ne' pare che, di fronte a tale piu' accentuata disparita' di trattamento, la "tendenza del Parlamento a battere le vie di sempre e a non muovere alla ricerca di ricchezze novelle meno agevolmente identificabili", gia' sottolineata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 141/1980, possa - come allora - trovare adeguata giustificazione nell'ambito della discrezionalita' politica riservato al legislatore. L'art. 3, comma primo, della Costituzione sembra, poi, subire un ulteriore vulnus dalla disposizione di cui all'art. 1 del d.-l. n. 166 del 1996 per la parte in cui esclude dal rimborso gli interessi legali e la rivalutazione monetaria in relazione agli importi maturati a tutto il 31 dicembre 1995. Una volta che gli interessi legali e la rivalutazione monetaria sono dovuti - come si e' in precedenza sottolineato -- in relazione, a ciascuna prestazione di natura previdenziale, appare in effetti lesivo del principio di uguaglianza sancirne l'esclusione nei confronti di talune categorie di crediti (cfr. al riguardo Corte costituzionale 6 dicembre 1988, n. 1060; e 15 marzo 1994, n. 85). Tanto piu' e' da ritenere, del resto, ingiustificata tale disparita' di trattamento ove si consideri che i destinatari del decreto-legge n. 166 del 1996 appartengono - come del pari si e' accennato - a fasce sociali tra le piu' svantaggiate, avendo l'integrazione al minimo la funzione di integrare la pensione quando dal calcolo in base ai contributi accreditati al lavoratore, ovvero al de cuius, risulti un importo inferiore ad un minimo ritenuto necessario, in mancanza di altri redditi di una certa consistenza, ad assicurargli mezzi adeguati alle esigenze di vita (cosi' Corte costituzionale n. 240 del 1994, citata). Ne' potrebbero nel caso in esame trovare ingresso - a giudizio del Collegio - le argomentazioni che, in altra fattispecie hanno indotto il giudice delle leggi ad escludere la violazione dell'art. 3 della Costituzione in relazione ai rimborsi dovuti dall'I.N.P. S. a titolo di sgravi contributivi per effetto della sentenza n. 261 del 1991 della Corte costituzionale, rimborsi che il d.-l. 22 marzo 1993, n. 71, convertito in legge 20 maggio 1993, n. 151, aveva consentito che avvenissero in dieci annualita', senza oneri - per l'istituto - di rivalutazione monetaria ed interessi e senza la possibilita' di compensazione con i debiti dell'imprenditore nei confronti dell'I.N.P. S. (sentenza 13 luglio 1995, n. 320). In quel caso, infatti, la Corte costituzionale ha osservato che il legislatore, nelle sue discrezionali scelte di politica economica, aveva emanato norme di favore per determinate imprese sgravandole dall'onere di corrispondere contributi sociali per incentivare la produzione e sviluppare l'occupazione; che le imprese escluse dal beneficio avevano realizzato, quindi, i loro programmi di produzione ripartendo costi e ricavi secondo l'impostazione dei rispettivi bilanci; e che la successiva estensione degli stessi benefici a queste imprese, conseguente alla sentenza n. 261 del 1991, si differenziava da quella situazione originaria poiche' il rimborso a distanza di tempo dei contributi non conseguiva piu' le finalita' sociali che avevano giustificato lo sgravio (non essendo possibile "ora per allora" incentivare produzione e occupazione). Ed ha ritenuto, pertanto, che non vi fosse una dispari'ta' di trattamento tra le imprese che avevano beneficiato pienamente degli sgravi e quelle destinatarie della legge da ultimo richiamata in quanto, in questa diversa prospettiva, ed anche in considerazione delle esigenze di reperimento delle necessarie risorse finanziarie, erano da considerare legittimi i limiti e le gradualita' introdotti in tali sopravvenute erogazioni. Da quanto precede emerge, quindi, che la particolare disciplina allora devoluta al giudizio della Corte costituzionale trovava la propria giustificazione, oltre che nella condizione finanziaria di crisi della pubblica amministrazione, nelle diverse finalita' assolte dall'istituto degli sgravi contributivi con riferimento ai suoi destinatari; laddove nel caso in esame non sembra ravvisabile, nell'ambito di quella parte della pensione rappresentata dall'integrazione al minimo, sottratta ai beneficiari, una distinzione della sua funzione previdenziale - in rapporto alla diversa epoca della sua erogazione in loro favore. Il dubbio di costituzionalita' in ordine all'art. 1 del decreto-legge n. 166 del 1996, per la parte presa in considerazione, si profila, infine, anche in relazione all'art. 38 della Costituzione, quanto meno per il periodo anteriore alla entrata in vigore dell'art. 16, comma sesto, della legge n. 412 del 1991. Nella sentenza 12 aprile 1991, n. 156 e' stato affermato dalla Corte costituzionale che, per il tramite e nella misura dell'art. 38, comma secondo, della Costituzione, si rende applicabile anche alle prestazioni previdenziali l'art. 36, comma primo, della Costituzione (di cui l'art. 429 c.p.c. e' un modo di attuazione), quale parametro delle esigenze di vita del lavoratore; e che la mancata previsione di una regola analoga per i crediti previdenziali costituisce violazione non solo dell'art. 3 della Costituzione, ma anche dell'art. 38. Ora, poiche' l'integrazione al minimo rappresenta una componente non ancora liquidata dell'ordinaria pensione (cass. sez. un. 21 giugno 1990, n. 6245; e Corte cost. n. 240/1994 cit.), la previsione normativa circa la mancata corresponsione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria sui crediti a questo titolo maturati a tutto il dicembre 1995 sembra porsi in contrasto con quel precetto costituzionale. Tenuto conto di tutte le considerazioni che precedono, stante la rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale delle disposizioni del decreto-legge n. 166 del 1996 sopra indicate, gli atti devono essere trasmessi alla Corte costituzionale e deve nel contempo disporsi che la cancelleria adempia alle notificazioni ed alle comunicazioni prescritte, dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, come precisate in dispositivo.