Il pretore Ha pronunciato la seguente ordinanza nel proc. pen. n. 5/96 reg. gen. contro Giordano Salvatore imputato del reato di emissione di assegno autorizzazione, all'udienza del 20 giugno 1996. L'art. 1 della legge 15 dicembre 1990, n. 389, sanziona penalmente il divieto di emissione di assegni bancari senza l'autorizzazione del trattario di cui all'art. 3 r.d. 21 dicembre 1933, n. 1733. In ordine alla mancanza di autorizzazione possono formularsi tre ipotesi: A) Il traente non ha fondi presso il trattario e non ha conseguentemente l'autorizzazione ad emettere assegni; B) il traente ha fondi presso il trattario, ma non ha l'autorizzazione ad emettere assegni; C) il traente ha avuto revocata l'autorizzazione ad emettere assegni. Se si considera che le disposizioni con assegni sul conto presso l'azienda di credito si effettuano, salvo diverso accordo, mediante l'uso di moduli per assegni forniti dall'azienda stessa (art. 3 dell'accordo stipulato fra gli istituti di credito aderenti all'Associazione bancaria italiana), ne consegue che l'ipotesi normale e' quella dell'emissione dopo la revoca dell'autorizzazione di cui all'art. 9 della legge 15 dicembre 1990, n. 386 (tant'e' che in detto articolo e' previsto che la banca trattaria, nel revocare al traente ogni autorizzazione ad emettere assegni, deve invitarlo a restituire i moduli in suo possesso), mentre le altre sono possibili solo nel caso in cui l'assegno non venga formato sul modulo rilasciato dalla banca, ovvero formato su modulo da persona diversa da quella che e' stata autorizzata e che di detto sia venuto in possesso. Il contenuto precettivo della norma di cui all'art. 1 della legge n. 389/1990, combinandosi col disposto di cui all'art. 9 nel contesto della disciplina sanzionatoria di detta legge (che detta la "nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari") e' dunque il seguente chiunque emette un assegno bancario senza l'autorizzazione del trattario per averla avuta revocata ovvero per non averla mai ottenuta e' punito...; e la revoca e' un presupposto dalla terza ipotesi di reato di cui deve essere provata l'esistenza e la conoscenza in capo al soggetto. Orbene l'art. 9 della legge citata, disponendo che la revoca sia comunicata con lettera raccomandata o telegramma con ricevuta di ritorno rinvia all'ordinamento postale - che prevede la consegna anche a persona diversa dal destinatario e subordinatamente l'affissione di un avviso di giacenza alla porta di quest'ultimo - sicche', una volta pervenuta al correntista la comunicazione nelle forme di legge, essa produce "effetto nei suoi confronti dal momento della ricezione" e la emissione di assegni integra l'elemento oggettivo del reato previsto dall'art. 1 della legge n. 389/1990. Si pone pertanto il problema della conoscenza effettiva della revoca da parte dell'imputato per la prova dell'elemento soggettivo (il dolo, trattandosi di delitto) poiche' nel caso in cui la raccomandata o il telegramma non siano consegnati al correntista, ma ad altra persona, oppure siano rimasti giacenti, malgrado il rituale avviso, si ha solo una presunzione di conoscenza, che, se puo' essere rilevante ai fini civilistici (in quanto la c.d. convenzione di cheques implica accettazione delle modalita' di comunicazione della revoca previste dalla legge), non puo' certo esserlo ai fini penali, dovendo essere dimostrata in capo all'imputato l'effettiva conoscenza di tutti gli elementi e i presupposti del reato. In particolare non possono trarsi elementi certi di conoscenza da parte dell'imputato dalla consegna della raccomandata o del telegramma a persona diversa, costituendo questa un unico indizio, sia pur "grave", che non puo' assurgere a prova ai sensi dell'art. 192 c.p.p. Detta norma infatti, come e' pacifico in dottrina, esclude che l'indizio "isolato", possa assumeere significativa rilevanza ai fini della decisione, costituendo solo la pluralita' di indizi (gravi precisi e concordanti), basati su distinte circostanze indizianti - e non quindi combinati fra loro attraverso doppi o tripli passaggi inferenziali - la premessa per l'operazione logica con cui dagli stessi puo' desumersi l'esistenza di un fatto (cfr. D. Siracusano, Manuale di diritto processuale penale, Milano, 1994, pagg. 384-387 e giurisprudenza ivi citata). Peraltro che la consegna del documento a persona diversa dal destinatario rende solo probabile la conoscenza e' espressamente riconosciuto dal legislatore che considera forma tipica, primaria di notificazione la consegna a mani proprie poiche' permette di ritenere sul piano logico, con sufficiente certezza, che l'atto verra' a conoscenza dell'interessato e comunque esclude ogni dubbio che esso pervenga nell'effettiva sfera di conoscibilita' dello stesso secondo il principio affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze 17/72; 17/76 e 81/80; mentre le altre forme hanno carattere subordinato in funzione della sempre minore probabilita' che l'atto giunga nell'effettiva sfera di disponibilita' dell'imputato. Se pero' dette forme non sono in contrasto con i principi di diritto processuale, ove deve aversi un contemperamento tra l'interesse pubblico al processo e il diritto di difesa (nel senso che una volta predisposti gli strumenti che rendono probabile la conoscenza reale, da questa poi si prescinde per affermare la validita' di un dato non piu' psicologico ma di valore normativo), non si puo' ricorrere al criterio normativo della conoscenza (cui peraltro e' stato apportato un correttivo per alcuni casi spsecifici: artt. 157, quinto comma, 175, 485, 487 c.p.p.) in diritto sostanziale, dovendo, come si e' appena detto, essere dimostrata in capo all'imputato la conoscenza effettiva di tutti gli elementi e presupposti del reato. In caso contrario la rilevanza della conoscenza legale si tradurebbe in rilevanza della prova legale e si porrebbe in contrasto col principio del libero convincimento del giudice nel processo penale che "significa rifiuto delle prove a valutazione vincolata" (Cordero); ne' d'altra parte e' consentito al giudice ricorrere ad un uso distorto di detto principio ed assolvere l'imputato motivando sull'insufficienza della prova prevista dal legislatore poiche' in tal modo verrebbe a disapplicare la legge eccedendo le sue attribuzioni. Per le superiori considerazioni appare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9, secondo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, (nella parte in cui-rinviando al regolamento postale - dispone che la revoca dell'autorizzazione sia comunicata con lettera raccomandata o con telegramma consegnati a persona diversa dall'imputato e nei limiti in cui integra il contenuto precettivo dell'art. 1 della legge citata) in relazione agli artt. 13 e 25, secondo comma, della Cost., ponendosi tale norma in contrasto con i principi che regolano la prova penale, che delle predette norme costituzionali sono attuazione. Se infatti la liberta' personale e' inviolabile e non e' ammessa alcuna forma di detenzione se non per atto motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (nel caso di sentenza di condanna se e' stato commesso un fatto previsto dalla legge come reato), l'accertamento di quest'ultimo, nei suoi oggettivo e soggettivo e' attuazione del principio di legalita' (sancito dall'art. 25, secondo comma, della Cost.,) e puo' essere conseguito solo attraverso la libera valutazione degli elementi di prova da parte del giudice, che pone la decisione al riparo di "due eccessi", entrambi fonti di errori nella ricerca della verita' "il principio che obbliga il magistrato a giudicare iuxta alligata et probata e quello che lo autorizza invece a decidere secundum conscientiam (Manzini, Trattato, Vol. I, pag. 234). La questione e' altresi' rilevante risultando dall'avviso di ricevimento che la raccomandata, indirizzata alla societa' GLAXA e quindi al suo legale rappresentante, titolare del conto corrente, imputato nel presente procedimento, non e' stata consegnata personalmente a quest'ultimo, ma ad altra persona.