ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 46,  comma  3,
 47 e 49 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse
 il  12  dicembre 1995 dalla Corte d'appello di Trieste e il 9 gennaio
 1996 dal Tribunale di Trieste, nei procedimenti penali  a  carico  di
 Pahor  Samo,  rispettivamente  iscritte ai nn. 140 e 208 del registro
 ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 nn. 9 e 11, prima serie speciale, dell'anno 1996;
   Visti gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  15 maggio 1996 il giudice
 relatore Francesco Guizzi.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Nel procedimento penale  a  carico  di  Pahor  Samo  la  Corte
 d'appello   di   Trieste   ha  sollevato  questione  di  legittimita'
 costituzionale degli artt. 46,  comma  3,  47  e  49  del  codice  di
 procedura  penale.    In  precedenza,  con  atti  del 9 marzo e del 5
 ottobre 1993, l'imputato aveva proposto due istanze di rimessione del
 procedimento, rigettate dalla Corte di cassazione con sentenze del  5
 maggio  1993  e  19 gennaio 1994; malgrado cio', egli aveva reiterato
 l'istanza, sulla base di "fatti nuovi", sollecitando  il  Collegio  a
 promuovere il giudizio di legittimita' costituzionale, conclusosi con
 la  sentenza  d'inammissibilita'  n.  460  del  1995 di questa Corte.
 Avendo il Samo "confermato e ribadito" (all'udienza del  12  dicembre
 1995)  detta  istanza,  la  Corte  triestina  ha  quindi sollevato la
 presente questione.
   Osserva il giudice a quo che  la  Corte  di  cassazione  ha  sempre
 escluso ogni possibilita' di sindacato da parte del giudice di merito
 sull'ammissibilita'  dell'istanza,  anche  nel  caso  (come quello in
 esame) in cui vi sia  una  reiterazione  della  richiesta  basata  su
 motivi  "solo apparentemente nuovi". Si' che, considerando l'evidente
 uso strumentale della riproposizione, la Corte d'appello  di  Trieste
 ha  sollevato  -  per  contrasto  con il principio di obbligatorieta'
 dell'azione penale  sancito  dall'art.    112  della  Costituzione  -
 questione  di  legittimita'  costituzionale  dei  citati articoli del
 codice di procedura penale, senza peraltro  nascondere  la  finalita'
 ulteriore di "sterilizzare", con l'incidente di costituzionalita', il
 termine  prescrizionale  del reato, in modo da evitare che l'imputato
 si sottragga al giudizio. E pur  non  ignorando  il  contenuto  della
 citata   sentenza   n.  460,  con  specifico  riguardo  al  principio
 costituzionale di obbligatorieta'  dell'azione  penale,  il  Collegio
 rimettente   rileva   come   l'accenno  al  bene  (costituzionalmente
 protetto)  dell'"efficienza  del  processo  penale",   ivi   evocato,
 dovrebbe  indurre  il  giudice delle leggi a estendere la portata del
 richiamato principio oltre il momento dell'impulso processuale,  fino
 alla soglia della sentenza.
   Di   qui,   la   lesione   dell'art.   101,  secondo  comma,  della
 Costituzione, poiche' il giudice non sarebbe soggetto  soltanto  alla
 legge,  ma  anche  alle iniziative dell'imputato; degli artt. 3 e 97,
 sia per intrinseca irragionevolezza, sia per violazione dei  principi
 di uguaglianza e del buon andamento dell'amministrazione; e dell'art.
 25, primo comma, per la possibilita', data all'imputato, di sottrarsi
 al   giudice  naturale  con  una  tecnica  elusiva  finalizzata  alla
 prescrizione dei reati.
   2. - E' intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura   dello   Stato,  che  -
 riportandosi  all'atto  d'intervento  depositato  in  occasione   del
 giudizio  definito  con la sentenza n. 460 del 1995 - ha concluso per
 l'inammissibilita'  o,  in  subordine,   per   l'infondatezza   della
 questione.
   Osserva  l'Avvocatura  che,  spinto  alle  conseguenze  estreme, il
 meccanismo della rimessione potrebbe determinare gli effetti negativi
 prospettati  nell'ordinanza  della  Corte  d'appello.  Ma  essi   non
 discenderebbero  dalla  mancata attribuzione al giudice di merito del
 sindacato  sull'istanza  di  rimessione,  poiche'  nulla  impedirebbe
 all'imputato  -  dopo la declaratoria di inammissibilita' della prima
 richiesta  -  di  riproporla  sulla  base  di   motivi   anche   solo
 apparentemente  nuovi,  in  modo da impedire di emettere la sentenza.
 L'inconveniente  segnalato  potrebbe  essere  risolto  stabilendo  un
 sistema  di  preclusioni,  o  consentendo  al  giudice  di  merito la
 decisione del processo, in attesa della pronuncia  sulla  rimessione,
 oppure  - nelle ipotesi di rigetto o di inammissibilita' dell'istanza
 - non computando nei termini di prescrizione il  periodo  in  cui  il
 giudizio rimane sospeso.
   Sebbene  esista  un  problema  applicativo,  la  questione  sarebbe
 erroneamente formulata: sia perche' non risulta  censurata  la  norma
 che  disciplina  il termine di prescrizione dei reati, sia perche' si
 chiederebbe alla Corte una sentenza in una materia che  attiene  alla
 discrezionalita' del legislatore.
   3.  - Nel corso di altro procedimento penale, a carico dello stesso
 imputato,  il  Tribunale  di  Trieste  ha  sollevato   questione   di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  47  del  codice di procedura
 penale per violazione degli artt. 3, 97, primo comma,  e  101,  primo
 comma, della Costituzione.
   Per  "pretesi  nuovi motivi", l'imputato aveva riproposto, ai sensi
 degli artt. 45 e segg. del codice di procedura penale,  l'istanza  di
 rimessione  gia'  formulata  nel corso del dibattimento (alle udienze
 del 9 novembre 1992, 8 novembre 1993 e  11  gennaio  1995),  per  tre
 volte respinta o dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione.
   Osserva  il  Tribunale  che  l'approssimarsi della prescrizione non
 discende tanto dalla mancanza d'una norma che attribuisca al  giudice
 di  merito  il  potere  delibatorio  sull'ammissibilita' o fondatezza
 della questione, quanto dal rigido divieto  di  pronunciare  sentenza
 fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile
 o  rigetta  la  richiesta:  divieto  introdotto  nel  nuovo codice di
 procedura penale, con l'art. 47, e  ignoto  al  codice  abrogato  nel
 1989.  Onde l'ineludibile contrasto di tale articolo con gli artt. 3,
 97 e 101 della Costituzione.
   4. - Anche con riferimento a  questo  giudizio  e'  intervenuto  il
 Presidente del Consiglio dei Ministri, concludendo come sopra.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Viene  riproposta  all'esame di questa Corte la questione di
 legittimita'  costituzionale  riguardante  un  aspetto   del   regime
 giuridico della rimessione dei procedimenti, nell'ambito del processo
 penale,  gia'  considerata  dalla  sentenza n. 460 del 1995. La Corte
 d'appello di  Trieste  dubita,  in  particolare,  della  legittimita'
 costituzionale  degli  artt.  46,  comma  3,  47  e  49 del codice di
 procedura  penale,  che  favorirebbero  il  decorso  del  termine  di
 prescrizione   dei  reati,  consentendo  all'imputato  di  riproporre
 (teoricamente  ad  libitum)   una   richiesta   di   rimessione   del
 procedimento  basata,  anche  solo  in apparenza, su motivi nuovi. Le
 disposizioni menzionate sarebbero in contrasto con l'art.  112  della
 Costituzione,   per   lesione   del   principio   di  obbligatorieta'
 dell'azione penale; con l'art. 101, secondo comma, poiche' il giudice
 non sarebbe soggetto soltanto alla legge, ma  anche  alle  iniziative
 dell'imputato;   con   gli   artt.  3  e  97,  sia  per  l'intrinseca
 irragionevolezza di detto meccanismo, sia per violazione dei principi
 di uguaglianza e di buon andamento dell'amministrazione;  e,  infine,
 con  l'art. 25, primo comma, per la possibilita' data all'imputato di
 sottrarsi, con tecnica  elusiva  finalizzata  alla  prescrizione  dei
 reati, al giudice naturale.
   Per le medesime ragioni, il Tribunale della stessa citta' denuncia,
 in  riferimento agli artt. 3, 97 e 101 della Costituzione, l'art.  47
 del codice di procedura penale, nella parte  in  cui  fa  divieto  di
 pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza della
 Cassazione che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta.
   2.  -  Prospettate  le  questioni  in  termini pressoche' identici,
 sebbene i dati normativi  non  siano  esattamente  sovrapponibili,  i
 giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente trattati.
   3.   -   Gia'   investita  di  analoga  censura,  questa  Corte  ha
 pronunciato, con la  sentenza  n.  460  del  1995,  una  declaratoria
 d'inammissibilita',  rilevando  l'imprecisa  denuncia della normativa
 processuale e l'erronea indicazione del parametro nell'art. 112 della
 Costituzione,  ma  si  e'  detta  nel  contempo   consapevole   degli
 "inconvenienti  lamentati  dal  giudice  a quo" e, cioe', tanto della
 "possibilita'  di  un  uso  distorto  della  riproposizione,  a  fini
 dilatori, della richiesta di rimessione", quanto dell'obbligo "per il
 giudice  di  merito  di fermarsi, ai sensi dell'art. 47, primo comma,
 del codice di rito, alle  soglie  della  sentenza"  (cfr.  la  citata
 sentenza n. 460 del 1995).
   3.1.  -  Individuata esattamente la norma, la questione e' fondata.
 Entrambe le  ordinanze  censurano,  invero  correttamente  (la  Corte
 d'appello  solo  in  parte  qua),  l'art.  47, comma 1, del codice di
 procedura penale, vale a dire la disposizione che rende possibile  il
 lamentato abuso della rimessione.
   Pur  non  trattandosi  di  un nuovo istituto, quello introdotto dal
 codice di procedura penale del 1988 e' uno strumento processuale  che
 contiene una rilevante novita': mentre nella precedente disciplina si
 stabiliva,  con  l'art.  57,  che  il procedimento per rimessione non
 sospendeva l'istruzione o il giudizio (salvo ordinanza di sospensione
 della Corte di cassazione), in quella attuale si e'  invece  inserito
 il  divieto  di  "pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta
 l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta".
   Sotto il vigore del vecchio codice furono rare, significativamente,
 le decisioni della Corte di cassazione al riguardo e, fra  le  poche,
 nessuna  mise  in  discussione  il  potere  del  giudice di merito di
 pronunciare la sentenza. La conseguenza naturale  di  questo  mancato
 divieto   consisteva   nella   non   "dannosita'"   di   qualsivoglia
 reiterazione dell'istanza di rimessione  (in  caso  d'una  precedente
 richiesta  dichiarata  inammissibile  o  infondata dalla Cassazione),
 perche' non preclusiva della decisione del giudizio di merito.
   Nel pur apprezzabile  disegno  di  razionalizzazione  del  processo
 davanti  al  iudex suspectus, il legislatore ha voluto che - pendente
 il  giudizio  di  rimessione  -  l'effetto  sospensivo   si   produca
 automaticamente,  e al momento della decisione del processo operi una
 preclusione per il giudice del dibattimento.  L'innovazione  risponde
 all'esigenza  d'un razionale contemperamento dei principi di economia
 processuale e di terzieta' del giudice: e' infatti la regola che  non
 si sospenda il processo, in seguito all'istanza di rimessione, mentre
 e'  a  fondamento  dell'istituto  il  potere di decidere conferito al
 giudice che e' estraneo agli interessi in gioco. Ma nell'innovare non
 si  e'  tenuto  conto   degli   eventuali   abusi   derivanti   dalla
 riproposizione  della  richiesta  su  cui  la  Cassazione si sia gia'
 espressa con una declaratoria di inammissibilita' o di rigetto.  Cio'
 e'  quanto  testimoniano  le  ordinanze  dei Collegi triestini, nelle
 quali si sottolinea l'uso  scopertamente  dilatorio  della  richiesta
 avanzata  ex  artt.  46  e  segg.  del  codice  di procedura penale e
 finalizzata ad allontanare nel tempo  la  decisione  di  merito,  con
 l'effetto  d'una probabile prescrizione dei reati e di un inevitabile
 riflesso    negativo    sul    precario    stato    di     efficienza
 dell'amministrazione giudiziaria.
   3.2.  -  La questione sollevata dalle due ordinanze, che denunciano
 l'effetto irrazionale dell'art. 47, comma  1,  in  relazione  all'uso
 distorto della reiterazione dell'istanza di rimessione ex art. 49 del
 codice  di  procedura  penale, e' fondata alla luce dell'art. 3 della
 Costituzione.
   L'equilibrio fra i principi di economia processuale e di  terzieta'
 del giudice e' infatti solo apparente nella ponderazione codicistica,
 posto  che  il  possibile abuso processuale determina la paralisi del
 procedimento,  tanto  da   compromettere   il   bene   costituzionale
 dell'efficienza  del  processo,  qual  e'  enucleabile  dai  principi
 costituzionali    che    regolano    l'esercizio    della    funzione
 giurisdizionale,  e  il  canone fondamentale della razionalita' delle
 norme  processuali.  Pienamente  libero   nella   costruzione   delle
 scansioni  processuali,  il  legislatore non puo' tuttavia scegliere,
 fra i possibili percorsi, quello  che  comporti,  sia  pure  in  casi
 estremi,  la  paralisi  dell'attivita' processuale, perche' impedendo
 sistematicamente   tale   attivita',   mediante   la   riproposizione
 dell'istanza di rimessione, si finirebbe col negare la stessa nozione
 del   processo   e   si   contribuirebbe   a  recare  danni  evidenti
 all'amministrazione della giustizia.
   Occorre, allora, rimuovere la fonte  di  tali  rischi,  dichiarando
 l'illegittimita' costituzionale dell'art. 47, primo comma, del codice
 di  procedura  penale,  nella  parte  in cui fa divieto al giudice di
 pronunciare la sentenza fino a che non  sia  intervenuta  l'ordinanza
 che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta.
   A  parte  il  parametro  inadeguato, costituito dall'art. 112, gia'
 oggetto di esame nella sentenza n. 460 del 1995, gli altri (artt.  25
 e 101 della  Costituzione)  restano  assorbiti  nelle  considerazioni
 esposte sopra.