IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
   Considerato  che  Mariano  Ciro  propone  reclamo avverso il d.m. 9
 febbraio 1996 emanato ai sensi dell'art. 41-bis, secondo comma, l.p.,
 che instaura un regime di trattamento differenziato fino all'8 agosto
 1996;
   Preso atto che Mariano Ciro in atti risulta essere  appellante  per
 associazione   a   delinquere  di  stampo  camorristico  e  omicidio,
 giudicabile per concorso  in  associazione  a  delinquere  di  stampo
 camorristico,  piu'  giudicabile  per  associazione  a  delinquere di
 stampo camorristico, piu' ricorrente per  associazione  a  delinquere
 finalizzata  al traffico di stupefacenti e omicidio, piu' giudicabile
 per  associazione   a   delinquere   finalizzata   al   traffico   di
 stupefacenti,  nonche'  definitivo per un provvedimento di cumulo per
 associazione camorristica, armi e altro;
   Atteso che l'art. 41-bis introdotto con  art.  19  d.-l.  8  giugno
 1992,  n. 306, convertito con legge n. 356 del 7 agosto 1992, dispone
 che "Quando ricorrano gravi motivi di ordine  e  sicurezza  pubblica,
 anche  a richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro di grazia e
 giustizia ha altresi' la facolta' di sospendere, in tutto o in parte,
 nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti  di  cui  al  comma
 primo  dell'art.  4-bis, l'applicazione delle regole di trattamento e
 degli istituti  che  possono  porsi  in  concreto  contrasto  con  le
 esigenze di ordine e sicurezza";
   Letto  che  il  decreto  ministeriale  impugnato, in considerazione
 della particolare pericolosita' del soggetto che  rende  ipotizzabile
 la   permanenza  di  collegamenti  operativi  con  le  organizzazioni
 criminali, sospende la corrispondenza telefonica,  la  corrispondenza
 epistolare  e  telegrafica  con  altra  persona  detenuta,  anche  se
 congiunto o convivente, i colloqui con i terzi, limita i colloqui con
 i familiari e conviventi ad uno al mese e di durata non superiore  ad
 un'ora, indipendentemente dal numero delle persone, sottopone a visto
 di   controllo   del   direttore   la   corrispondenza  epistolare  e
 telegrafica, limita la ricezione  dei  pacchi  contenenti  generi  ed
 oggetti  ad  un  solo pacco al mese nei limiti di peso stabiliti (kg.
 5), prescrivendo che contenga  esclusivamente  abiti,  biancheria  ed
 indumenti intimi, sospende la ricezione di somme in peculio superiori
 all'ammontare  mensile  stabilito  ex  art.  54 d.P.R.   n. 431/1976,
 sospende le attivita' culturali, ricreative e sportive,  sospende  il
 c.d. lavoro a domicilio, sospende l'acquisto al sopravvitto di generi
 alimentari  che  richiedono  cottura  e limita la permanenza all'aria
 aperta a due ore al giorno.
                             O s s e r v a
   In via preliminare occorre sottolineare che ai ristretti  in  stato
 di  detenzione  va  riconosciuta la titolarita' situazioni soggettive
 attive, come gia' dichiarato dalla Corte costituzionale con  sentenza
 n.  349/1993,  cosi  come  garantita  quella parte di liberta' che la
 detenzione non intacca.
   Va tenuto fermo, pertanto, il principio della inviolabilita'  della
 liberta'  personale  sancita  dall'art.  13  Cost.,  valido anche nei
 confronti  dei  sottoposti  a  limitazioni  della   stessa   liberta'
 personale  durante  la  custodia  cautelare ovvero l'esecuzione della
 pena, sia pure con tutte le restrizioni che lo  stato  di  detenzione
 comporta.
   Da qui un primo corollario di fondamentale importanza sancito dalla
 Corte   costituzionale   nella   succitata  sentenza:  l'adozione  di
 provvedimenti tesi ad introdurre restrizioni nell'ambito della  parte
 residua  di  liberta'  personale,  sempre  viva  anche  nei  soggetti
 detenuti,  di  restrizioni   che,   comunque   comportino   ulteriori
 limitazioni  della  liberta'  personale, puo' avvenire esclusivamente
 con le garanzie espressamente previste dall'art. 13 Cost., riserva di
 legge e riserva di giurisdizione.
   Alla liberta' personale del soggetto corrisponde, d'altra parte, il
 potere di coazione dello Stato, a difesa dei cittadini e  dell'ordine
 giuridico,   potere   che   si   estrinseca   attraverso  l'attivita'
 dell'Amministrazione, cui compete la responsabilita' della  custodia,
 del  trattamento  e della sicurezza dell'istituzione penitenziaria, e
 l'attivita' dell'Ordine giudiziario, cui  spetta  l'attuazione  della
 potesta'  punitiva  dello  Stato e il controllo sull'esecuzione della
 pena.
   E' vero che l'Amministrazione puo'  intervenire  con  provvedimenti
 che incidono sulle modalita' di esecuzione della pena, ma e' pur vero
 che  tali  interventi  non possono essere in contrasto con i principi
 costituzionali tutelati ex artt. 13, 24, 27, 113 Cost..
   La Corte costituzionale nella sentenza n. 349/1993 ha  riconosciuto
 la  sindacabilita'  dei  provvedimenti emessi ex art. 414-bis l.p. da
 parte del  giudice  ordinario,  secondo  le  medesime  modalita'  del
 controllo  giurisdizionale  esercitato ai sensi di legge sull'operato
 dell'Amministrazione   penitenziaria   nonche'   sui    provvedimenti
 riguardanti l'esecuzione delle pene.
   Precisando,  con  la  pronunzia n. 410 del 1993, che "... una volta
 affermato che  nei  confronti  dell'Amministrazione  penitenziaria  i
 detenuti  restano  titolari  di  posizioni giuridiche che per la loro
 stretta inerenza alla persona umana sono qualificabili  come  diritti
 soggettivi  costituzionalmente  garantiti,  occorre  conseguentemente
 riconoscere  che  la  tutela  giurisdizionale  di   dette   posizioni
 costituzionalmente   necessaria   ai   sensi   dell'art.   24   della
 Costituzione, non puo' che spettare al giudice dei diritti e cioe' al
 giudice  ordinario.  Nell'attuale  quadro  normativo,  pertanto,   in
 assenza  di  disposizioni  espresse,  la  competenza  a  sindacare la
 legittimita'   dei   provvedimenti   adottati    dall'Amministrazione
 penitenziaria  ai  sensi  dell'art. 41-bis deve riconoscersi a quello
 stesso  organo  giurisdizionale  cui  e'   demandato   il   controllo
 sull'applicazione,  da  parte  della  medesima  Amministrazione,  del
 regime  di  sorveglianza  particolare,  ai  sensi  dell'art.   14-ter
 dell'ordinamento penitenziario".
   Identita'  di  controllo, quindi, da parte del giudice ordinario su
 due regimi di detenzione particolari: la  sorveglianza  speciale,  ex
 art. 14-bis l.p., e il regime differenziato, ex art. 41-bis l.p..
   E  non  solo,  ma  anche  affinita' di contenuto tra l'art. 41-bis,
 introduttivo del regime differenziato di sospensione del  trattamento
 penitenziario,  e  l'art.  14-bis  e seguenti, che nella sua concreta
 applicazione, cita la Corte  "...  viene  ad  assumere  un  contenuto
 largamente  coincidente  con  il regime differenziato..... introdotto
 con il provvedimento ex art. 41-bis".
   Ed ancora... "E' di intuitiva evidenza  che  il  potere  esercitato
 serve,   in   entrambi   i  casi,  a  consentire  all'Amministrazione
 penitenziaria di predisporre  uno  strumento  di  particolare  rigore
 mediante  il  quale  fronteggiare la pericolosita' di ben determinate
 categorie di detenuti.
   Ricorre,  inoltre,  una  notevole  identita' di presupposti, stante
 l'ampia  possibilita'  di  applicare  il   regime   di   sorveglianza
 particolare   a   qualsiasi   detenuto,   sulla  base  di  precedenti
 comportamenti  penitenziari,  ''o  di  altri  concreti  comportamenti
 tenuti nello stato di liberta''' (art. 14-bis, quinto comma)".
   Ricordiamo, per un attimo, la sequenza legislativa che ha dato vita
 all'assetto attuale.
   L'art.  14-bis  e'  stato introdotto nell'ordinamento penitenziario
 dall'art. 1 legge 10 ottobre 1986, n. 663:  "Regime  di  sorveglianza
 particolare.  Possono  essere  sottoposti  al  regime di sorveglianza
 particolare per un periodo non  superiore  a  sei  mesi,  prorogabile
 anche  piu'  volte,  in misura non superiore ogni volta a tre mesi, i
 condannati, internati e gli imputati.....".
   La medesima novella  del  1986  introduceva  l'art.  41-bis,  comma
 primo, in sostituzione dell'abrogato art. 90 legge n. 354/1975.
   Giova  richiamare  il  suo  contenuto: "Situazioni di emergenza. In
 casi eccezionale di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza,
 il  Ministro  di  grazia  e  giustizia  ha  facolta'  di   sospendere
 nell'istituto  interessato  o  in  parte di esso l'applicazione delle
 normali regole di trattamento dei  detenuti  e  degli  internati.  La
 sospensione  deve  essere  motivata  dalla necessita' di ripristinare
 l'ordine e la sicurezza e ha la  durata  strettamente  necessaria  al
 conseguimento del fine suddetto".
   Questo il dettato dell'art. 41-bis, comma primo, inserito sull'onda
 delle molteplici polemiche sollevate dall'abrogato art. 90.
   Si  presenta, ad una semplice lettura, doverosamente "limitato" nei
 suoi  spazi  applicativi,  sia  temporalmente,  "durata  strettamente
 necessaria al conseguimento del fine suddetto", sia per la sua stessa
 ragione  d'essere  "casi  eccezionali  di  rivolta  o  di altre gravi
 situazioni di emergenza".
   Il nuovo assetto normativo  penitenziario,  anno  1986,  prevedeva,
 quindi,     due     possibilita'    di    intervento    "particolare"
 dell'Amministrazione   penitenziaria,   attraverso   l'art.   14-bis,
 introduttivo  del  regime  di  sorveglianza particolare ad personam e
 l'art. 41-bis, comma primo,  portatore  di  un  regime  differenziato
 inerente l'istituto penitenziario, o una parte di esso.
   Nel sistema, peraltro, era gia' inserita la possibilita' di reclamo
 al  giudice  ordinario,  ex art. 14-ter, introdotto dall'art. 2 della
 legge n. 663/1986.
   Successivamente, con il d.-l. 8 giugno  1992,  n.  306,  convertito
 nella  legge 7 agosto 1992, n. 356, viene inserito il comma nell'art.
 41-bis, che prevede la sospensione  delle  regole  di  trattamento  e
 degli  istituti  previsti dalla legge penitenziaria nei confronti dei
 detenuti per taluno dei delitti  di  cui  al  comma  primo  dell'art.
 4-bis, articolo introdotto nel medesimo decreto-legge.
   Ritorna,    quindi,   il   regime,   differenziato   ad   personam,
 generalizzato, e ritorna quella tipizzazione del detenuto, per taluno
 dei delitti di cui  al  comma  primo  dell'art.  4-bis  due  "sistemi
 operativi di intervento" ad opera dell'Amministrazione penitenziaria,
 avverso i quali gia' la dottrina nonche' la giurisprudenza precedente
 si era gia' innumerevoli volte pronunziata.
   E  rileggiamo insieme nuovamente il secondo comma dell'art. 41-bis:
 "Quando ricorrano gravi motivi di ordine  e  di  sicurezza  pubblica,
 anche a richiesta del Ministero dell'interno, il Ministro di grazia e
 giustizia ha altresi' la facolta' di sospendere, in tutto o in parte,
 nei  confronti  dei  detenuti  per taluno dei delitti di cui al comma
 primo dell'art. 4-bis, l'applicazione delle regole di  trattamento  e
 degli  istituti  previsti  dalla  presente legge che possano porsi in
 concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza".
   Come puo' notarsi, anche ad una lettura superficiale, e'  scomparso
 qualunque   richiamo   temporale;   laddove   si   passa  dal  regime
 differenziato  per  istituto  al  regime   differenziato   personale,
 scompare  la  limitazione  della  "durata  strettamente necessaria al
 conseguimento del fine suddetto".
   Temporaneita', che non solo, e' presente nel comma primo  dell'art.
 41-bis, ma che ritorna anche nel disposto dell'art. 14-bis, regime di
 sorveglianza  particolare, laddove il comma primo cita letteralmente:
 "Possono essere sottoposti a regime di sorveglianza  particolare  per
 un  periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche piu' volte in
 misura non superiore ogni volta a tre mesi, i condannati...".
   Abbiamo gia' visto come la Corte costituzionale nella  sentenza  n.
 410/1993  ha  riconosciuto  "la notevole identita' di presupposti" in
 una al "contenuto largamente coincidente" tra l'art. 14-bis e  l'art.
 41-bis, comma secondo, e il limite temporale?
   L'applicazione  del  regime  differenziato  ex  art.  41-bis, comma
 secondo, opera senza possibilita' di limitazioni temporali,  sia  per
 dettato normativo, sia per concreta fattispecie, atteso che i decreti
 ministeriali   di   sospensione   delle   regole  di  trattamento  si
 susseguono, di sei mesi in sei mesi, dal 1993, senza che peraltro sia
 indicata, nelle  successive  proroghe,  alcuna  motivazione  nuova  o
 diversa  rispetto  alla  prima,  origine dell'applicazione del regime
 differenziato.
   A cio' aggiungasi, che  mentre  l'art.  29  del  decreto  legge  n.
 306/1992,   istitutivo   del   regime   differenziato,  prevedeva  la
 cessazione dell'efficacia delle  disposizioni  di  cui  all'art.  19,
 ossia  41-bis,  comma  secondo,  trascorsi  tre anni dalla entrata in
 vigore della legge di conversione del decreto, l'art. 1  della  legge
 16  febbraio  1995,  n.  36,  ha  prorogato tale efficacia fino al 31
 dicembre 1999.
   Pertanto, dal combinato disposto delle leggi  suindicate,  si  puo'
 dedurre  che  il  nostro ordinamento prevede l'esistenza di un regime
 differenziato di esecuzione della pena per una particolare  tipologia
 di   detenuto,   determinato   per  legge,  che  ha  possibilita'  di
 applicazione, al momento, dal 1993 al 1999.
   Nel caso di specie, per esempio, il Mariano  corre  il  rischio  di
 continuare  ad  espiare  la  sua  pena, per i delitti per cui e' gia'
 stato condannato, o solo, a vedersi privato della liberta'  personale
 in  stato  di  custodia  cautelare,  nella veste di solo imputato, in
 condizioni di regime differenziato dal 1993,  come  gia'  accade,  al
 1999,  sulla  base  di  una  normativa  attale del nostro ordinamento
 penale e in presenza di una motivazione di fatto che e' la stessa del
 1993, tirata in ballo e rivestita di  nuovo  ogni  sei  mesi.  Sembra
 inevitabile  la  contestazione  della incostituzionalita' del dettato
 dell'art.  41-bis, comma secondo, in relazione agli artt. 3, 13,  24,
 25, 27, 113 della Costituzione, come ora andremo a motivare.
   E  cio', per sfatare strumentali o strategiche interpretazioni, non
 in difesa di questa o quella modalita' operativa  o  di  qualsivoglia
 tipicita'  di  intervento proprie della magistratura di sorveglianza,
 come gia' sussurrato di fronte agli innumerevoli ricorsi  alla  Corte
 costituzionale  proposti  in riferimento all'art. 41-bis, ma solo per
 salvaguardare  quei  principi   fondamentali   della   nostra   carta
 costituzionale  anche  nella  fase della esecuzione della pena, nella
 fase in cui, in pratica, "si fa diritto".
   A)  In  particolare,  puo'  affermarsi  che  l'art.  41-bis,  comma
 secondo,  si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella
 parte in cui ipotizza una specifica categoria di detenuti, imputati e
 condannati, predeterminati per dettato normativo,  costretti  ad  una
 esecuzione  della  pena,  o  anche  solo  della  custodia  cautelare,
 comunque diversa da quella disposta per la criminalita' ordinaria.
   Del resto la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 349/1993
 aveva espresso la sua perplessita' dinanzi ad una individuazione, per
 titolo dei reati, dei destinatari dei  provvedimenti  restrittivi  ex
 art.   41-bis,  evidentemente  poco  coerente  con  il  principio  di
 individualizzazione della pena. Ed infatti la stessa Corte  ribadiva:
 ...  "deve  ritenersi  implicito - anche in assenza di una previsione
 espressa  della  norma,  ma  sulla   base   dei   principi   generali
 dell'ordinamento  - che i provvedimenti ministeriali debbano comunque
 recare una puntuale motivazione per ciascuno dei  detenuti  cui  sono
 rivolti  (in  modo  da  consentire  poi  all'interessato un'effettiva
 tutela  giurisdizionale),  che  non  possano   disporre   trattamenti
 contrari  al  senso di umanita', e, infine, che debbano dar conto dei
 motivi  di  una  eventuale  deroga  del  trattamento  rispetto   alle
 finalita' rieducative della pena...".
   In  breve,  nelle  parole  della  Corte ritorna tutto lo spettro di
 situazioni   di   incostituzionalita'   ipotizzabili,   nonche'   qui
 richiamate, dall'art. 3 all'art. 27 Costituzione.
   E'  opportuno ricordare ancora, che la Corte, sentenza n. 349/1993,
 continua sottolineando che le  medesime  ragioni  che  consentono  di
 escludere    l'illegittimita'    costituzionale   dell'art.   41-bis,
 delimitandone l'ambito applicativo ed integrandone il portato con  il
 richiamo   ai  principi  generali  dell'ordinamento,  conducono  alla
 conclusione che taluni dei  rilievi  dei  giudici  remittenti,  nelle
 precedenti  eccezioni  di incostituzionalita' prospettate, trovano la
 loro  causa  non  nell'articolo  di  legge  ma   solo   nel   decreto
 amministrativo    di    applicazione,   atteso   che   una   corretta
 interpretazione  dell'art.  41-bis  secondo   comma,   non   consente
 l'adozione  di  provvedimenti  suscettibili  di incidere sul grado di
 liberta' personale del detenuto.
   Tesi accettabilissima, fin quando pero' non  ci  si  trova  dinanzi
 alla proroga immotivata e ripetuta del decreto ministeriale stesso.
   Anche a voler riconoscere con la suprema Corte che ... "la corretta
 lettura  della  norma  non  puo' che limitare il potere attribuito al
 Ministro alla sola sospensione di quelle medesime regole ed  istituti
 che  gia' nell'Ordinamento penitenziario appartengono alla competenza
 di ciascuna amministrazione penitenziaria e si riferiscono al  regime
 di   detenzione   in   senso  stretto"...,  non  puo'  non  suscitare
 perplessita' l'evidente contrasto con il dettato dell'art.  3,  primo
 comma,  13,  secondo  comma, 27, secondo e terzo comma, Costituzione,
 laddove la proroga ripetuta e immotivata del decreto esula  di  fatto
 da quei caratteri di "uguaglianza, necessita', urgenza, provvisorita'
 e umanita'" costituzionalmente rilevanti.
   E'  evidente che in tale situazione deve, estrema ratio, ricorrersi
 all'attribuzione dell'intera responsabilita'  al  dettato  normativo,
 che  solo  se  diversamente  scritto,  potrebbe  evitare  il monotono
 susseguirsi di anomalie giuridiche.
   L'art. 41-bis, comma secondo, opera indipendentemente e al  di  la'
 di   situazioni  di  eccezionalita'  e  emergenza,  nonche'  da  ogni
 previsione temporale, concetti che pure compaiono nel comma primo del
 medesimo articolo; ne', del resto, risulta ancorato ad  atteggiamenti
 particolarmente   significativi   del  detenuto  sia  soggettivi  che
 oggettivi, comunque inerenti la sua condotta  intramuraria  ovvero  i
 suoi rapporti con il mondo esterno.
   Nei  decreti  ministeriali successivamente notificati, con proroghe
 di  sei  mesi  in  sei  mesi,  dal  1993  in  poi,   unico   elemento
 "giustificativo"   della   proroga,   ossia,   nuovo   rispetto  alla
 motivazione di base , appare la "polemica" pseudogiuridica  innestata
 con    i    tribunali    di    sorveglianza   sulla   interpretazione
 giurisprudenziale dei decreti stessi.
   Del resto nei decreti ministeriali che si allegano, appare evidente
 che la motivazione strettamente collegata alla  persona  del  Mariano
 esula  da riferimenti a fatti o persone comunque successivi nel tempo
 a quanto indicato nel d.m. del 1993, nonche' da qualunque riferimento
 alla posizione giuridica stessa del detenuto, che nel frattempo,  per
 esempio,  risulta  assolto con formula piena da una delle imputazioni
 per omicidio, fondandosi essenzialmente sulle aggiornate, ma solo  in
 quanto   al   tempo,   informazioni  delle  forze  dell'ordine  sulla
 pericolosita' del detenuto.
   Ci troviamo, di fatto, di fronte ad una tipizzazione del  detenuto,
 "speciale"  in quanto ha commesso uno o piu' reati indicati nell'art.
 4-bis  della  legge  penitenziaria;  tipizzazione,  che,  al  limite,
 potrebbe  avere  anche  una sua ratio nella particolare pericolosita'
 sociale  dimostrata  da  taluni  soggetti,  refrattari  a   qualsiasi
 trattamento  riabilitativo, ed anzi cosi' spiccatamente pericolosi da
 rendere indispensabile l'adozione di un regime differenziato nei loro
 confronti, ma che in quanto tale, pero', trova spazio giuridico  solo
 se ancorata a precisi e predeterminati criteri di eccezionalita', sia
 oggettiva  che  soggettiva,  comunque  riprodotti  in  una  severa  e
 dettagliata motivazione.
   Sembra superfluo ribadire che una  corretta  stesura  della  norma,
 proprio nel rispetto di quei principi costituzionali gia richiamati e
 dell'interpretazione   rigorosamente   restrittiva   delle  norme  di
 carattere  eccezionale,  implica,  necessariamente,  una  indicazione
 netta di temporaneita' nonche' la esigenza di una verifica costante e
 continua degli sviluppi della situazione.
   B)  Ne'  la  riconosciuta  possibilita' di impugnazione del decreto
 dinanzi al giudice  ordinario,  nel  rispetto  dell'art.  113,  comma
 primo, Costituzione, e' sufficiente a colmare il disagio legislativo.
   La  situazione  di fatto creata dalla proroga inopinata del decreto
 ministeriale, infatti, e' evidente, non  puo'  non  creare  serissimi
 ostacoli a quel diritto di difesa, pur riconosciuto come "inviolabile
 in ogni stato e grado del procedimento" dall'art. 24 Costituzione.
   Difesa  che,  ne'  in  diritto  ne' in fatto, trova possibilita' di
 esplicazione  di  fronte  al  ripetersi  monotono  e  immotivato   di
 contestazioni consolidate ancorate a episodi storici ormai datati, di
 fronte  a  decreti  ministeriali  in  cui  unico  elemento innovativo
 risulta   essere   l'adeguamento   o   meno   alle  ultime  decisioni
 giurisprudenziali.
   La stessa Corte aveva ipotizzato il verificarsi di tali incresciose
 ipotesi  quando  aveva  evidenziato  la  necessita'  che  i   decreti
 ministeriali  contenessero  una puntuale motivazione per ciascuno dei
 detenuti cui rivolti, "in  modo  da  consentire  poi  all'interessato
 un'effettiva tutela giurisdizionale" sentenza n. 410/1993 richiamata.
   E'  sintomatico, nel caso di specie, che Mariano Ciro, di fronte al
 sesto decreto ministeriale ex art. 41-bis non ha  ritenuto  opportuno
 neppure piu' procedere alla nomina del difensore di fiducia.
   C)  L'art.  41-bis,  comma  secondo,  l.p. si pone in contrasto con
 l'art. 27 Costituzione laddove la continua incidenza  di  restrizioni
 comunque influenti "sulla pena" e sul grado di liberta' personale del
 detenuto,  residua  e  "ancora  piu'  preziosa  in quanto costituisce
 l'ultimo  ambito  nel  quale  puo'   espandersi   la   sua   liberta'
 individuale",  non  puo'  non  concretizzarsi  in  un trattamento, di
 fatto, contrario al senso di  umanita'  e  opporsi  a  quel  fine  di
 rieducazione   del   condannato,   che   l'art.  27,  comma  secondo,
 Costituzione tutela.
   In effetti  il  decreto  ministeriale,  prevedendo  la  sospensione
 dell'applicazione  delle  regole  di  trattamento  e  degli  istituti
 previsti dall'ordinamento  penitenziario,  preclude  al  detenuto  la
 possibilita'  di  fruire  di  quel  trattamento  rieducativo  di  cui
 all'art. 13 della legge n.  354/1975,  nonche'  la  partecipazione  a
 quelle attivita' culturali, ricreative e sportive, indicate nell'art.
 27,  legge  medesima,  sistemi  finalizzati  alla realizzazione della
 personalita' del detenuto e alla sua risocializzazione.
   Equivale  a  riconoscere  che  determinate  categorie  di  soggetti
 sfuggono, di fatto, a qualunque tentativo di  risocializzazione.
   Nessuna obiezione nell'accettare la fondatezza e la razionalita' di
 una  tale  scelta  operativa;  occorre tenere presente, pero', che il
 nostro ordinamento giuridico si basa su principi generali ben precisi
 e immodificabili, con i quali e' sempre opportuno confrontarsi  nella
 ricerca  di  momenti  di  mediazione,  ma  dai  quali,  comunque,  e'
 impossibile prescindere.
   L'art. 41-bis, comma secondo, in particolare, si pone in  contrasto
 anche con il primo comma dell'art. 27 Costituzione, laddove introduce
 la  possibilita'  di  applicazione  del regime differenziato anche al
 solo imputato per taluno  dei  delitti  ex  art.  4-bis,  ordinamento
 penitenziario.
   Cio'   inevitabilmente  rappresenta  una  violazione  gravissima  e
 immotivata del dettato dell'art. 27 Costituzione, primo comma.
   Paradossalmente,   l'imputato,   non    colpevole    per    dettato
 costituzionale, comma primo art. 27, proprio  in quanto imputato, per
 quei  determinati  delitti,  e' soggetto alle limitazioni disposte ex
 art. 41-bis: sembra una  contraddizione di parole, ma corrisponde  ad
 una  situazione  di  fatto,  che  resta  innegabile nella sua anomala
 concretezza.
   D) E vale la pena di ricordare qui anche il dettato  costituzionale
 dell'art.  25, laddove, al comma secondo,  sancisce che "Nessuno puo'
 essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in  vigore
 prima del fatto  commesso".
   Crediamo  che  sia  pacifica  l'interpretazione che vede il termine
 "punire" non strettamente connesso alla sola sanzione penale prevista
 legislativamente.
   Se "punire" equivale a punizione,  il  decreto  ministeriale,  che,
 comunque,   aggiunge   "pena   a   pena",   che   comunque  restringe
 ulteriormente  lo  spazio  vitale  del  detenuto,  e  questo   sembra
 innegabile,  trova la propria fonte normativa in un decreto legge del
 1992, 8 giugno, n. 306, ossia  successivo  al  momento  dei  commessi
 reati,  o  dei  presunti  commessi  reati  per  i  quali il detenuto,
 Mariano, trovasi attualmente detenuto.
   Sembra innegabile  l'irretroattivita'  delle  disposizioni  penali,
 come    principio   generale   dell'ordinamento,   dovrebbe   operare
 verosimilmente in ogni dettato normativo.
   Nell'ambito  delle  stesse  disposizioni  antimafia   si   potrebbe
 ricordare  il  dettato  dell'art. 4 d.-l. 13 maggio 1991, n. 152, che
 statuisce che "Le disposizioni di cui all'articolo 1  condannati  per
 delitti commessi dopo la entrata in vigore del presente decreto".
   Una dizione del genere poteva essere sufficiente, magari, a salvare
 l'art.    41-bis,    comma    secondo,    dall'ennesima   accusa   di
 incostituzionalita'.
   In verita', dopo la prima pronunzia della Corte  costituzionale  di
 rilievo  fondamentale,  la  sentenza  n.  349/1993, il riconoscimento
 formale della sindacabilita'  del  decreto  ministeriale,  emesso  ai
 sensi  dell'art. 41-bis, comma secondo, legge penitenziaria, da parte
 del giudice ordinario sembrava aver fugato perplessita' e dubbi sulla
 eccezionalita' della norma in oggetto.
   Successivamente, invece, una numerosa produzione  giurisprudenziale
 si   faceva   portavoce   delle  problematiche  interpretative  della
 magistratura di sorveglianza, ormai abituata a lavorare sulla base di
 disposizioni  legislative  nate  sull'onda   emozionale   collettiva,
 collegate  ad  un  particolare momento storico-sociale del paese, che
 comunque si trovano  a  riverberare  i  propri  effetti,  inutilmente
 malefici,  negli  anni  successivi su situazioni comunque diverse per
 tempo, luogo e personaggi.
   Ben altre potevano  essere  le  possibilita'  di  intervento  della
 autorita' amministrativa per risolvere problemi di ordine e sicurezza
 pubblica, come gia' evidenziati piu' volte e in varie sedi e in tempi
 non sospetti dai magistrati di sorveglianza (leggi incontri di studio
 del   Consiglio   superiore  della  magistratura  in  Frascati,  anni
 1993-1994-1995).
   Altri e diversi  sistemi  operativi  avrebbero  ottenuto  risultati
 forse piu' efficaci.
   Con  altre modalita' operative si sarebbe potuto forse evitare che,
 nonostante tutto il clamore politico e  giurisprudenziale  intorno  a
 questo    articolo,    la    stessa   Amministrazione   penitenziaria
 riconoscesse, come  accaduto  nei  primi  mesi  di  questo  anno,  la
 ineffacia, di fatto, del decreto stesso.
   I magistrati di sorveglianza, del resto, si vedono impegnati, ormai
 semestralmente, nel tentativo di amalgamare le richieste dei detenuti
 soggetti   a   tale   regime   differenziato   con   le   aspettative
 costituzionali, che, pur sempre,  nella  qualita'  di  giudici,  sono
 chiamati a garantire e tutelare.
   Da  qui eccezioni di incostituzionalita' spesso ripetitive e' vero,
 ma di certo finalizzate in assoluto alla ricerca di una soluzione del
 problema, che rispetti e  difenda  i  principi  generali  del  nostro
 ordinamento, e che trovi infine il coraggio del diritto per eliminare
 situazioni di insostenibile ibridismo giuridico.