IL TRIBUNALE
   Decidendo  sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 323 c.p. perche' in contrasto con gli artt. 25, comma secondo, e  97,
 comma  primo,  della  Costituzione sollevata dalla difesa di Magnaghi
 Felice, nel procedimento n. 1707/95 r.g. trib.  a  carico  di  Crusco
 Salvatore, Magnaghi Felice e Rosetti Marco, sentite le parti.
                             O s s e r v a
   La  questione  e'  rilevante e non manifestamente infondata e deve,
 pertanto, disporsi la sospensione del processo e la rimessione  degli
 atti alla Corte costituzionale per la sua decisione.
   1.  -  Difatti,  quanto  alla sua non manifesta infondatezza l'art.
 25,  comma  secondo,  della  Costituzione  pone  il  principio  della
 necessaria    tassativita'   e   sufficiente   determinatezza   della
 fattispecie incriminatrice penale, a salvaguardia  dei  cittadini  da
 possibili  abusi  del  potere giudiziario ed al fine di determinare i
 poteri interpretativi del giudice.
   Cio' premesso il legislatore, con la riforma di cui alla  legge  n.
 86/90,  che ha novellato il titolo II del libro II del codice penale,
 onde armonizzare il complesso della disciplina dei  reati  contro  la
 pubblica  amministrazione  con  il  contenuto  normativo dell'art. 25
 della Costituzione (come risulta anche dai lavori  preparatori  della
 legge)  ha inteso ovviare alle incertezze interpretative suscitate in
 dottrina e  in  giurisprudenza  dalle  fattispecie  cosi  abrogate  e
 circoscrivere    adeguatamente,    attraverso   una   piu'   compiuta
 tipizzazione legislativa,  le  fattispecie  novellate  onde  impedire
 possibili  sconfinamenti  del potere giudiziario nell'esercizio della
 discrezionalita' amministrativa.
   Il testo novellato dell'art. 323  non sembra pero' soddisfare  tali
 esigenze, considerato che le modalita' di tipizzazione della condotta
 ivi  descritte  non  appaiono  tali  da prevenire i rischi di una sua
 applicazione elastica ed indeterminata.
   Com'e'  noto,  in  forza   di   una   consolidata   giurisprudenza,
 costituisce  abuso  d'ufficio  ogni  condotta, si concreti essa in un
 atto  amministrativo  o  in  un'attivita'  materiale,   compiuta   in
 violazione   delle  norme  che  regolano  l'esercizio  dell'attivita'
 pubblica:  ogni  utilizzazione,  quindi,  dei  poteri  d'ufficio  che
 oggettivamente  frustri  o  alteri  la finalita' istituzionale che il
 soggetto pubblico e' tenuto a perseguire.
   Pertanto, l'abuso e' una figura che non riveste, di per se  stessa,
 una   connotazione   oggettiva   passibile   di   confutazione  e  di
 verificazione, essendo il risultato di un giudizio espresso in ordine
 ad un comportamento, anche solo in ragione del  fine  perseguito  dal
 pubblico  ufficiale; il termine "abuso" sottende un concetto generico
 ed insufficientemente  determinato,  che  acquista  rilevanza  penale
 sotto  il  profilo  soggettivo  solamente  attraverso  il rinvio alle
 finalita'  perseguite  dall'agente;  e  che,  quanto  alla   condotta
 materiale,  trova  necessaria  determinazione  attraverso il richiamo
 alla  complessa  congerie  di  norme  disciplinatrici  dell'attivita'
 amministrativa.
   Il giudice chiamato a  valutare  l'esistenza  dell'abuso,  ai  fini
 dell'accertamento del reato, deve quindi procedere al sindacato sulla
 legittimita'   dell'atto   amministrativo   o   sulla   liceita'  del
 comportamento del pubblico ufficiale: e, laddove tale sindacato debba
 investire   la   discrezionalita'   dell'attivita'   della   pubblica
 amministrazione,  com'e'  nei  casi  di  illegittimita' "sostanziale"
 dell'atto e del vizio di eccesso di potere, la precisa individuazione
 della fattispecie incriminatrice risulta condizionata dagli  elastici
 e   talvolta   evanescenti  confini  della  legittimita'  e  liceita'
 dell'azione   amministrativa;   il   che    comporta    evidentemente
 l'impossibilita' per il destinatario della norma di conoscere ex ante
 e   con  la  necessaria  tassativita'  la  condotta  suscettibile  di
 incriminazione.
   Tale insufficiente determinatezza dell'art.  323  c.p.  appare  poi
 confermata  dai  ruolo  centrale ed "onnicomprensivo" della norma nel
 sistema dei reati contro la pubblica amministrazione: com'e' noto, in
 esito alla riforma del 1990 essa non ha piu' la funzione  sussidiaria
 dell'originario   abuso  innominato  d'ufficio,  avendo  sussunto  le
 fattispecie del peculato per distrazione, dell'interesse  privato  in
 atti  d'ufficio e dell'abuso innominato - prima sanzionati attraverso
 fattispecie  autonome  -  cosi  risultando  ancora  meno  dotata   di
 tassativita' rispetto il vecchio testo.
   Inoltre,  questo giudice non ritiene che la fattispecie in esame si
 possa considerare  sufficientemente  determinata  dal  richiamo,  ivi
 previsto,  al  dolo  specifico  dell'agente.  Tale  e',  com'e' noto,
 l'argomento centrale della decisione ormai risalente con cui la Corte
 costituzionale, con la  sentenza  n.  7/65,  ebbe  a  dichiarare  non
 fondata  la  questione  di  legittimita' costituzionale della vecchia
 fattispecie di abuso innominato;  a  prescindere  dal  fatto  che  il
 principio  di  tassativita'  impone  una preventiva determinazione di
 tutti gli elementi costitutivi  del  reato,  e  non  solo  di  quello
 soggettivo,  e'  di  tutta  evidenza  che  sovente  la prova del dolo
 specifico viene tautologicamente  tratta  dalla  mera  illegittimita'
 dell'atto o del comportamento del pubblico ufficiale: cosi' divenendo
 un mero corollario degli elementi oggettivi della condotta.
   2.   -  Parimenti,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 del'art.   323 c.p. appare non  manifestamente  infondata  anche  con
 riferimento  all'art.  97,  primo comma, della Costituzione: infatti,
 l'insufficiente determinatezza di tale norma rappresenta un possibile
 strumento  di  accesso  del  giudice   penale   all'esercizio   della
 discrezionalita'    amministrativa,   con   conseguente,   potenziale
 pregiudizio    del    buon     andamento     e     dell'imparzialita'
 dell'amministrazione; cio' in specie, laddove il giudice si ingerisca
 nell'attivita'   animistrativa   eccedendo   i   limiti  strettamente
 necessari all'accertamento di condotte penalmente  rilevanti  (limiti
 che l'art.  323 c.p., appunto per il suo difetto di tassativita', non
 pone,  con  conseguente  sovrapposizione  e  non  determinazione  dei
 confini della penale  responsabilita'  rispetto  le  altre  forme  di
 responsabilita'   del   pubblico  funzionario:  quella  disciplinare,
 civile,  erariale  e,  limitatamente  ai  dirigenti,  anche  di  tipo
 dirigenziale).
   Bisogna   infatti   rilevare  che  l'indeterminatezza  della  norma
 consente un controllo diffuso sull'attivita' amministrativa da  parte
 dell'autorita'  giudiziaria,  possibile anche prima dell'acquisizione
 di una notitia criminis: come nel caso frequente in cui la deviazione
 finalistica della condotta del pubblico ufficiale, senza la quale  il
 comportamento appare neutro e quindi estraneo alla sfera di rilevanza
 penale,   non  sia  evidente  ne'  abbia  possibilita'  di  riscontro
 oggettivo immediato.   In  questo  caso  e'  palese  il  rischio  che
 l'intervento  dell'autorita' giudiaria possa essere determinato anche
 solo  dall'esigenza  di   verificare   che   una   notitia   criminis
 effettivamente  esista  in  concreto,  con  dilatazione  dell'area di
 interferenza fra il potere  giudiziario  e  quello  amministrativo  e
 conseguente  disturbo  del  sereno, imparziale e regolare svolgimento
 dell'attivita' istituzionale dei pubblici funzionari.
   3. - Quanto, infine, alla  rilevanza,  la  questione  e'  tale  nel
 presente  procedimento  essendo  contestato  a  tutti gli imputati il
 reato di cui  all'art.  323,  la  cui  configurabilita'  deve  essere
 oggetto di valutazione da parte di questo giudice.