IL TRIBUNALE MILITARE
Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Spinelli
Luigi, nato a Verona l'11 febbraio 1975, atto di nascita n. 109/A/I,
residente a Argenta (Ferrara) frazione Anita in via Fossa dei
Socialisti n. 12, celibe, censurato, soldato nella forza armata del
distretto militare di Chieti, libero imputato di diserzione (art. 148
n. 2 c.p.m.p.), perche' perdurava nell'arbitraria assenza anche
posteriormente alla sentenza di condanna del tribunale militare di
Padova del 17 ottobre 1995 e fino a tutt'oggi.
In esito al pubblico ed orale dibattimento.
Fatto e diritto
Con sentenza del 17 ottobre 1995 (irrevocabile il 14 dicembre 1995)
il militare Spinelli Luigi veniva condannato da questo tribunale
militare per reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.), in relazione ad
assenza dal servizio che ancora non era cessata alla data del
giudizio.
Il procuratore militare in sede, a fronte del perdurare
dell'assenza, instaurava altro procedimento per il reato di
diserzione in epigrafe, decorrente dal 17 ottobre 1995, data della
prima pronuncia. L'assenza a tutt'oggi non e' ancora cessata.
Secondo costante giurisprudenza regolatrice e del giudice militare
d'appello, la prosecuzione dell'assenza arbitraria dopo la sentenza
di primo grado costituisce ad ogni effetto un nuovo ed autonomo
reato, come tale da giudicare senza che per cio' venga violato il
principio del ne bis in idem di cui all'art. 649 c.p.p. Dovrebbe,
pertanto, essere accolta la richiesta del p.m.
Con varie ordinanze emesse il 12 aprile 1994 e in date successive
questo tribunale sollevava tuttavia questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui consente che
per un unico reato permanente, una o piu' volte "giudizialmente
interrotto", sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio
superiore a quello edittalmente stabilito per il reato medesimo, in
relazione agli artt. 3, 25 secondo comma e 27 primo comma della
Costituzione. In tal modo questo giudice remittente, nell'alveo del
principio di civilta' giuridica sancito dall'art. 649 c.p.p., e
prendendo atto inoltre - come di un dato di diritto vivente - della
permanenza dei reati di assenza dal servizio, intendeva porre in
risalto che dall'"interruzione della permanenza" conseguente al
giudizio derivano seri problemi di legittimita', con violazione delle
citate disposizioni costituzionali. E nell'occasione era apparso che
l'istituto dell'"interruzione giudiziale della permanenza",
individuato quale responsabile delle lamentate illegittimita',
trovasse il suo riscontro normativo nel citato art. 649 c.p.p.
Con l'ordinanza n. 150 del 4-5 maggio 1995 la Corte costituzionale
ha dichiarato la manifesta inammissibilita' della questione,
rilevando innanzitutto che l'effetto dell'"interruzione giudiziale
della permanenza" non discende affatto dall'applicazione del
principio contenuto nell'art. 649 c.p.p., ma soprattutto che
l'orgine delle asserite incostituzionalita' non e' l'interruzione
giudiziale, bensi' il fatto che il reato sia configurato e
disciplinato come permanente. Sul punto la Corte ha poi precisato che
la permanenza si collega, oltre che alle caratteristiche delle
disposizioni incriminatrici e all'art. 158 primo comma c.p., alla
disposizione dell'art. 68 c.p.m.p., secondo cui per i reati di
assenza dal servizio il termine di prescrizione, se l'assenza
perduri, decorrere dal giorno in cui il militare ha compiuto l'eta'
per la quale cessa in modo assoluto l'obbligo del servizio militare,
e a quella infine dell'art. 9 d.P.R. 14 febbraio 1964 n. 237, che per
i militari di truppa stabilisce di norma l'estinzione dell'obbligo
militare alla data del 31 dicembre dell'anno del compimento del
quarantacinquesimo anno di eta'.
La Corte ha, dunque, giustamente riportato la problematica ai suoi
profili originari e fondamentali.
Il quesito se i reati omissivi propri (nel cui ambito vanno
compresi quelli di assenza dal servizio perche' consistenti
nell'inottemperanza al dovere di presentazione alle armi, o di
riassunzione del servizio al termine della legittima assenza o a
seguito dell'allontanamento arbitrario) siano, o meno, permanenti ha
avuto varie soluzioni in giurisprudenza e soprattutto in dottrina.
Oltre ad orientamenti intermedi, sono presenti in quest'ultima anche
concenzioni estreme: quella secondo cui il reato omissivo proprio mai
potrebbe essere permanente; quella secondo cui il reato omissivo
proprio sarebbe il reato permanente per antonomasia. Quanto alle
assenze dal servizio, secondo l'ormai prevalente dottrina (Venditti e
di recente Brunelli e Mazzi) si tratterebbe di reati istantanei,
mentre in giurisprudenza unanime e' l'idea che sia reati permanenti.
La tesi della permanenza del reato omissivo proprio chiaramente si
basa sul perdurare dell'obbligo extrapenale (c.d. obbligo
sottostante) la cui inosservanza e' penalmente sanzionata, e
corrisponde dunque alla concezione del diritto penale come
ulteriormente sanzionatorio di precetti propri di altre branche
dell'ordinamento giuridico. Per quanto specificamente riguarda i
reati di assenza dal servizio, lo stretto collegamento tra diritto
penale e precetti dell'ordinamento militare e' anche particolarmente
sottolineato dalla disposizione dell'art. 68 c.p.m.p., sulla quale
giustamente si sofferma la stessa Corte costituzionale nella gia'
citata ordinanza n. 150 del 1995. Nel caso di assenza che non sia
ancora terminata, la prescrizione del reato comincia a decorrere dal
giorno in cui il militare cessa in modo assoluto l'obbligo militare:
norma che, in quanto correlata all'art. 158 primo comma c.p., viene
esattamente, o quanto meno correntemente (cosi' da dar luogo a
diritto vivente), intesa quale configurazione autentica (e del resto
l'art. 377 c.p.m.p. testualmente parlava di "permanenza") di reati
non istantanei e per di piu' con una permanenza che ha termine con la
cessazione dell'obbligo militare. In definitiva, per diretta
statuizione dello stesso legislatore i reati di assenza dal servizio
sono delineati come permanenti e piu' particolarmente con un periodo
di consumazione che puo' particolarmente con un periodo di
consumazione che puo' anche durare venticinque anni circa (dall'eta'
del servizio di leva sino al congedo assoluto).
E' da questa situazione normativa che scaturiscono - come per lo
Spinelli - le conseguenze gia' da questo giudice denunciate come
trasgressive di basilari principi costituzionali; conseguenze che qui
e' bene ancora brevemente illustrare.
Si consideri innanzitutto come, dato che dal giudizio in costanza
della permanenza prende vita un nuovo fatto di reato che a sua volta
richiede un ulteriore giudizio, si instaura la spirale
fatto-giudizio-fatto, e cosi' via, per cui la responsabilita'
dell'imputato non dipende soltanto dal suo operato, bensi' - in
patente violazione dell'art. 27 primo comma della Costituzione -
anche dal funzionamento dell'apparato giudiziario militare. La
pluralita' delle condanne per un unico reato permanente giudicato in
piu' riprese comporta, inoltre, un progressivo aumento della pena e
un trattamento sanzionatorio che diviene una prova di forza tra lo
Stato ed il condannato, chiaramente in contraddizione con la liberta'
di coscienza garantita dall'art. 2 della Costituzione e con la
finalita' rieducativa della pena di cui all'art. 27 terzo comma della
Costituzione. Ed ancora: la moltiplicazione dei giudizi comporta un
innalzamento della pena, praticamente indeterminato, sino al limite
del triplo del massimo della pena edittale, in contraddizione con il
principio di legalita' della pena sancito dall'art. 25 secondo comma
della Costituzione. Ne risulta, infine, violato anche il principio di
uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, in quanto, a
parita' di periodo di assenza dal servizio, il trattamento
sanzionatorio complessivo viene a derivare dal grado di efficienza
dell'apparato giudiziario competente a conoscere del reato nei vari
autonomi episodi che si creano con l'interruzione giudiziale.
Responsabile di quest'inaccettabile risultato - che gia' il
legislatore del 1941 aveva scongiurato con la previsione di un unico
giudizio a norma dell'art. 377 c.p.m.p. - appare, come si e' detto,
l'art. 68 c.p.m.p., in difetto del quale i reati di assenza dal
servizio, in adesione alle piu' accreditate concezioni dottrinarie,
sarebbero da considerare instantanei; oppure sarebbero ancora da
considerare permanenti, ma sencondo ben diverse modalita' e cadenze
temporali, tali da non comportare quella spirale delle condanne su
cui si incentrano le censure di incostituzionalita'.
In merito a quest'ultimo punto, non puo' infatti sottacersi dalla
sfasatura logica e temporale esistente tra gli obblighi che vengono
sanzionati con le varie norme penali militari da un lato, e l'obbligo
dalla cui estinzione dipende ex art. 68 la cessazione della
permanenza nel reato dall'altro.
L'obbligo sanzionato dall'art. 151 c.p.m.p. e' quello di
presentarsi ad un determinato reparto militare per intraprendere il
servizio di ferma; obbligo che, con possibili evidenti conseguenze in
ordine alla cessazione della permanenza nel reato, muta di contenuto
(divenendo mero obbligo di mettersi a disposizione del distretto
militare di appartenenza per una nuova chiamata alle armi) non appena
con il trascorrere del tempo si abbia nell'organizzazione militare un
nuovo ciclo addestrativo, e quindi una nuova chiamata alle armi.
L'obbligo sanzionato dagli art. 148 e 149 c.p.m.p. in materia di
diserzione e' quello della presenza nel reparto militare; obbligo che
analogamente si modifica, con la possibilita' che ne derivi la
cessazione della permanenza nel reato, con il transito del disertore,
trascorsi novanta giorni di assenza (circ. 40049/40 SD del 15 luglio
1967), nella forza assente del distretto militare di appartenenza.
L'obbligo cui, vigendo l'art. 68 c.p.m.p., e' collegata la
cessazione della permanenza e' invece, come si evince dagli artt. 9 e
10 d.P.R. 14 febbraio 1964 n. 237, quello militare nella sua
globalita', della durata di venticinque anni circa e comprensivo di
vari doveri, soggezioni, limitazioni di diritti. Si tratta quindi di
un dato normativo onnicomprensivo, della prestazione militare nella
sua globalita', che esula dai piu' limitati obblighi che stanno alla
base delle varie figure di reato.
E dunque le descritte incostituzionalita' sono da attribuire
all'art. 68 c.p.m.p. non solamente perche' impedisce di considerare
come istantanei i reati di assenza di servizio; ma anche perche'
configura una permanenza sui generis, un periodo di consumazione che
si prolunga sino a coincidere con l'obbligazione militare nella sua
interezza.
Pertanto questo tribunale, anche cogliendo le indicazioni contenute
nella citata ordinanza della Corte, ritiene di dover sollevare
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 68 c.p.m.p., in
relazione agli artt. 2, 3, 25 secondo comma e 27 primo e terzo comma
della Costituzione.
La questione e' rilevante nel presente giudizio in quanto, con la
caducazione della norma impugnata, sarebbe evitata un'ulteriore
condanna per lo Spinelli.
Ma alla dichiarazione di illegittimita' dell'art. 68 potrebbe anche
pervenirsi, a parere di questo tribunale, per semplice estensione, a
norma dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87,
dell'illegittimita' dell'art. 377 c.p.m.p., gia' pronunciata con
sentenza della Corte n. 469 del 1990. E' evidente il nesso dell'art.
68 con la disposizione secondo cui, per garantire un'unica sentenza,
il giudizio per i reati di assenza era sospeso sino alla cessazione
della permanenza. Essendo venuto meno l'art. 377, dovrebbe pertanto
pronunciarsi l'illegittimita' anche dell'art. 68.