IL PRETORE
   Visti:
     il ricorso;
     l'art. 1 del d.-l. 28 marzo 1996, n. 166;
     l'art. 11, comma 22, legge 24 dicembre 1993, n. 537;
     la sentenza della Corte costituzionale n. 240 del 1994;
     l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
     l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1;
     l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1;
     gli artt. 81 e 134 della Costituzione.
   Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza di
 rimessione  alla  Corte  costituzionale  di questioni di legittimita'
 costituzionale, rilevata d'ufficio, nella causa r.g.  n.  579/96,  in
 materia   di  previdenza  ed  assistenza  obbligatoria,  promossa  da
 Menegardo  Tersilla,  elettivamente  domiciliata  in  Brescia  presso
 l'avv.  Vincenzo  Bettinelli,  il  quale  la rappresenta e difende in
 forza di procura a margine del ricorso, ricorrente, contro l'Istituto
 nazionale della previdenza  sociale  -  I.N.P.S.  -  in  persona  del
 presidente pro-tempore convenuto.
   Nel  presente  giudizio la parte ricorrente, richiamata la sentenza
 n.  240/1994   della   Corte   costituzionale   che   ha   dichiarato
 l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 11, comma 22, della legge
 n. 537 del 24 dicembre 1993 "nella  pearte  in  cui  -  nel  caso  di
 concorso   di   due  o  piu'  pensioni  integrate  o  integrabili  al
 trattamento  minimo,  delle  quali  una  sola  conserva  il   diritto
 all'integrazione  ai  sensi  dell'art.   6, terzo comma, del d.-l. 12
 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre  1983,  n.
 638, non risultando superati al 30 settembre 1983 i limiti di reddito
 fissati nei commi precedenti - dispone la riconduzione dell'importo a
 calcolo  dell'altra  o  delle  altre  pensioni  non piu' integrabili,
 anziche' il mantenimento di esse  nell'importo  spettante  alla  data
 indicata,  fino  ad  assorbimento  negli  aumenti della pensione-base
 derivanti   dalla   perequazione   automatica",   ha    chiesto    la
 "cristallizzazione"   dal   1   ottobre   1983   della   pensione  di
 riversibilita' della quale e' titolare, con la  conseguente  condanna
 dell'INPS  al  pagamento  della  prestazione  nella misura risultante
 dovuta, con gli arretrati, oltre gli interessi legali.
   Con il d.-l. 28 marzo 1996, n. 166 e' stato  modificato  il  quadro
 normativo di riferimento e, poiche' l'art. 1 del decreto viola l'art.
 81  della Costituzione, deve essere rilevata la relativa questione di
 legittimita'  costituzionale.
   Nella previsione di una dichiarazione  d'incostituzionalita'  (come
 anche  nell'ipotesi di una mancata conversione in legge) dell'art.  1
 del decreto-legge n. 166/1996 deve essere altresi', quasi in rapporto
 di   causa-effetto,   sollevata   la   questione   di    legittimita'
 costituzionale  dell'art. 11, comma 22, della legge n. 537/1993, come
 "riscritto" nella sentenza n. 240 del 1994, per contrasto con  l'art.
 81 della Costituzione.
   Prima,  pero',  di  entrare  nel merito delle anticipate questioni,
 deve essere chiarito che la presente ordinanza e'  resa  obbligatoria
 dal fatto che il solo residuo atto, oltre quello qui posto in essere,
 di  giurisdizione  previsto dal comma 3 dell'art. 1 del decreto-legge
 n. 166/1996 impone di dichiarare d'ufficio l'estinzione  di  tutti  i
 giudizi  pendenti.
   L'art. 81 Costituzione ed il principio di "realismo economico".
   La  legge  fondamentale  della Repubblica italiana contiene tutti i
 principi piu' alti di civilta' e tutela tutte le liberta';  le  norme
 che  li  contemplano  vengono  ritenute  le  piu'  importanti,  ma si
 dimentica che, nella consapevolezza  del  necessario  rispetto  della
 realta'  economica,  quale  limite  e  condizione  essenziale  per la
 possibile e sempre tendenziale attuazione concreta dei grandi  ideali
 di  giustizia,  uguaglianza  e  liberta',  la  Costituzione  pone  un
 principio  ancora  superiore,  presente  proprio  nell'art.  81:   la
 compatibilita'  delle  concrete  risorse  economiche  quale limite di
 realta'  al  "sogno"  di  perfezione, quale strumento di difesa della
 realizzibilita' dei grandi principi ideali etici e  materiali,  quale
 freno  alla  spesa  illimitata  di risorse future al fine di tutelare
 l'esistenza stessa della societa' organizzata, quale monito,  infine,
 alla responsabilita' verso le future generazioni e alla piu' corretta
 distribuzione  della  ricchezza  prodotta  ed  esistente  per  quelle
 presenti.
   Cosi', se si volesse proporre  una  diversa  classificazione  delle
 norme  costituzionali,  l'art.  81 dovrebbe essere definito "norma di
 realta'" in contrapposizione alle "norme di  ideale"  e  dovrebbe  in
 questa   prospettiva   essere  collocato  al  vertice  di  una  nuova
 graduatoria  d'importanza,  dovendosi  riconoscere   che,   pur   non
 affermando  elevati  principi  "sacrali",  si  pone  a garanzia della
 realizzabilita' (invero  pur  sempre  tendenziale)  delle  "norme  di
 ideale",  statuendo  l'obbligatorio rispetto dei limiti delle risorse
 disponibili, in modo tale da consentire al  sistema  economico  dello
 Stato  di sostenere il costo della continua evoluzione dei bisogni di
 civilta' nei confini del possibile, senza sperperare ricchezze future
 non ancora prodotte, cosi' da evitare il grande rischio (oggi  sempre
 piu' drammaticamente concreto) di allontanare sempre piu' nel tempo e
 forse  di  precludere  definitivamente  l'attuazione  delle "norme di
 ideale".
   In forza delle superiori premesse e' logico e conseguente  desumere
 dall'art.   81   un  forte  principio  costituzionale  sinteticamente
 definibile  principio  di  "realismo  economico",  che,  benche'  non
 scritto  (come altri fondamentali: quello, immanente nell'art. 38, di
 "solidarieta'" e quello di "ragionevolezza", presente nell'  art.  3,
 per  citare  i  piu'  noti), deve concorrere con gli altri principi e
 norme costituzionali per la completa  e  corretta  valutazione  della
 legittimita' della legge e degli atti aventi forza di legge.
   L'ineludibile  riconoscimento  dei  valori  costituzionali presenti
 nell'art. 81 deve determinare a carico del legislatore - ma anche del
 giudice delle leggi, quando le questioni portate al suo  esame  siano
 tali da lasciare spazio a decisioni, non necessariamente "addittive",
 che  comportino  una  nuova spesa priva di copertura finanziaria - un
 particolare rispetto dell' art. 81 della Costituzione, quale norma di
 primaria e vitale importanza.
   A)  Questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1   del
 decreto-legge  n.  166  del  1996 per violazione   dell'art. 81 della
 Costituzione.
   Nell' art. 1 del d.-l. 28 marzo 1996, n. 166, sono dettate le norme
 dirette a risolvere  il  problema  della  copertura  finanziaria  per
 l'applicazione  delle  sentenze n. 495/1993 e n. 240/1994 della Corte
 costituzionale, ma le  scelte  del  Governo  non  risultano  conformi
 all'art.  81  Cost., in particolare per cio' che concerne i mezzi per
 far fronte al pagamento degi arretrati.
    Il primo comma dell'art. 1  del  decreto-legge  n.  166  del  1996
 prevede il "ri'mborso" delle somme maturate alla data del 31 dicembre
 1995  mediante  sei annualita', ma il suo quarto comma (ove si tratta
 espressamente  dei   mezzi   di   copertura   dell'"onere   derivante
 dall'applicazione   del   presente  articolo"  omette  totalmente  di
 indicare la copertura finanziaria per gli anni 1999, 2000 e 2001:  il
 dato  e'  certo  e non opinabile, poiche' vengono contemplate solo le
 annualita' dal 1996 al 1988.
   La  violazione  dell'ultimo comma dell' art. 81  della Costituzione
 e', per quanto possa sembrar strano,  scritta  e  riconosciuta  nella
 stessa  disposizione  sopra  citata, ove il Governo palesemente si fa
 carico di determinare la copertura solo per tre delle sei  annualita'
 previste  per  il pagamento degli arretrati, lasciando cosi' scoperte
 le  restanti,  con   conseguente   incontrovertibile   illegittimita'
 costituzionale  dell'intero  art.  1  del  decreto-legge n. 166/1996,
 poiche', al fine del rispetto  dell'art.  81,  quarto  comma,  devono
 essere  compiutamente  precisate  nella legge (anche nell'atto avente
 forza di legge  del  Governo  che  prevede  nuove  spese  le  risorse
 finanziarie  per  la  copertura piena delle medesime spese e non puo'
 ritenersi soddisfatto  tale  obbligo,  qualora,  come  nel  caso  qui
 sottosposto a critica, l'indicazione dei "mezzi per farvi fronte" non
 sia completa e precisa.
   Sin  qui  si  e'  in  presenza  della tipica violazione della norma
 espressa e palese dell' art. 81, ultimo comma, Costituzione, ma  deve
 essere  rilevato  che  l'art.  1 del decreto-legge n.166/1996 vulnera
 ancor piu' gravemente quel principio di "realismo  economico",  quale
 sopra elaborato, desumibile dall'art. 81.
   Infatti  non sembra possibile ritenere che l'assegnazione di titoli
 di Stato costituisca corretto mezzo di  copertura  finanziaria  degli
 oneri  ai  quali  il  decreto-legge vorrebbe dare esecuzione, poiche'
 altro non e' che nuovo indebitamento dello Stato e  quindi  non  puo'
 essere considerato come nuova risorsa per finanziare il pagamento del
 debito:  la  sostituzione  di  un  debito  con un altro debito non e'
 copertura finanziaria di una spesa,  ma  solo  operazione  di  scarsa
 trasparenza.
   Puo'  anche  essere  sostenuto  che  la  legge di bilancio non deve
 rispettare la parita' tra entrate e uscite e puo' essere accettata la
 tesi secondo la quale e'  sufficiente  la  previsione  dei  mezzi  di
 finanziamento  per la copertura delle nuove spese, per cui vi sarebbe
 il rispetto dell'art. 81, ultimo comma, anche  se  la  previsione  si
 rivelasse   erronea  ed  ottimistica,  ma  non  si  puo'  accedere  a
 soluzioni, come quella adottata dal Governo, nelle quali non  vi  sia
 neppure   l'ombra  dell'effettivita'  teorica  delle  nuove  risorse,
 limitandosi  l'operazione  a  spostare  la   carenza   di   copertura
 finanziaria  ad un'epoca futura, con una sostanziale rinnovazione del
 debito, senza estinzione dell'obbligazione  reale,  la  quale  resta,
 comunque,  sempre  a  carico  del  debito  pubblico,  sempre priva di
 copertura finanziaria.
   Inoltre, a sommesso avviso di questo giudice, la stessa  previsione
 del  pagamento  degli  arretrati  -  o,  quanto  meno  di  tutti  gli
 arretrati, senza  una  limitazione  della  decorrenza  degli  stessi,
 limitazione  che potrebbe fissarsi, in via puramente esemplificativa,
 all'epoca delle sentenze n. 495/1993 e n. 240/1994 del giudice  delle
 leggi,  anche  in  considerazione  del  dettato  dell'art. 136, primo
 comma, Costituzione e tenuto conto del fatto che,  comunque,  con  il
 decreto-legge  n. 166/1996 si e' creata negli interessati una forte e
 legittima aspettativa sull'assunzione da  parte  del  Governo  di  un
 obbligo  di  pagamento  degli  arretrati  -  viola  l'art.  81  della
 Costituzione nel  principio  di  "realismo  economico",  essendo  ben
 palese (e non da oggi) che il bilancio dello Stato non e' in grado di
 rendere  totalmente  effettivi  i  privilegi  (assai discutibilmente)
 concessi dalla Corte costituzionale  con  le  sentenze  "legislative"
 delle  quali  trattasi:  non e' questione di stabilire in astratto se
 sia legittimo lasciare immutata, o estendere,  o  ridurre  l'area  di
 applicazione di determinati benefici, ma assai piu' semplicemente (e,
 nel   contempo,   in   obbedienza   ai   principi   di   uguaglianza,
 ragionevolezza e solidarieta' riconsiderati con etico rispetto  delle
 future  generazioni  di  accertare  in  concreto  se esistano i mezzi
 economici (reali, si badi bene, e non virtuali e sperati, come quello
 attuato nel decreto-legge n. 166/1996 idoneo solo  a  determinare  un
 nuovo aggravamento del deficit di bilancio, in danno dei nostri figli
 e  nipoti,  per conservare, ampliare o eliminare i medesimi benefici,
 operando poi di conseguenza.
   Esaurito  l'esame  della   questione   attinente   l'art.   1   del
 decreto-legge  n.  166  del 1996, si puo' passare alla discussione di
 quella attinente il precedente quadro normativo.
   B) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 22,
 della legge n. 537/1993 come modificato dalla  sentenza  della  Corte
 costituzionale n. 240/1994, per violazione dell'art. 81 Cost.
   Il  giudice  delle  leggi  con  la  sentenza  n.  240  del  1994 ha
 dichiarato l'incostituzionalita', per contrasto  con  i  principi  di
 ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di solidarieta' (art. 36
 della  Costituzione),  dell'art. 11, comma 22, della legge n. 537 del
 1993, nei termini gia' sopra testualmente riferiti.
   La  norma  in  discorso,  come  modificata  per  effetto  di   tale
 intervento  della  Corte,  determina per l'INPS una forte esposizione
 debitoria,  priva  di  finanziamento  (e'  fatto  notorio  comprovato
 dall'art.  1,  quarto  comma,  del  decreto-legge n. 166 del 28 marzo
 1996, per quanto si e' gia' detto);  la  causa  di  tutto  cio'  deve
 rinvenirsi  nell'opinione  (erronea)  secondo la quale le sentenze di
 natura  addittiva  della  Corte  costituzionale  avrebbero  efficacia
 vincolante  erga  omnes  ed  ex  tunc, opinione tuttora prevalente in
 dottrina e giurisprudenza.
   Nessun  atto  legislativo  delle  due  Camere  (unico  possibile  e
 costituzionalmente  legittimo  ai sensi dell'art. 136, secondo comma,
 Costituzione)  e'  sinora  intervenuto  per  reperire  la   copertura
 finanziaria  necessaria al fine di consentire all'INPS di provvedere,
 previa riliquidazione delle pensioni  di  riversibilita'  secondo  il
 dettato   della  sentenza  n.  240/1994,  al  pagamento  delle  somme
 arretrate,  con  gli  accessori  di   legge,   derivanti   da   detta
 riliquidazione.
   E'   piu'   che  evidente  che  il  legislatore,  a  tutt'oggi  (il
 decreto-legge n. 166 del 28 marzo 1996 ne e' riprova) non ha avuto la
 forza di dare attuazione in senso  conforme  alla  Costituzione  alla
 sentenza in discorso, emanando le norme di legge idonee ad acquisirne
 i  principi  nel  diritto  positivo  (e il ragionamento vale identico
 anche con riferimento  alla  sentenza  n.  495/1993),  nonostante  la
 vigenza dell'art. 2, settimo comma, della legge 11 marzo 1988, n. 67,
 che  cosi'  dispone:  "Qualora  nel  corso  di attuazione di leggi si
 verifichino scostamenti  rispetto  alle  previsioni  di  spesa  o  di
 entrate,  il Governo ne da' notizia tempestivamente al Parlamento con
 relazione del Ministro del tesoro e assume le conseguenti iniziative.
 La stessa procedura e' applicata in caso di  sentenze  definitive  di
 organi   giurisdizionali   e   della   Corte  costituzionale  recanti
 interpretazioni della normativa vigente suscettibili  di  determinare
 maggiori oneri".
   Si   potrebbero  ricercare  le  responsabilita'  politiche  per  la
 situazione creatasi, ma senza valenza giuridica,  restando  certo  il
 fatto  che  nessun  intervento rispettoso della Costituzione e' stato
 posto in essere per  la  copertura  finanziaria  dei  maggiori  oneri
 causati dalle sentenze della Corte, ne' totalmente, ne' parzialmente,
 non potendosi valutare in modo positivo il decreto-legge n. 166/1996,
 gia' sottoposto a critica.
   Dal  riscontrato  attuale  dato  di  fatto  storico dell'assenza di
 copertura finanziaria, a parere  di  questo  pretore,  non  puo'  che
 discendere   obbligatoriamente   l'affermazione   dell'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 11, comma 22, della legge n. 537/1993,  come
 modificato  dal giudice delle leggi, per violazione dell'ultimo comma
 dell'art.   81 Cost., a nulla rilevando  sapere  se  tale  violazione
 dipenda  da  semplice inerzia, o assenza di volonta' del legislatore,
 ovvero (ed e',  purtroppo,  quest'ultima  l'ipotesi  piu'  veritiera,
 dalla  realta'  di  una situazione critica delle finanze dello Stato,
 tale da aver reso, sino ad oggi,  impossibile  il  reperimento  delle
 risorse   finanziare   necessarie,  senza  determinare  un  ulteriore
 aggravamento nel desolante bilancio della nostra Repubblica.
   Unica conseguenza e soluzione possibile sembra essere quella di una
 pronuncia dichiarativa dell'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
 11,  comma  22, legge n. 537 del 1993 nella formulazione creata dalla
 sentenza n. 240 del 1994, con conseguente  cessazione  dell'efficacia
 della  medesima  norma  ai  sensi  dell'art.  136, primo comma, della
 Costituzione e ripristino  della  situazione  normativa  preesistente
 l'intervento del giudice delle leggi.
   Ne'  puo', in contrario, sostenersi con giuridica fondatezza che le
 norme  "virtuali"  create  dalle   sentenze   "leggi"   della   Corte
 costituzionale  siano  avulse  dal  sistema giuridico costituzionale,
 cosi' da non dover obbedire (anche) al dettato  dell'art.  81  Cost.,
 ovvero   che   siano   "refrattarie"  al  controllo  di  legittimita'
 costituzionale,  ovvero  ancora  che  il   legislatore   debba   dare
 esecuzione,  sempre e comunque, alla volonta' della Corte e che abbia
 tempi illimitati per provvedere alla  copertura  finanziaria:  se  le
 sentenze  di  natura  legislativa  della  Corte  hanno  davvero forza
 innovativa nel diritto positivo con obbligo di applicazione (ipotesi,
 deve ribadirsi, ancora, qui fortemente negata), tanto da fondersi, in
 modo  simile  a  quanto  avviene  per  le  leggi  di  interpretazione
 autentica,  con  la norma dichiarata incostituzionale, determinandone
 un nuovo contenuto, ebbene, allora, queste  norme  "virtuali"  devono
 essere  totalmente  conformi alla Costituzione e soggiacere al vaglio
 del giudizio di  legittimita'  costituzionale,  come  ogni  norma  di
 legge.
   Ancora  una  volta,  deve  evidenziarsi  anche  la  violazione  del
 principio di "realismo economico", come sopra  teorizzato:  la  Corte
 costituzionale  non  ne  ha  tenuto  conto nel creare la sua versione
 dell'art. 11, comma 22, della legge  n.  537/1993,  determinando  nel
 sistema   giuridico   l'esistenza   di  un  privilegio  che,  benche'
 giustificato   dalla   Corte   con   riferimento   ai   principi   di
 ragionevolezza  e  di  solidarieta'  (peraltro,  a sommesso avviso di
 questo giudice, erroneamente  richiamati),  in  verita'  si  appalesa
 eccessivo,  proprio  perche'  il sistema economico non e' in grado (e
 non lo era nel 1994) di soddisfare il costo del miglior  trattamento,
 senza spendere risorse future.
   Si  pone  in  discussione  qui  senza  equivoci  la realizzabilita'
 economica (quanto meno totale  e  generale),  della  tutela  concessa
 dalla  sentenza n. 240/1994 (nonche' dalla n. 495/1993) in assenza di
 versamenti contributivi che ne sorreggano interamente il costo ed  in
 presenza  di  una  situazione  della  finanza  pubblica  tale  da non
 consentire piu' l'esistenza di privilegi che  non  si  autofinanzino,
 non  essendo  ormai  neppure  concepibile  un aumento della pressione
 fiscale per reperire le risorse necessarie per  la  soddisfazione  di
 bisogni   non   essenziali   -   come   reso  evidente  dallo  stesso
 decreto-legge n. 166 del 1996 che evita ogni ricorso alla  fiscalita'
 generale, scegliendo la, gia' criticata, soluzione dell'indebitamento
 ulteriore   dello  Stato,  senza  minimamente  considerare  che  ogni
 aggravamento  del  debito  pubblico  determina  ineluttabilmente   la
 mortificazione   (effetto   "perverso",   di  certo  non  voluto,  ma
 consequenziale, della troppo facile creazione di privilegi  nel  nome
 della  solidarieta'  in  assenza conclamata di risorse economiche per
 pagarne il prezzo) delle speranze delle future  generazioni,  gravate
 dalle conseguenze degli sperperi delle precedenti.
   Sempre  in  tema  e  per  chiarire doverosamente gli incisi critici
 rivolti alla sentenza n. 240/1994 e'  bene  ricordare  una  specifica
 contestazione  gia'  piu'  volte rivolta da questo giudice remittente
 all'argomento fondamentale posto dalla Corte  costituzionale  a  base
 della  decisione:  nessuna  rilevanza costituzionale puo' attribuirsi
 alla sostenuta necessita' di  un  passaggio  graduale  della  seconda
 pensione  dal  trattamento  integrato al minimo a quello deteriore "a
 calcolo",   poiche'   nessuno   dei   pensionati   che   chiede    la
 "cristallizzazione" (la problematica e' talmente nota che non occorre
 ulteriore   precisazione)   dal   1   ottobre   1983  ha  mai  goduto
 effettivamente alla data  del  30  settembre  1983  di  piu'  di  una
 pensione  integrata  al  trattamento  minimo  e, dunque, mai ha visto
 ridurre la misura della seconda pensione,  cosicche'  mai  ha  potuto
 contare  sulla  prestazione  che  vorrebbe  "cristallizzare"  per  le
 esigenze  primarie  di  vita,  a  dimostrazione  che  il   "passaggio
 graduale"  e'  una mera costruzione teorica, ora per allora, priva di
 storica concretezza.
   Sulla non manifesta infondatezza e sulla rilevanza in  causa  delle
 sopra esposte questioni di legittimita' costituzionale.
   Le  questioni  in discorso non sono manifestamente infondate e sono
 rilevanti:  e'  piu'   che   ovvio   che   la   dichiarazione   della
 illegittimita'  costituzionale dell'art. 1 del decreto legge 28 marzo
 1996, n. 166 avrebbe  l'effetto  di  ripristinare  la  vigenza  della
 normativa  precedente,  restituendo  nel  contempo a questa autorita'
 giudiziaria competente la funzione attribuitale dalla Costituzione di
 amministrare  la  giustizia  secondo  la   legge   costituzionalmente
 vigente,  l'art.  11,  comma  22,  della  legge  n. 537 del 1993, con
 conseguente   necessita'   dell'esame   di   costituzionalita',   nei
 (limitati)  termini  oggi proposti, della appena citata disposizione,
 come modificata dalla sentenza n. 240 del 1994, poiche' ai  fini  del
 decidere  e'  importante avere certezza in ordine alla vigenza o meno
 del comma 22 dell'art. 11 della legge n. 537/1993,  come  determinata
 (nell'erronea  opinione  prevalente)  dalla  sentenza  n. 240/1994, e
 poiche' tale certezza puo' derivare, con valore assoluto solo  (salvo
 ovviamente  un  sempre  possibile  intervento  legislativo  delle due
 Camere  del  Parlamento,  anche  eventualmente  indirizzato  da   una
 sentenza   "propositiva"   del   giudice   delle  leggi,  sicuramente
 ammissibile) da una decisione  della  Corte  costituzionale,  risulta
 necessario  investire  la  Corte delle questioni di costituzionalita'
 come sopra precisate, essendo,  peraltro,  piu'  che  palese  per  le
 argomentazioni  che  precedono, senza altro superfluo commento, anche
 la rilevanza nel presente giudizio della seconda poiche'  l'eventuale
 dichiarazione    d'illegittimita'   costituzionale   della   versione
 dell'art. 11, comma 22 della legge n. 537/1993 creata dalla  sentenza
 n.  240  del  1994,  per  violazione  dell'art. 81 della Costituzione
 sarebbe, senza possibilita'  di  contrasto  neppure  negli  eventuali
 gradi  successivi  del  giudizio,  motivo  di  rigetto  della domanda
 proposta in causa.