IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato la seguente ordinanza ai  sensi degli artt. 23 e 24
 della legge costituzionale n. 87/1953, nella causa civile iscritta al
 n.  2242  del  r.g.a.c.  dell'anno    1988,  riservata  in  decisione
 all'udienza  collegiale  del   6 febbraio 1996, ed avente ad oggetto:
 risarcimento danni a seguito di espropriazione illegittima, tra  Papa
 Antonio e De Rosa Maria Carmina, elettivamente domiciliati in Arienzo
 (Caserta)  alla  via  S.  Andrea  n.  2,  presso  lo studio dell'avv.
 Vincenza   Memola che li  rappresenta  e  difende  giusta  procura  a
 margine  dell'atto  di  citazione,  attori  e  comune  di Cervino, in
 persona del sindaco legale rappresentante pro-tempore,  elettivamente
 domiciliato  insieme con l'avv. Gabriele Casertano che lo rappresenta
 e difende giusta procura a margine della comparsa di risposta, in  S.
 Maria  C.V.  alla  via  Latina n. 15, presso lo studio dell'avv. Elio
 Sticco, convenuto.
                              Conclusioni
   All'udienza  del  30  novembre  1993  il  procuratore   dell'attore
 concludeva  domandando  l'accoglimento  della domanda introdotta, con
 vittoria delle spese di giudizio. Il  procuratore  del  convenuto  si
 riportava  innanzitutto alle proprie precedenti difese e domandava la
 rinnovazione della CTU. Concludeva,  quindi,  per  il  rigetto  della
 domanda  cosi'  come  formulata  e  per  l'accoglimento delle proprie
 eccezioni e richieste.  Chiedeva, infine, il favore  delle  spese  di
 lite.
                        Svolgimento del processo
   Con atto ritualmente notificato il 6 maggio 1988, Papa Antonio e De
 Rosa  Maria  Carmina  convenivano  in  giudizio il comune di Cervino.
 Esponevano gli attori di avere subito ad opera del convenuto, in data
 3 luglio 1984 (decreto n. 2291/1984), la parziale occupazione  di  un
 loro  fondo  sito  in  Cervino  alla  via  Risorgimento, riportato in
 catasto alla partita 2793,  foglio  6,  particella  103,  esteso  per
 complessive are 11,94.
   L'occupante  aveva disposto nel gennaio del 1988 il pagamento di un
 indennizzo di complessive L. 2.352.000, che gli istanti qualificavano
 "irrisorio".  Chiedevano  pertanto  che  il  tribunale   determinasse
 l'esatto  importo loro dovuto, comprensivo di interessi rivalutazione
 e danni ulteriori, e condannasse il comune di Cervino a liquidarlo.
   Si  costituiva  il  convenuto  affermando  l'inammissibilita' della
 domanda attorea poiche' gli istanti hanno ricevuto il pagamento della
 (sola) indennita' provvisoria dovuta, e la  stessa,  proprio  perche'
 provvisoria,  e'  inidonea  a  produrre  la  lesione  di  un  diritto
 soggettivo.  Non e' sorta pertanto in favore degli attori, a  seguito
 delle vicende descritte, alcuna pretesa soggettiva tutelabile innanzi
 al  giudice  ordinario.  Con  riguardo  alla  domanda  di  danni,  si
 sosteneva che essa avrebbe dovuto  essere  dichiarata  improponibile,
 poiche' i termini dell'occupazione legittima (quinquennale a far data
 dal  3  luglio  1984) non erano ancora scaduti, e non si era pertanto
 realizzato    alcun    comportamento    illecito    della    pubblica
 amministrazione.
   Prodotta  dalle parti documentazione varia, dopo breve istruttoria,
 il 5 marzo 1991 la causa era rimessa al collegio che,  decidendo  con
 sentenza  non  definitiva sulle contestazioni preliminari, dichiarava
 ammissibili  le  azioni  proposte  e  rimetteva  le   parti   innanzi
 all'istruttore.
   Completata  l'esibizione  documentale,    espletata  la  consulenza
 tecnica richiesta dall'attore,  precisate dalle parti le  conclusioni
 come  trascritte  in  epigrafe,  la causa era rimessa al collegio che
 all'udienza del 6 febbraio 1996 si riservava la decisione.
                         Motivi della decisione
   Prima di  esaminare  il  merito  della  presente  controversia,  il
 tribunale reputa di dover analizzare una problematica preliminare. In
 virtu' della modifica apportata dall'art. 1, comma 65, della legge 28
 dicembre  1995  n.  549  ("Misure  di razionalizzazione della finanza
 pubblica"), - norma  entrata  in  vigore  dal  1  gennaio  1996  come
 previsto  dall'art.   244, e pertanto prima della decisione di questo
 giudizio - infatti,  e'  stata  estesa  l'applicazione  del  criterio
 legale  di  determinazione  delle  indennita'  espropriative  di  cui
 all'art.  5-bis  del  decreto-legge  n.  333/1992   convertito,   con
 modificazioni   nella   legge  n.  359/1992  anche  alla  misura  dei
 risarcimenti  dovuti  in  conseguenza  di   illegittime   occupazioni
 acquisitive.
   Come e' noto, l'art. 5-bis cit. nel testo previgente disponeva, tra
 l'altro  (comma  n.  1),  che  fino all'approvazione di una "organica
 disciplina   per   tutte   le   espropriazioni"   preordinate    alla
 realizzazione   di  opere  di  pubblica  utilita',  la  misura  delle
 indennita' espropriative sarebbe stata determinata con il criterio di
 cui  all'art.  13,  terzo  comma,  della  legge  n.  2892  del  1895,
 sostituendosi   in  ogni  caso  al  parametro  dei  fitti  coacervati
 dell'ultimo decennio quello del reddito dominicale rivalutato di  cui
 all'art.  24  e seguenti del testo unico 22 dicembre 1986, n. 917 (in
 sostanza l'importo  dell'indennita'  si  calcola  operando  la  media
 aritmetica  tra  il  valore  venale  del suolo e la rendita catastale
 rivalutata degli ultimi dieci  anni),  e  riducendosi  poi  l'importo
 ottenuto  del  40%  (salvi  i  casi  di  cessione volontaria e quelli
 equiparati  a  seguito  della  sentenza  n.  283/1993   della   Corte
 costituzionale).
   Il sesto comma dell'articolo citato escludeva dall'applicazione dei
 criteri  indennitari  sopra  indicati solo i casi in cui l'indennita'
 fosse stata accettata dalle parti o fosse  divenuta  non  impugnabile
 con  sentenza  passata  in  giudicato  alla data di entrata in vigore
 della legge di conversione del decreto-legge n. 333/1992 (in  pratica
 all'8 agosto 1992).
   L'art.   1,  comma  65,  della  legge  n.  549/1995  ha  sostituito
 integralmente tale ultimo comma, dettando: "Le disposizioni di cui al
 presente articolo si applicano in tutti i casi in cui non sono  stati
 ancora   determinati   in   via   definitiva   il  prezzo,  l'entita'
 dell'indennizzo  e/o  del  risarcimento  del  danno  alla   data   di
 conversione del presente decreto".
   Che  il  risarcimento  dei danni di cui al nuovo disposto normativo
 sia  proprio  quello   relativo   alla   perdita   della   proprieta'
 nell'ipotesi   di   c.d.  "occupazione  acquisitiva"  (o  "accessione
 invertita")  non  sembra  seriamente   contestabile,   tenuto   conto
 dell'abbinamento  operato  nella  previsione  legislativa  - in forma
 disgiuntiva   come   congiuntiva   (e/o)    -    all'indennita'    di
 espropriazione,  e  considerato  che,  nella  materia de qua, il solo
 altro risarcimento ipotizzabile e' quello da  occupazione  temporanea
 illegittima,  per  la determinazione del quale non appare proponibile
 il ricorso ai criteri determinativi sopra menzionati (in cui uno  dei
 valori  da  mediare  e'  dato  dal valore c.d. "pieno", o venale, del
 suolo). Sembra evidente, dunque, l'intenzione  del  legislatore  che,
 sollecitato  presumibilmente  dalla  necessita'  di  rispondere  alle
 ricorrenti esigenze di contenimento della spesa pubblica, ha ritenuto
 di equiparare del tutto, sul  piano  patrimoniale,  alle  conseguenze
 derivanti  dalle  espropriazioni  legittime,  quelle  derivanti dalle
 illegittime ablazioni di "fatto",  poste  in  essere  dalla  pubblica
 amministrazione  o  dai  soggetti  per  conto  della stessa operanti,
 facendo salve solo (come gia' avvenuto nel  1992)  le  determinazioni
 divenute  inoppugnabili  in  sede  amministrativa  o  per  effetto di
 giudicato.
   Prescindendo  da   ogni   considerazione,   non   rilevante   nella
 fattispecie, in ordine ai dubbi di applicabilita' intertemporale (nel
 periodo compreso tra l'8 agosto 1992 e il 1 gennaio 1996) dell'ultima
 disposizione,  e' certo che essendo ancora controverso nella vertenza
 in esame, tra l'altro, l'importo del risarcimento dovuto; agli attori
 in  conseguenza  della  subita  "occupazione  acquisitiva"  (la   cui
 verificazione e', peraltro, pacifica, controvertendosi solo in ordine
 alla  risalenza  della stessa, se alla scadenza del quinquennio o del
 successivo biennio di una assunta proroga legale dell'occupazione  di
 urgenza),   non  si  e'  ancora  formato  un  "giudicato"  in  ordine
 all'"entita'"  di  tale  spettanza  e,  pertanto,  occorre  applicare
 necessariamente  il  ius superveniens innanzi esaminato per calcolare
 l'importo dell'indennita' dovuta  (che  e'  la  principale  questione
 sostanziale dibattuta tra le parti).
   Tanto  premesso,  osserva il tribunale che la parificazione operata
 dalla norma in esame tra le conseguenze patrimoniali delle  ablazioni
 lecite  e  di  quelle  illecite,  si  risolve  in  una apparentemente
 irrazionale e non adeguatamente  giustificata  attenuazione,  se  non
 elusione,  del  principio  di legalita' delle espropriazioni. Questo,
 infatti, e' stato posto dal legislatore a  garanzia  del  diritto  di
 proprieta'   privata   che,   come   ripetutamente   affermato  dalla
 giurisprudenza della  suprema  Corte  di  cassazione  e  della  Corte
 costituzionale,  puo'  essere si' sacrificato (previo indennizzo) per
 corrispondere alle preminenti esigenze  della  collettivita',  tenuto
 anche  conto  della funzione sociale costituzionalmente attribuita al
 diritto dominicale, ma (soltanto) nei casi previsti dalla legge e nel
 rispetto  delle  rigorose  forme  dei   procedimenti   amministrativi
 finalizzati alla espropriazione.
   I  seri  dubbi  di  legittimita'  costituzionale,  in  relazione al
 principio di uguaglianza di cui all'art.  3  della  Costituzione,  si
 pongono percio' in ordine ad un duplice profilo:
     1)   per  l'ingiustificata  discriminazione,  rispetto  ad  altre
 categorie di soggetti passivi di atti illeciti, che la norma in esame
 introduce a danno dei titolari dei diritti di proprieta'  immobiliare
 illegittimamente  acquisiti dalla pubblica amministrazione (o da chi,
 per essa, si sia avvalso dell'istituto dell'occupazione acquisitiva),
 in quanto nei confronti ed a discapito dei predetti la norma  di  cui
 all'art.    1, comma 65, della legge n. 549/1995, prevede una vistosa
 deroga ad uno dei principi basilari dell'ordinamento civilistico,  ai
 termini  del  quale  chi  abbia,  per  effetto della violazione della
 fondamentale  regola  di  convivenza  sociale  del  neminem  laedere,
 subi'to  un  danno (ossia una decurtazione del proprio patrimonio) ha
 diritto  all'integrale   ricostituzione   dello   stesso   a   carico
 dell'autore  dell'illecito, soggetto pubblico o privato che sia (art.
 2043 c.c.);
     2) per l'irrazionale, ingiustificata e totale parificazione  agli
 effetti patrimoniali, delle conseguenze delle espropriazioni svoltesi
 nel  rispetto  delle  regole  legali  che le disciplinano e di quelle
 ablazioni  "di  fatto",  che  si   verificano   in   conseguenza   di
 un'attivita'  materiale  svolta  dalla  pubblica  amministrazione non
 prestando osservanza alle regole medesime.
   Tale parificazione non puo' trovare adeguata giustificazione  nelle
 esigenze  di  contenimento  della  spesa  pubblica, che sembrano aver
 indotto il  legislatore  ad  introdurre  la  censurata  disposizione,
 essendo  altri  i  mezzi e le regole preordinate al corretto prelievo
 finanziario (v. artt. 23 e 53 della Costituzione), che  il  tribunale
 non  reputa  possa  essere  correttamente  realizzato  attraverso  un
 risparmio di spesa realizzato fornendo un sostanziale  avallo  legale
 all'illecito  posto  in essere dalla pubblica amministrazione. Questo
 infatti sembra essere l'effetto  dell'operata  eliminazione  di  ogni
 conseguenza patrimoniale sfavorevole per l'espropriante in dipendenza
 della mancata osservanza del corretto procedimento espropriativo, con
 il  conseguente  venir  meno della principale remora al compimento di
 atti illegittimi.
   Ne', considerando le due diverse situazioni di ablazioni lecite  ed
 illecite dal punto di vista dei soggetti passivi, puo' ritenersene la
 sostanziale  equivalenza.  Se  e' vero, infatti, che il sacrificio in
 termini di diritti dominicali puo' risultare  materialmente  identico
 (risolvendosi  comunque nella perdita definitiva della proprieta' del
 bene),  deve  pero'  osservarsi  che  non  sono  affatto  uguali   le
 situazioni  giuridiche  in  cui  vengono  a  trovarsi le due indicate
 categorie di soggetti, in primo luogo in  ordine  agli  strumenti  di
 tutela  delle  proprie  pretese  giuridiche  che  gli  stessi possono
 attivare.   Solo   chi   rimanga   vittima   di    un    procedimento
 occupativo-espropriativo  che  si  svolga  nel  rispetto delle regole
 legali, infatti, ha:
     1)  la  possibilita'  di  controllare  l'iter  del   procedimento
 ablatorio e, se del caso, di intervenire nel corso dello stesso quale
 portatore   (quanto   meno)   di  interessi  legittimi  correlati  al
 compimento dei vari  atti  procedimentali,  potendo  anche  domandare
 tutela nelle competenti sedi amministrative e giurisdizionali;
     2)   il  diritto  a  godere  del  piu'  favorevole  regime  della
 prescrizione estintiva, in quanto il suo diritto alla  indennita'  si
 estingue  nel  termine  ordinario  decennale di cui all'art. 2946 del
 codice  civile,  mentre  nel  caso  di  c.d.  "accessione  invertita"
 conseguente   ad  illecita  occupazione,  il  termine  prescrizionale
 applicabile  al  diritto  di  risarcimento  dei   danni   e'   quello
 quinquennale di cui all'art. 2947 cit. cod. civ.
   Un'ulteriore considerazione sembra al Collegio meritevole di essere
 proposta.
   Ora  che  la  pubblica  amministrazione  -  per  effetto  di quanto
 disposto dalla norma censurata -  ha la possibilita' di acquisire  la
 proprieta'  dei  suoli  che  le  occorrono per la realizzazione delle
 opere di interesse pubblico semplicemente agendo per le c.d.  "vie di
 fatto", o comunque eludendo la disciplina procedimentale  predisposta
 dal  legislatore  per il conseguimento del risultato, e quando agisca
 in tal senso si vede pure riconoscere una piu' favorevole  disciplina
 delle  obbligazioni  contratte  nei  confronti  del  soggetto passivo
 vittima del suo  operare,  e'  agevole  ipotizzare  che  la  pubblica
 amministrazione  preferira'  da  ora in poi non seguire (mai) piu' le
 regole legali del procedimento ablatorio, realizzandosi in  tal  modo
 la sostanziale abrogazione, anche questa "di fatto", delle stesse.
   Conseguenziali  alle suesposte riflessioni si pongono i forti dubbi
 di legittimita' della norma in esame anche in relazione all'art.  42,
 terzo  comma,   della   Costituzione,   considerato   che   l'operata
 equiparazione  agli effetti patrimoniali vanifica del tutto o in gran
 parte  il  principio  di  legalita'  delle  espropriazioni,  posto  a
 presidio  della  proprieta'  privata.  Cio'  perche'  ora la pubblica
 amministrazione puo' acquisire il diritto dominicale contraendo,  nei
 confronti  degli  ex  titolari  dello  stesso, obbligazioni uguali ed
 anzi, come si e' visto, meno gravose di quelle che avrebbe  contratto
 nell'ipotesi  (che dovrebbe considerarsi) "fisiologica" di osservanza
 della legge, pure nel caso "patologico" in cui essa violi il disposto
 normativo.
   Evidente, dunque, e' la conseguenza. Essendosi ormai liberata  (sul
 piano  pratico) la pubblica amministrazione dall'obbligo di osservare
 le  norme  del  procedimento  espropriativo  (giacche',  la  relativa
 mancata  osservanza  viene  ora  a trovarsi, in subiecta materia, del
 tutto improduttiva di conseguenze sfavorevoli sul piano  patrimoniale
 e,  quindi, non efficacemente sanzionata), si e' finito con il creare
 una vera e propria fattispecie di "espropriazione di  fatto"  che  si
 affianca  (sintomatico in tal senso e' l'uso da parte del legislatore
 delle congiunzioni e/o che si rinviene nel sesto comma del  riscritto
 art.  5-bis cit.) a quella rituale e legittima, quale via alternativa
 e  sommaria  ai  fini  dell'acquisizione  della  proprieta' dei suoli
 occorrenti per la realizzazione di opere  di  pubblico  interesse.  E
 poiche' tale forma di ablazione, solo genericamente ed indirettamente
 prevista  dalla  legge,  puo'  svolgersi al di fuori di ogni garanzia
 formale, il suesposto principio di legalita' appare del  tutto  eluso
 dal nuovo dettato normativo.
   Giova,  a  questo  punto,  precisare che il collegio non ignora che
 l'istituto dell'occupazione acquisitiva  ha    recentemente  superato
 indenne il vaglio di legittimita' da parte della Corte costituzionale
 (v.  sent.  n.  188 del   17/23 maggio 1995). Ma la questione oggi si
 pone in termini diversi, rispetto a quelli  a  suo  tempo  rimessi  a
 detta  Corte  (che  pur  ebbe  a  puntualizzare le piu' significative
 differenze,  caratterizzate   e   giustificate,   sul   piano   della
 legittimita'   costituzionale,  anche  e  soprattutto  dalle  diverse
 conseguenze patrimoniali delle due forme di  ablazione),  considerato
 che  all'epoca  mancava  un  riconoscimento legislativo espresso, sia
 pure in  forma  indiretta,  dell'occupazione  acquisitiva  e  che  le
 conseguenze  patrimoniali  dei  due istituti erano nettamente diverse
 (ristoro parziale, in considerazione  della  funzione  sociale  della
 proprieta' e delle garanzie di legge, nel caso dell'indennizzo
  espropriativo,    e    reintegrazione   piena   della   decurtazione
 patrimoniale subita dal soggetto passivo, nel caso di risarcimento da
 illegittima acquisizione).
   L'esame  che  si  intende  sottoporre  alla  Corte   suddetta   e',
 conclusivamente, duplice:
     I)  se sia costituzionalmente legittimo, in relazione all'art.  3
 della Costituzione e sotto i due profili sopra esposti, attribuire ai
 soggetti danneggiati dalle  illegittime  occupazioni  acquisitive  un
 ristoro   patrimoniale  decurtato  (analogamente  a  quello  che,  in
 cospetto di diversi presupposti ed in presenza di specifiche garanzie
 di legge, viene attribuito ai soggetti legittimamente espropriati);
     II) se, cosi' come riformulato a seguito della modifica  disposta
 con  l'art.  1,  comma  65, della legge n. 549/1995, l'art. 5-bis del
 decreto-legge n. 333/1992 convertito, con modificazioni,  nella  lege
 n.  359/1992,  non  abbia,  sia  pure implicitamente, introdotto, per
 effetto della parificazione come sopra operata, una forma anomala  di
 espropriazione,  del  tutto  svincolata  dall'osservanza  di garanzie
 procedimentali e, quindi, in violazione dell'art.  42,  terzo  comma,
 della Costituzione.
   Alla   luce   delle  considerazioni  esposte,  ritenute  pienamente
 soddisfatte le condizioni di cui agli artt. 23 e 24  della  legge  n.
 87/1953,  il collegio reputa necessario rimettere gli atti alla Corte
 costituzionale, per il giudizio di sua competenza  ai  termini  degli
 artt. 134 e segg.  della Cost.