ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 238 del  codice
 di  procedura  civile,  promosso  con ordinanza emessa il 17 novembre
 1995 dal Tribunale di Forli' nel  procedimento  civile  vertente  tra
 Nanni  Sabrina  e  Guardigli  Mauro,  iscritta al n. 942 del registro
 ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n.  4, prima serie speciale, dell'anno 1996;
   Udito nella camera di consiglio  del  10  luglio  1996  il  giudice
 relatore Gustavo Zagrebelsky.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel  corso  di un giudizio civile il Tribunale di Forli' con
 ordinanza del 17 novembre 1995, ha  sollevato,  in  riferimento  agli
 artt.  2,  3  e  19  della  Costituzione,  questione  di legittimita'
 costituzionale dell'art. 238 del  codice  di  procedura  civile,  che
 regola  il  modo di prestazione del giuramento decisorio, nella parte
 in cui (secondo comma) prevede che il giurante pronuncia  le  parole:
 "consapevole  della responsabilita' che col giuramento assumo davanti
 a Dio e agli uomini, giuro...".
   2. - Dopo aver sottolineato  la  rilevanza  e  la  decisivita'  del
 giuramento  ai  fini  della  risoluzione  della  causa,  e  dopo aver
 respinto le censure formulate dalla  parte  convenuta  in  ordine  al
 contrasto  con  la  Costituzione  dell'istituto del giuramento in se'
 considerato,  il  Tribunale   rimettente   rileva   un   profilo   di
 incostituzionalita' della formula prevista in sede di prestazione del
 giuramento  alla  luce  di  quanto statuito dalla sentenza n. 149 del
 1995 della Corte costituzionale,  che,  dichiarando  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  251,  secondo comma, cod.   proc. civ., ha
 sostituito la formula di giuramento del testimone nel processo civile
 ivi stabilita con quella di impegno a dire la verita', quale prevista
 per  il  testimone nel processo penale dall'art.  497, secondo comma,
 del nuovo codice di procedura penale.
   Il giudice rimettente ritiene che sia proprio il disposto dell'art.
 251 cod. proc. civ.,  quale  riscritto  a  seguito  della  richiamata
 sentenza, ad assurgere a termine di raffronto; dopo quella pronuncia,
 infatti,  la  formula  di  impegno  del  testimone  in  sede  civile,
 ridisegnata sul modello del  nuovo  processo  penale,  segnerebbe  il
 nuovo "... limite di soglia nella tutela della liberta' di coscienza"
 del  testimone,  cui  andrebbero conformate le previsioni concernenti
 dichiarazioni rese dagli altri soggetti che variamente sono coinvolti
 nel processo civile.
   La  differente  previsione   della   formula   introduttiva   della
 prestazione,  rispettivamente,  della  testimonianza e del giuramento
 decisorio, accordando  un  diverso  grado  di  tutela  alla  liberta'
 religiosa  del  singolo  che sia chiamato a rendere una dichiarazione
 utile ai fini di prova e in particolare del non credente obbligato  a
 pronunciare  una  frase  avente  un  obiettivo significato religioso,
 risulta pertanto lesiva del principio di eguaglianza e altresi' degli
 artt.  2  e  19   della   Costituzione,   non   essendo   l'anzidetta
 differenziazione  sorretta da alcun ragionevole fondamento e dovendo,
 al contrario, trovare la liberta' di coscienza in  materia  religiosa
 uguale garanzia in ogni sede del processo.
                        Considerato in diritto
   1.  -  Il  Tribunale  di  Forli'  solleva questione di legittimita'
 costituzionale sull'art. 238, secondo comma, del codice di  procedura
 civile,  la'  dove  prevede  che  la  parte  cui e' stato deferito il
 giuramento  decisorio  pronuncia  le   parole:   "consapevole   della
 responsabilita'  che  col  giuramento  assumo  davanti  a  Dio e agli
 uomini, giuro ...".
   Ritiene  il  giudice  rimettente   che   l'anzidetta   formula   di
 prestazione  del  giuramento  confligga col diritto costituzionale di
 liberta' religiosa, di cui agli artt. 2, 3, e 19 della  Costituzione,
 e  violi  il principio costituzionale di uguaglianza sotto il profilo
 della  razionalita',   risultante   anch'esso   dall'art.   3   della
 Costituzione,  stante la diversa formula oggi vigente per quello che,
 prima della sentenza  n.  149  del  1995  di  questa  Corte,  era  il
 giuramento  del  testimone  nel  processo civile di cui all'art. 251,
 secondo comma, cod. proc. civ.
   2. - La questione  e'  fondata  sotto  il  primo  dei  due  profili
 indicati.
   3.  - Sebbene il giudice rimettente prospetti l'anzidetta questione
 di legittimita'  costituzionale  in  riferimento  al  rispetto  della
 liberta'  di  coscienza del non credente, il problema che viene posto
 ha portata generale.
   3.1. - Gli artt. 2, 3 e 19  della  Costituzione  garantiscono  come
 diritto   la   liberta'  di  coscienza  in  relazione  all'esperienza
 religiosa.  Tale diritto, sotto il profilo  giuridico-costituzionale,
 rappresenta   un   aspetto   della   dignita'  della  persona  umana,
 riconosciuta  e  dichiarata  inviolabile  dall'art.  2.  Esso  spetta
 ugualmente  tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei
 o agnostici (sentenza n.  117 del 1979) e  comporta  la  conseguenza,
 valida  nei  confronti degli uni e degli altri, che in nessun caso il
 compimento di atti appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della
 religione   possa   essere  l'oggetto  di  prescrizioni  obbligatorie
 derivanti dall'ordinamento giuridico  dello  Stato.  La  liberta'  di
 professione  religiosa,  riconosciuta  in  ogni sua forma senza altro
 limite che non sia quello del buon  costume,  non  significa  infatti
 soltanto  "liberta'  da ogni coercizione che imponga il compimento di
 atti di culto propri di questa  o  quella  confessione  da  parte  di
 persone  che  non siano della confessione alla quale l'atto di culto,
 per  cosi'  dire,  appartiene":  essa  esclude,  in  generale,   ogni
 imposizione  da  parte  dell'ordinamento  giuridico  statale "perfino
 quando l'atto di culto  appartenga  alla  confessione  professata  da
 colui  al  quale  esso sia imposto, perche' non e' dato allo Stato di
 interferire, come che sia, in ''un'ordine'' che non e' il suo, se non
 ai  fini  e  nei  casi  espressamente  previsti  dalla  Costituzione"
 (sentenza n. 85 del 1963).
   Non  si  tratta  dunque  soltanto  della  coscienza  -  e della sua
 protezione - dei non credenti, i quali non possono  essere  obbligati
 al  compimento  di  atti  il  cui  significato  contrasti con le loro
 convinzioni. E' in causa la natura stessa dell'essere religioso, cio'
 che, nell'ordine civile, per l'ordinamento costituzionale puo' essere
 solo  manifestazione  di  liberta'.  Qualunque  atto  di  significato
 religioso,  fosse  pure  il  piu'  doveroso dal punto di vista di una
 religione e delle sue istituzioni, rappresenta sempre  per  lo  Stato
 esercizio  della  liberta'  dei  propri  cittadini: manifestazione di
 leberta'  che,  come  tale,  non  puo'  essere  oggetto  di  una  sua
 prescrizione     obbligante,    indipendentemente    dall'irrilevante
 circostanza  che  il  suo  contenuto   sia   conforme,   estraneo   o
 contrastante rispetto alla coscienza religiosa individuale.
   In  ordine alla garanzia costituzionale della liberta' di coscienza
 non contano dunque i contenuti. Credenti e non  credenti  si  trovano
 percio'   esattamente  sullo  stesso  piano  rispetto  all'intervento
 prescritto, da parte dello  Stato,  di  pratiche  aventi  significato
 religioso: esso e' escluso comunque, in conseguenza dell'appartenenza
 della  religione a una dimensione che non e' quella dello Stato e del
 suo ordinamento giuridico, al quale spetta  soltanto  il  compito  di
 garantire  le  condizioni che favoriscano l'espansione della liberta'
 di tutti e, in questo ambito, della liberta' di religione.
   3.2. -  All'anzidetta  configurazione  costituzionale  del  diritto
 individuale  di  liberta'  di coscienza nell'ambito della religione e
 alla distinzione  dell'"ordine"  delle  questioni  civili  da  quello
 dell'esperienza  religiosa  corrisponde poi, rispetto all'ordinamento
 giuridico  dello  Stato  e  delle  sue  istituzioni,  il  divieto  di
 ricorrere   a   obbligazioni   di  ordine  religioso  per  rafforzare
 l'efficacia dei propri  precetti.  Quella  distinzione  tra  "ordini"
 distinti,   che   caratterizza   nell'essenziale  il  fondamentale  o
 "supremo" principio costituzionale di laicita' o non confessionalita'
 dello Stato, quale configurato numerose volte nella giurisprudenza di
 questa Corte (sentenze nn.  203 del 1989 e 195 del  1993),  significa
 che  la  religione  e gli obblighi morali che ne derivano non possono
 essere imposti come mezzo al fine dello Stato.
   4. - Considerato che il giuramento nella cui formula  sia  compreso
 il  riferimento alla responsabilita' che si assume davanti a Dio, pur
 non essendo qualificabile come atto di  culto  (sentenza  n.  85  del
 1963),  e'  tuttavia  certamente un atto avente significato religioso
 (sentenza  n.  117  del  1979)  che  chiama  in  causa  la  coscienza
 individuale in materia di  religione,  ne  deve  essere  riconosciuta
 l'illegittimita'  costituzionale,  conformemente  all'orientamento di
 questa Corte in materia di  formule  di  prestazione  del  giuramento
 (sentenza n. 117 del 1979).
   Il  "giuramento  decisorio"  di  cui  e'  qui  questione,  pur  non
 potendosi dire propriamente imposto dalla legge - in quanto la  parte
 cui   e'   "deferito"   puo'  rifiutarsi  di  prestarlo  ovvero  puo'
 "riferirlo" alla  controparte  -  e'  pur  sempre  l'oggetto  di  una
 prescrizione  legale  alla  quale  la  parte si trova sottoposta, con
 conseguenze negative:  se si rifiuta di prestarlo, soccombe  rispetto
 alla  domanda  o  al  punto  di  fatto per cui il giuramento e' stato
 ammesso; se lo riferisce all'altra parte, rinuncia alla  possibilita'
 di  affermare  nel  processo  la  verita'  attraverso un proprio atto
 capace di formare  prova  legale  assoluta.  Per  questo  motivo,  la
 liberta' della coscienza in materia di religione risulta violata.
   Ma  e'  altresi'  violata  la distinzione, imposta dal principio di
 laicita' o non confessionalita' dello  Stato,  tra  l'"ordine"  delle
 questioni  civili  e  l'"ordine"  di quelle religiose. Il primo comma
 dell'art. 238 cod. proc. civ. stabilisce che un organo  dello  Stato,
 il  giudice, deve "ammonire" il giurante sulla "importanza religiosa"
 del giuramento e l'impugnato  secondo  comma  del  medesimo  articolo
 prevede  che  la parte deve esprimere la propria consapevolezza circa
 la responsabilita' che col giuramento assume "davanti a Dio". Risulta
 cosi'   dalle   norme   richiamate   un'inammissibile    commistione:
 un'obbligazione  di  natura  religiosa e il vincolo che ne deriva nel
 relativo  ambito  sono  imposti  per  un  fine   probatorio   proprio
 dell'ordinamento processuale dello Stato.
   5.  -  Non  sussiste  invece  la prospettata violazione dell'art. 3
 della Costituzione,  nei  termini  di  un'irrazionale  differenza  di
 disciplina  tra  la formula del giuramento decisorio e la formula che
 il testimone e' tenuto a pronunciare, a norma dell'art. 251 cod proc.
 civ., quale risulta dalla sentenza n. 149 del 1995 di  questa  Corte.
 Con  tale  prospettazione  si  va  al  di  la'  della questione della
 conformazione della formula del giuramento ai principi costituzionali
 di iberta' e si mira esplicitamente all'abolizione del  giuramento  e
 alla sua sostituzione con una semplice dichiarazione d'impegno a dire
 la verita', cosi' come e' richiesto al testimone.
   5.1.  -  A  una simile operazione, innanzitutto, osta la diversita'
 degli istituti a raffronto. Con la citata sentenza n. 149  del  1995,
 si  e' potuto operare l'estensione della nuova disciplina dettata per
 i testimoni nel processo penale (art. 497, secondo comma, cod.  proc.
 pen.) ai testimoni nel processo civile poiche' la  testimonianza,  in
 entrambe  le  sedi  processuali, presenta le medesime caratteristiche
 essenziali.  Ma  qui  si   chiede   un'equiparazione   tra   istituti
 eterogenei.   Il giuramento del testimone e l'impegno che ne ha preso
 il posto hanno carattere promissorio ("giuro o prometto che diro'  la
 verita'")  mentre  il  giuramento  decisorio  ha carattere assertorio
 ("giuro che...", dove il segno di sospensione sta per la formula  che
 indica  il  "fatto proprio della parte o la conoscenza che essa ha di
 un fatto altrui" - art. 2739, secondo comma, cod. civ. -). Col  primo
 giuramento,   si   assume   un  obbligo  personale  che  richiede  un
 adempimento da parte  del  promittente  (il  dire  la  verita');  col
 secondo,  non si promette nulla ma si assevera la verita' di un fatto
 storicamente accaduto.  Si comprende allora come  non  sia  possibile
 sostituire  la  formula  del giuramento della parte con quella che, a
 norma  dell'art.  251  cod.  proc.  civ.,  vale  per   il   testimone
 ("Consapevole della responsabilita' morale e giuridica che assumo con
 la  mia  deposizione,  mi  impegno  a  dire  tutta la verita' e a non
 nascondere  nulla  di  quanto  e'  a  mia  conoscenza").   Una   tale
 sostituzione   presupporrebbe   una   trasformazione  del  giuramento
 decisorio in qualcosa di completamente diverso cioe', per  l'appunto,
 in  una  testimonianza  di parte. La formula del giuramento decisorio
 ben potrebbe  essere  diversa  dall'attuale,  ma  non potrebbe dunque
 essere la medesima prevista per la testimonianza.  Se la  si  volesse
 riscrivere, stante la pluralita' di opzioni alternative, non potrebbe
 certo essere la Corte costituzionale a farlo.
   5.2.  - Inoltre, la prospettata sostituzione del giuramento con una
 dichiarazione  d'impegno  quale  oggi  richiesta  dai  testimoni  nel
 processo  penale  e  civile  rappresenterebbe  un eccesso, rispetto a
 quanto e' costituzionalmente dovuto. La Costituzione,  per  i  motivi
 innanzi  esposti,  fa divieto di utilizzare formule di giuramento che
 possano ledere la liberta' di coscienza del giurante, ma  tanto  poco
 esclude  il giuramento come tale che lo prevede essa stessa, sia pure
 in relazione a situazioni diverse da quelle ora in esame  (si  vedano
 gli artt. 54, 91 e 93, nonche' l'art. 5 della legge 11 marzo 1953, n.
 87). Questa Corte, infatti, con la sentenza n. 117 del 1979, ritenuta
 lesiva  del  diritto  di  liberta'  di  coscienza del non credente la
 formula originariamente prevista  per  il  testimone  dall'art.  251,
 secondo  comma,  cod.  proc. civ., ha soltanto inciso su tale formula
 con la riserva del "se credente" apposta all'obbligazione  di  ordine
 religioso,  presupponendo  la  compatibilita' con la Costituzione del
 giuramento come  tale.  Ed  e'  ben  vero  che  la  gia'  richiamata,
 successiva  sentenza n. 149 del 1995, nella dichiarazione preliminare
 che il  testimone  nel  processo  civile  e'  tenuto  a  rendere,  ha
 sostituito  la  formula  d'impegno  a  quella  del  giuramento;  cio'
 tuttavia ha fatto non a causa dell'incostituzionalita' del giuramento
 come  tale,  ma  per   un'esigenza   di   razionalita'   e   coerenza
 dell'ordinamento  giuridico,  una volta operata tale sostituzione nel
 processo penale in conseguenza di una libera scelta del legislatore.
   6. -  Le  anzidette  considerazioni  spiegano  come  alla  rilevata
 incostituzionalita'  della formula del giuramento decisorio non possa
 porsi rimedio attraverso una pronuncia  analoga  a  quella  contenuta
 nella sentenza n. 149 del 1995.
   6.1.  - Cio' che invece occorre e' eliminare dalla formula prevista
 dall'impugnato  art.  238  cod.  proc.  civ.  quanto  attribuisce  al
 giuramento  della  parte  un necessario significato religioso. Questo
 non  equivale  a  "secolarizzarne"   il   significato.   Un'eventuale
 statuizione  in  tal  senso, a sua volta, potrebbe confliggere con la
 coscienza dei credenti, rispetto ai quali  il  valore  religioso  del
 giuramento  non  puo'  essere  escluso.  Significa invece operare nel
 senso di un ordinamento pluralista che,  riconoscendo  la  diversita'
 delle  posizioni  di  coscienza,  non  fissa  il quadro dei valori di
 riferimento  e  quindi  ne'  attribuisce  ne'  esclude   connotazioni
 religiose al giuramento ch'esso chiama a prestare.
   A questo esito non e' di ostacolo quanto talora sostenuto circa una
 pretesa  ineliminabile  essenza  religiosa  del giuramento, cosicche'
 esso, se non contenesse l'appello a Dio, sommo e infallibile  giudice
 anche delle colpe interiori che sfuggono alla giustizia degli uomini,
 non  sarebbe nulla. Ancorche' si ritenga che la matrice religiosa sia
 quella originaria, il giuramento ha dimostrato la  sua  capacita'  di
 sopravvivere alla secolarizzazione della vita pubblica, adattandosi a
 contesti culturali sia pluralistici che a- o anti-religiosi, come non
 solo  la  storia  comparata  degli ordinamenti, ma anche i precedenti
 legislativi italiani ampiamente documentano. La legge 30 giugno 1876,
 n. 3184, infatti, stabiliva, per i diversi  giuramenti  previsti  nel
 processo  civile  e  penale,  una  formula  incentrata principalmente
 sull'importanza morale dell'atto, mentre il vincolo religioso  veniva
 rammentato  solo  in  quanto  il  pronunciante  fosse credente. A una
 soluzione di questo genere si e' accostata in passato  questa  stessa
 Corte,  con la sentenza n. 117 del 1979, la' dove, con l'introduzione
 dell'inciso  se  "credente",  ha   riferito   il   valore   religioso
 dell'obbligazione morale che il giuramento comporta soltanto a coloro
 i  quali  avvertono  un  vincolo nei confronti di Dio, nella medesima
 prospettiva indicata  nella  sentenza  n.  58  del  1960  ove  si  e'
 affermato  che,  nel  sistema  adottato  dal legislatore italiano, il
 giuramento non ha quel prevalente carattere di  religiosita'  che  da
 taluno si vorrebbe a esso attribuire.
   Naturalmente,  il  venir meno di un contesto culturale unitario che
 consenta  di  attribuire  al  giuramento  un  condiviso   significato
 religioso  ne comporta una relativizzazione e un certo affievolimento
 di valore (cio' che spiega la preferenza del  legislatore  attuale  a
 far   uso  di  formule  di  impegno  diverse  dal  giuramento).  Tale
 significato,  da  etico-sociale  qual'era  originariamente,   diventa
 morale-individuale,  in  quanto finisce per dipendere dal riferimento
 che ciascuno faccia, in coscienza e secondo la sua visione del mondo,
 a quanto considera di piu' impegnativo e  degno  di  osservanza.  Con
 tale evocazione, colui che presta giuramento viene a conferire al suo
 eventuale  spergiuro un sovrappiu' di negativita' e gravita' rispetto
 a chi formula una semplice promessa, assumendosi  la  responsabilita'
 morale  che  deriva dalla violazione dei dettami ultimi della propria
 coscienza. In questo, il giuramento e' irriducibile ad altre  formule
 impegnative   e   si  comprende  che  l'ordinamento  giuridico  possa
 avvalersene, imponendone la prestazione quando  i  cittadini  vengano
 chiamati  a  compiere  atti  o  a  svolgere  funzioni  di particolare
 rilevanza per la collettivita'.
   6.2. - Poiche' la liberta' di  coscienza  di  chi  sia  chiamato  a
 prestare  il  giuramento  previsto  dall'art.  238  cod.  proc.  civ.
 comporta che  la  determinazione  del  contenuto  di  valore  ch'esso
 implica  sia  lasciata,  per  l'appunto,  a  quanto  avvertito  dalla
 coscienza, la  dichiarazione  d'incostituzionalita'  del  riferimento
 alla  responsabilita'  che  si  assume  davanti a Dio deve estendersi
 anche al riferimento alla responsabilita' davanti agli  uomini.  Cio'
 non     solo     perche',     altrimenti,     dalla     dichiarazione
 d'incostituzionalita' dei soli riferimenti  alla  divinita'  potrebbe
 apparire  sancita  una  sorta  di  religione  dell'umanita', ma anche
 perche', mantenendosi il riferimento a un solo contenuto  di  valore,
 implicitamente  si  escluderebbero  tutti  gli  altri, con violazione
 della liberta' di coscienza dei credenti, per i quali il  giuramento,
 del tutto legittimamente, ha un significato religioso.
   6.3.  -  In via conseguenziale, a norma dell'art. 27 della legge 11
 marzo 1953, n. 87, la  presente  dichiarazione  d'incostituzionalita'
 deve   estendersi  inoltre  al  primo  comma,  seconda  proposizione,
 dell'art.  238 cod. proc. civ., nella parte in  cui  prevede  che  il
 giurante  sia  ammonito  dal giudice circa l'importanza religiosa del
 giuramento.   Tale previsione, infatti,  e'  inscindibile  da  quella
 contenuta  nel  secondo comma, circa la responsabilita' davanti a Dio
 che l'atto comporta.  Cadendo  quest'ultima,  deve  cadere  anche  la
 prima.
   7.  -  La  pronuncia  che  si  rende  necessaria alla stregua delle
 considerazioni   che    precedono    comporta    una    dichiarazione
 d'incostituzionalita'  parziale  dell'art.  238 cod. proc. civ. dalla
 quale esso risulta  modificato  come  segue:  (primo  comma,  seconda
 proposizione)  "Questi  (il giudice istruttore) ammonisce il giurante
 sull'importanza morale dell'atto e  sulle  conseguenze  penali  delle
 dichiarazioni  false, e quindi lo invita a giurare"; (secondo comma):
 "Il  giurante,  in  piedi,  pronuncia  a  chiara  voce   le   parole:
 "consapevole   della   responsabilita'  che  col  giuramento  assumo,
 giuro...", e continua  ripetendo  le  parole  della  formula  su  cui
 giura".
   L'eliminazione    dalla   disposizione   in   esame   delle   parti
 incostituzionali opera altresi' -  in  virtu'  del  rinvio  contenuto
 nell'art.  243  cod.    proc.  civ.  e  senza necessita' di ulteriori
 dichiarazioni d'incostituzionalita' - in  riferimento  al  giuramento
 deferito d'ufficio (artt. 240 e 241 cod. proc. civ.).