ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale degli artt. 12, lettera
 f), e 34, numero 7, della legge 18 ottobre 1961, n. 1168 (Norme sullo
 stato  giuridico  dei  vice  brigadieri  e  dei  militari  di  truppa
 dell'Arma  dei carabinieri), e 33 del codice penale militare di pace,
 promosso con ordinanza emessa il 16 febbraio 1995  dal  Consiglio  di
 giustizia  amministrativa  per  la  Regione  siciliana,  sul  ricorso
 proposto  dal  Ministero  della  difesa  contro  Mandara'  Guglielmo,
 iscritta  al  n.   869 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  52,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1995;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio  del  10  luglio  1996  il  giudice
 relatore Francesco Guizzi.
                           Ritenuto in fatto
   1.  - Investito del ricorso proposto dal Ministero della difesa nei
 confronti di Mandara' Guglielmo per l'annullamento della sentenza del
 Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia,  sezione  staccata
 di  Catania, n. 318 del 1994, avente per oggetto la perdita del grado
 e la cessazione dal servizio del Mandara', il Consiglio di  giustizia
 amministrativa  per la Regione siciliana ha sollevato, in riferimento
 agli artt. 3 e  27  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
 costituzionale  degli  artt.  12,  lettera  f), e 34, numero 7, della
 legge 18 ottobre 1961, n.  1168  (Norme  sullo  stato  giuridico  dei
 vice-brigadieri  e dei militari di truppa dell'Arma dei carabinieri),
 e dell'art. 33 del codice penale  militare  di  pace,  approvato  con
 regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303.
   Il  Ministero della difesa, nel ricorso in appello, sostiene che il
 Tribunale amministrativo ha erroneamente  applicato  l'art.  9  della
 legge  7  febbraio  1990,  n. 19: osservazione, questa, condivisa dal
 Collegio rimettente, secondo il  quale  sorgerebbe  in  tal  modo  un
 dubbio  di  legittimita' costituzionale degli artt. 12, lettera f), e
 34, numero 7, della legge n. 1168 del 1961, nonche' dell'art. 33  del
 codice  militare di pace, con riguardo innanzitutto all'art. 27 della
 Costituzione,  perche'  la  pena  accessoria  -  al  di   la'   della
 denominazione che ne sia data - e' una vera e propria pena criminale,
 a  carattere  interdittivo.  Onde il contrasto con l'art. 27, primo e
 terzo  comma,  della  Costituzione,  il  quale  impone  ch'essa   sia
 proporzionata  all'entita'  del  fatto  commesso  e alla personalita'
 dell'autore: dosaggio che solo il giudice puo' effettuare, mentre  la
 competenza  a  infliggere la sanzione disciplinare e' attribuita alla
 pubblica amministrazione.
   Tali  principi  non   sarebbero   rispettati   dalle   disposizioni
 denunciate.    A causa della concorrente applicazione delle norme del
 codice penale e, in sede amministrativa, della disciplina speciale  -
 oltre  che  dell'art.  33 del codice penale militare - la valutazione
 sulla pena accessoria e' sottratta al giudice naturale e rimessa alla
 pubblica amministrazione,  che  non  potrebbe  pero'  compiere  alcun
 apprezzamento discrezionale.
   Il  Collegio  non  ignora  quanto  affermato  da questa Corte sulla
 destituzione di diritto (in particolare nella  sentenza  n.  104  del
 1991),  ma  non  tralascia  di  rilevare  che  lo stato giuridico dei
 vice-brigadieri e dei militari di truppa dell'Arma dei carabinieri e'
 regolato da una normativa peculiare,  in  ragione  dei  compiti  loro
 affidati.  L'art.    9  della legge n. 19 del 1990 non avrebbe quindi
 abrogato gli artt.  12, lettera f), e 34, numero 7,  della  legge  n.
 1168  del  1961, e l'art.  33 del codice penale militare di pace. Si'
 che vi sarebbe altresi' violazione dell'art.  3  della  Costituzione,
 dal  momento  che nei confronti dei militari, dopo la sentenza n. 104
 del 1991, non opera piu' la destituzione automatica.
   2. - E' intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso
 per la infondatezza, reputando non corretta  la  ricostruzione  della
 normativa  proposta  dal  Collegio  rimettente. La rimozione prevista
 dall'art. 33 del codice penale militare e' infatti una pena  militare
 accessoria,  irrogata dall'autorita' giudiziaria e non dalla pubblica
 amministrazione; quest'ultima  adotta  soltanto  i  provvedimenti  di
 perdita  del  grado  e  di  cessazione  dal servizio, che sono misure
 disciplinari amministrative.  Nella normativa in esame  non  ricorre,
 pertanto,  alcuna  pena  militare  accessoria,  la  cui  adozione sia
 demandata all'autorita' amministrativa.
   Il  denunciato   automatismo   del   provvedimento   amministrativo
 (consequenziale  all'applicazione, da parte del giudice penale, della
 pena accessoria) sarebbe comunque attenuato dagli artt. 4 e  8  della
 legge  n.  19  del 1990, giacche' il giudice penale puo' impedire, di
 fatto,  l'applicazione  della  sanzione  disciplinare  concedendo  la
 sospensione  condizionale  della  pena, che si estende anche a quella
 accessoria.
   L'Avvocatura  osserva,   poi,   che   secondo   la   giurisprudenza
 amministrativa  la  perdita del grado non si traduce nel conferimento
 all'amministrazione  di  un  potere  discrezionale:  tale   soluzione
 interpretativa si risolverebbe, invero, nella sostanziale abrogazione
 della  norma  di  rigore  dettata  dal  legislatore  a presidio degli
 interessi pubblici  che  qualificano  il  pubblico  impiego  militare
 rispetto  a  quello  civile. Non sarebbe percio' applicabile l'art. 9
 della legge n. 19 del  1990,  perche'  la  perdita  dell'impiego  non
 consegue  all'esercizio  di una potesta' amministrativa disciplinare,
 ma e' l'effetto automatico dell'applicazione di una  sanzione  penale
 accessoria   irrogata  dal  giudice  penale,  qual  e'  la  rimozione
 militare. L'Avvocatura richiama, infine, la sentenza n. 490 del 1989,
 di inammissibilita', le ordinanze  nn.  201  e  137  del  1994  e  la
 sentenza  n.  197 del 1993 che - dichiarando illegittima la decadenza
 di diritto -  fa  salva  la  pena  accessoria  dell'interdizione  dai
 pubblici  uffici.  Quanto alla sentenza n. 104 del 1991, invocata dal
 Collegio  rimettente,  essa  non  avrebbe  alcuna   incidenza   sulle
 disposizioni penali concernenti le pene accessorie.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Il  Consiglio  di  giustizia  amministrativa  per la Regione
 siciliana  dubita,  in  riferimento  agli  artt.   3   e   27   della
 Costituzione,  della  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  12,
 lettera f), e 34, numero 7, della legge  18  ottobre  1961,  n.  1168
 (Norme  sullo  stato  giuridico dei vice-brigadieri e dei militari di
 truppa dell'Arma dei carabinieri), e dell'art. 33 del  codice  penale
 militare  di  pace,  approvato con regio decreto 20 febbraio 1941, n.
 303.  Il Collegio rimettente osserva, in primo luogo, che non sarebbe
 applicabile alla fattispecie l'art.  9 della legge 7  febbraio  1990,
 n.  19,  perche'  non  viene  in  rilievo, a suo avviso, una sanzione
 disciplinare, ma una pena militare accessoria; sempre nel senso della
 inapplicabilita' varrebbe, poi, la peculiarita' dello stato giuridico
 dei  vice-brigadieri  e  dei  militari  di   truppa   dell'Arma   dei
 carabinieri.  La normativa denunciata sarebbe in contrasto con l'art.
 27,  primo  e  terzo  comma,  della  Costituzione:   la   concorrente
 applicazione  delle  norme  del  codice  penale  e  della  disciplina
 speciale,  oltre  che  dell'art.  33  del  codice  penale   militare,
 sottrarrebbe infatti la valutazione sulla pena accessoria al giudice,
 rimettendola   alla   pubblica   amministrazione;   sarebbe  violato,
 altresi', l'art. 3 della Costituzione, non essendo piu' soggetti  gli
 altri  militari - dopo la sentenza n. 104 del 1991 - all'applicazione
 automatica della destituzione.
   2. - Per impostare correttamente la  questione,  occorre  precisare
 l'ambito  di operativita' della disciplina introdotta, per l'Arma dei
 carabinieri, dalla legge n. 1168  del  1961,  analogamente  a  quanto
 disposto  per  l'Esercito,  la  Marina  e l'Aeronautica da altri atti
 normativi, e segnatamente dall'art. 70 della legge 10 aprile 1954, n.
 113, norma gia' sottoposta al vaglio di  legittimita'  costituzionale
 di questa Corte, nei termini che fra poco si richiameranno. Dati che,
 invero,   non   risultano   adeguatamente   ponderati   dal  Collegio
 rimettente, e percio' da approfondire.
   3. - Il codice penale militare di pace prevede,  nell'ambito  delle
 pene   militari   accessorie,   la   degradazione   e  la  rimozione,
 rispettivamente  agli  artt.  28  e  29.  Entrambe  hanno   carattere
 perpetuo;  la  degradazione  si  applica  a  tutti i militari e priva
 radicalmente il condannato della qualita' di militare,  la  rimozione
 colpisce  quelli rivestiti di un grado, e comunque appartenenti a una
 classe superiore all'ultima, e fa discendere il  militare  condannato
 "alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe".
   E'  dunque  evidente che la pena accessoria della rimozione, di per
 se', non comporta la cessazione dal  servizio.  La  misura  espulsiva
 trova  fondamento nell'art. 12, lettera f), e nell'art. 34, numero 7,
 della citata legge n. 1168 del 1961, che stabiliscono  la  cessazione
 dal  servizio  continuativo  per  la  perdita del grado; quest'ultima
 segue in particolare alla condanna, passata in giudicato, nei casi in
 cui la  legge  penale  militare  preveda  la  pena  accessoria  della
 rimozione  (v. ancora l'art. 34, numero 7, lettera a), della legge n.
 1168  del  1961,  norma  richiamata   nel   preambolo   del   decreto
 ministeriale,  impugnato  nel  giudizio a quo, che commina la perdita
 del grado e la conseguente cessazione dal servizio continuativo).  La
 perdita  del  grado  e  la  cessazione  dal  servizio non sono quindi
 inflitte  dal  giudice  penale,  pur  essendo   consequenziali   alla
 rimozione:  esse  sono irrogate dall'autorita' amministrativa, con un
 provvedimento amministrativo.
   Questa Corte, vagliando le censure di  legittimita'  costituzionale
 mosse   ad   analoga   disposizione   dettata   per   gli   ufficiali
 dell'Esercito, della Marina e dell'Aeronautica (art. 70  della  legge
 n.  113  del  1954,  gia' menzionata), ha sottolineato come l'art. 9,
 comma  1,  della  legge  7  febbraio  1990,  n.  19,  abbia   espunto
 dall'ordinamento  la  destituzione di diritto del pubblico dipendente
 in seguito a condanna penale, abrogando ogni  contraria  disposizione
 di  legge;  l'art.  70, numero 5, della legge n. 113 del 1954 risulta
 pertanto abrogato, con conseguente inammissibilita'  della  questione
 di  legittimita'  costituzionale  (ordinanza  n.  403  del 1992 e, in
 precedenza, ordinanze nn. 113 del 1991 e 130 del 1990). La  Corte  ha
 dunque  fornito un'ampia interpretazione dell'art.  9, comma 1, della
 legge n. 19 del 1990, anche in  considerazione  del  fatto  che  tale
 legge   risponde   ai   principi   affermati   dalla   giurisprudenza
 costituzionale in tema di destituzione. Ma  il  Collegio  rimettente,
 basandosi  su  una  recente decisione del Consiglio di Stato, ritiene
 inapplicabile  alla  fattispecie  detta  disposizione  e  lamenta  la
 disparita'  di  trattamento  che si viene cosi' a determinare a danno
 degli appartenenti all'Arma dei carabinieri (in violazione  dell'art.
 3), eccependo altresi' la lesione dell'art. 27 della Costituzione.
   Quanto  si  e'  detto  poc'anzi  sulla  distinzione fra rimozione e
 destituzione, nonche'  sull'autonomo  rilievo  della  cessazione  dal
 servizio   per   perdita   del  grado  -  misura  espulsiva  irrogata
 dall'Amministrazione militare - consente di  impostare  correttamente
 il  dubbio di costituzionalita' delle due disposizioni della legge n.
 1168 del 1961.
   4.  -  La  questione  e'  fondata,  alla  luce  dell'art.  3  della
 Costituzione.
   Questa   Corte   non   puo'  che  ribadire  l'illegittimita'  della
 destituzione  di  diritto,  e  la  necessita'  che   si   svolga   il
 procedimento  disciplinare  al  fine  di  assicurare l'indispensabile
 gradualita' sanzionatoria, riconducendo alla loro  sede  naturale  le
 relative   valutazioni.   L'automatismo   presente   nella  normativa
 denunciata  e'  illegittimo  per   violazione   dell'art.   3   della
 Costituzione,   con   riguardo,   innanzitutto,   al   canone   della
 razionalita' normativa (sentenza n. 971  del  1988  e,  poi,  fra  le
 varie,  le  sentenze  nn.  415  e 104 del 1991, 134 del 1992, 126 del
 1995).  D'altra  parte,  il  trattamento  deteriore  riservato   agli
 appartenenti  all'Arma  dei  carabinieri  non  trova  valida  ragione
 giustificatrice nel loro status militare: questa  Corte  ha  rilevato
 come   la  mancata  previsione  del  procedimento  disciplinare,  nel
 vulnerare le garanzie procedurali  poste  a  presidio  della  difesa,
 finisca  per  ledere  il buon andamento dell'amministrazione militare
 sotto  il  profilo  della  migliore   utilizzazione   delle   risorse
 professionali,  oltre  che l'art.   3 della Costituzione (sentenza n.
 126 del 1995).
   E' quindi da dichiarare l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
 12,  lettera  f),  e  dell'art. 34, numero 7, della legge n. 1168 del
 1961, nella parte  in  cui  non  prevedono,  per  la  cessazione  dal
 servizio  continuativo  per  perdita del grado, conseguente alla pena
 accessoria   della   rimozione,   l'instaurarsi   del    procedimento
 disciplinare,  secondo  i  principi  affermati  dalla  giurisprudenza
 costituzionale e sanciti dall'art. 9 della legge n. 19 del  1990.  Va
 da   se'  che  spetta  all'Amministrazione  militare  -  valutate  le
 risultanze del procedimento disciplinare - disporre  la  perdita  del
 grado  e la cessazione dal servizio continuativo, ove ne sussistano i
 presupposti.
   5. - E' invece infondata la  censura  mossa,  in  riferimento  agli
 artt.  3  e  27  della  Costituzione,  all'art.  33 del codice penale
 militare  di  pace,  dal  momento  che  la  nuova  disciplina   sulla
 destituzione  dei  pubblici dipendenti, di cui all'art. 9 della legge
 n.  19  del 1990, e' estranea all'applicazione delle pene accessorie,
 anche di carattere interdittivo (ordinanze nn. 201 e 137 del 1994,  e
 sentenza  n.  197  del  1993,  di cui v., in particolare, il n. 4 del
 Considerato in diritto).