IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento chiamato all'udienza del 24 settembre 1996 instaurato ai sensi degli artt. 677 e 678 del c.p.p, 50 o. p. (istanza di semiliberta') nei confronti di Rizzi Daniele nato a S. Arcangelo di Romagna il 25 aprile 1962 detenuto nella C.R. Rebibbia, in relazione al seguente titolo: sentenza 19 marzo 1986 Corte di appello L'Aquila aa. 22 di reclusione (aa. 1 condonati) per sequestro di persona a scopo di estorsione, detenzione e porto abusivo di armi, decorrenza pena: 15 aprile 1983, fine pena: 30 gennaio 2001. O s s e r v a La ammissibilita' dell'istanza di semiliberta' proposta da Rizzi Daniele, trovandosi questi tuttora in espiazione di pena per il reato di cui all'art. 630 c.p. (aa. 21 inflitti a questo titolo) deve essere valutata in relazione ai requisiti previsti dal dettato normativo dell'art. 4-bis o.p. quale risultante dall'intervento delle sentenze della Corte Costituzionale relative a detta disposizione. A tale riguardo il tribunale rileva che non sussiste, con riferimento al Rizzi, il requisito della utile collaborazione ex art. 58-ter, e che essendo mancato in sede giudiziaria l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilita', la necessita' di detto requisito potrebbe essere superata, in presenza di elementi tali da escludere collegamenti attuali con la criminalita' organizzata, solo dall'impossibilita' della collaborazione a causa della limitata partecipazione al fatto criminoso (sentenza n. 357/1994). Sul punto questo tribunale si e' gia' pronunciato (ordinanza del 23 giugno 1995), negando la inesigibilita' della collaborazione. Esso assume, rispetto alla posizione del Rizzi, valore decisivo ai fini della ammissibilita' dell'istanza in esame, a causa della sussistenza degli altri presuppsti di legge. In particolare la insussistenza di collegamenti attuali con la criminalita' organizzata risulta sia dal fatto che il reato non e' maturato in un contesto di criminalita' organizzata - i promotori ed organizzatori, Rizzi e Calderas Walter avevano all'epoca dei fatti rispettivamente ventuno e ventisei anni - sia dalla positiva evoluzione della personalita' dell'istante nel corso di tredici anni di detenzione. Infatti il comportamento intramurario del Rizzi nel corso degli anni e' stato connotato da correttezza e adesione alle regole istituzionali, e il gruppo di osservazione ha rilevato convinta partecipazione al trattamento e volonta' di superare il passato deviante. In considerazione di questi risultati il Rizzi e' stato ammesso ai permessi premio sin dal 1988, ed in data 6 aprile 1992 era stato approvato il programma di trattamento che prevedeva l'ammissione al lavoro all'esterno, rimasto poi inseguito per effetto dell'entrata in vigore della disciplina limitativa della concessione dei benefici penitenziari (legge n. 356/1992). Da ultimo, in data 29 marzo 1996 e' stato proposto per la grazia dal Consiglio di disciplina. Le vicende della esecuzione della pena inflitta al Rizzi sono intrecciate alle modifiche normative e agli interventi della Corte costituzionale che hanno interessato negli ultimi anni la materia penitenziaria. Infatti l'istante, ammesso ai permessi premio, come si e' detto, sin dal 1988, si e' visto dichiarare inammissibile, a causa della entrata in vigore del decreto-legge n. 306/1992, una successiva istanza ex art. 30-ter o.p. per difetto del requisito della collaborazione. Il tribunale di sorveglianza di Roma, adito dal Rizzi in sede di reclamo, con ordinanza del 23 giugno 1995 sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis o.p. con riferimento all'art. 25 c.p.v. della Costituzione, evidenziando come sia la data di commissione del reato sia la data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna fossero anteriori all'intervento della disciplina restrittiva. Intervenuta nelle more la sentenza n. 504/1995 della Corte costituzionale, quest'ultima restituiva gli atti al tribunale di sorveglianza, per una nuova valutazione della rilevanza della questione sollevata, valutazione che aveva esito negativo, potendo il Rizzi avendo gia' fruito in precedenza di permessi premio, beneficiare degli effetti della sentenza sopra menzionata. L'odierna istanza del Rizzi, tendente alla concessione della semiliberta', invece incorre nella causa di inammissibilita' di cui all'art. 4-bis primo comma, o.p., non risultando applicabile il principio affermato nella sentenza della Corte costituzionale n. 306/1993, relativo alla ipotesi di revoca di benefici gia' concessi. Al riguardo la difesa del Rizzi eccepisce la illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis sotto due distinti profili. Sotto il primo profilo, la difesa sostiene che risultando la assenza di collegamenti con la criminalita' organizzata, ed essendo stata gia' compiuta, in sede di ammissione ai permessi premio, una valutazione di mancanza di pericolosita' sociale, e' irragionevole l'impedimento che la normativa frappone all'ottenimento della semiliberta' interrompendo la progressivita' del trattamento penitenziario, con conseguente violazione del diritto del detenuto ad espiare la pena con modalita' idonee a favorire il completamento del processo rieducativo. Sotto il secondo profilo si eccepisce il contrasto della norma con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, sulla base dell'assunto che il precetto costituzionale ricomprenda anche le norme di natura sostanziale relative alle misure alternative alla detenzione, in quanto incidenti sulla qualita' e quantita' della pena da espiare. Questo tribunale, per le considerazioni che seguono, ritiene rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di costituzionalita' relative alla norma contenuta nell'art. 4-bis legge n. 354/75 - introdotta dal decreto-legge n. 306/1992, convertito con legge n. 203 del 1991 - con riferimento: 1) agli art. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione; 2) all'art. 25, secondo comma, della Costituzione. 1. - Secondo un costante insegnamento della Corte costituzionale fra le finalita' che la Costituzione assegna alla pena non puo' stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta, valevole in ogni situazione (cfr. sentenza n. 282 del 1989). Il legislatore quindi puo', nei limiti della ragionevolezza, fare tendenzialmente prevalere la finalita' di difesa sociale o quella rieducativa, purche' nessuna di esse rimanga vanificata. Di conseguenza la Corte ha ritenuto (sentenza n. 306 del 1993) che la scelta legislativa di privilegiare finalita' di prevenzione generale e di sicurezza della collettivita', condizionando alla collaborazione, per gli autori di determinati reati, la concedibilita' delle misure alternative alla detenzione, fosse per se stessa immune da censure di incostituzionalita'. Cio' nondimeno la Corte ha rilevato che in determinate situazioni la applicazione della disciplina restrittiva incontra un limite nel rispetto dell'iter riabilitativo seguito dal detenuto. In particolare, con la sentenza n. 306 del 1993, ha dichiarato incostituzionale la previsione della revoca delle misure alternative in caso di difetto di collaborazione con la giustizia anche quando non sia stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalita' organizzata. Cio' sulla base della considerazione che con la concessione del beneficio, l'aspettativa del condannato a vedere riconosciuto l'esito positivo del percorso di risocializzazione gia' compiuto si consolida in nuovo status, corrispondente ad uno stadio avanzato del processo di risocializzazione, che non puo' venire meno in assenza di motivi di demerito da parte del detenuto. Tale principio e' stato portato ad una conseguenza ulteriore dalla sentenza n. 504/1995, la quale ha assimilato la mancata concessione di permessi premio, ove il condannato ne abbia gia' fruito in precedenza, alla revoca delle misure alternative. La Corte ha rilevato che la fruizione di permessi premio costituisce parte integrante del programma di trattamento, ed e' funzionale all'avvio della risocializzazione in ambito extramurario ed alla verifica dei progressi compiuti in vista della concessione di misure alternative alla detenzione, cosicche' l'interruzione dei permessi premio per ragioni non addebitabili al detenuto si pone in contrasto col principio di progressivita' del trattamento. Questo tribunale, di fronte ad una ipotesi - inammissibilita' dell'istanza di misura alternativa presentata da chi fruisce regolarmente di permessi premio - che finora non e' stata valutata dalla Corte, ma che ha la sua origine nella sentenza n. 504 del 1995, ritiene che in base ai medesimi principi costituzionali sottesi a questa decisione sia ipotizzabile un contrasto tra la norma ed il principio sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Invero la Costituzione rimette alla discrezionalita' del legislatore la configurazione e l'ambito applicativo degli istituti attinenti all'esecuzione della pena, attraverso i quali la funzione rieducativa trova concreta realizzazione. Il legislatore, tuttavia, e' soggetto, fra gli altri, al divieto costituzionale di vanificare il percorso riabilitativo intrapreso dal condannato. Si tratta di un divieto che riposa, nei casi in cui le modifiche normative imporrebbero una regressione nel trattamento, sul principio di colpevolezza di cui all'art. 27, primo comma, della Costituzione, che regola anche la fase della esecuzione della pena, ed in questo senso e' richiamato nella sopra citata sentenza n. 306 del 1993. In questa stessa decisione, peraltro, e' sancito, in termini piu' generali, con riferimento all'avvio del percorso di risocializzazione, il "diritto ad espiare la pena con modalita' idonee a favorire il completamento di tale processo", il che sposta l'attenzione dalla conservazione dei benefici gia' concessi alla tutela dell'aspettativa del condannato alla progressione nel trattamento. Il tema e' ripreso piu' ampiamente nella sentenza n. 504 del 1995. Interessa in questa sede il fatto che la Corte, in questa occasione, non si e' limitata a rilevare che i permessi, pur non sostanziandosi in una continuativa esperienza di risocializzazione e non innovando lo status di detenuto, costituiscono nel loro complesso una forma di trattamento la cui interruzione e' assimilabile alla revoca, ma ha valorizzato la funzione "pedagogico-propulsiva" assolta dal permesso premio. Infatti la Corte ha chiarito che l'eadem ratio decidendi della sentenza n. 306 del 1993, come impedisce la revoca delle misure alternative alla detenzione, cosi' preclude anche la interruzione del trattamento programmato anche al perseguimento di misure alternative. In altre parole, sembra che la Corte non abbia inteso semplicemente cristallizzare la posizione del condannato contro interventi peggiorativi da parte del legislatore, ma abbia ritenuto di dovere far salva la progressione trattamentale nei confronti di coloro che gia' si siano dimostrati meritevoli di risocializzazione, il che impone due ordini di considerazioni. In primo luogo, la norma della cui legittimita' costituzionale si dubita interrompe la progressivita' del trattamento, vanificando esigenze che la Corte ha reputato di rango costituzionale: se si afferma che l'esperienza dei permessi premio non puo' essere interrotta perche' funzionale alla concessione delle misure alternative, la norma che nella stessa situazione di fatto rende queste ultime inammissibili non puo' andare esente dal dubbio di incostituzionalita'. In secondo luogo si deve evidenziare che vi e' oggi una fascia della popolazione carceraria che e' ammessa a fruire di permessi premio, ed attraverso questa esperienza progredisce nella risocializzazione, maturando aspettative ulteriori di reinserimento, ma per ragioni contingenti non ha accesso a quei benefici che di questo processo dovrebbero essere lo sviluppo naturale. Cio' senza che vi sia una giustificazione derivante dalla pericolosita' sociale o da collegamenti con la criminalita' organizzata, gia' esclusi in sede di concessione dei permessi. Questo tribunale ritiene pertanto che la situazione descritta possa configurare una violazione del principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena di cui all'art. 27, terzo comma, ed una irragionevole disparita' di trattamento ai sensi dell'art. 3 della Costituzione, in confronto a chi si trova a fruire delle misure alternative alla detenzione unicamente perche' la data del provvedimento concessivo e' anteriore alla entrata in vigore della norma in discorso. 2. - La rilevanza della seconda questione sollevata si ricollega al fatto che il tempus commissi delicti (7 dicembre 1982-28 gennaio 1983) e' anteriore all'entrata in vigore de d.-l. 8 giugno 1992 n. 306. La esatta delimitazione del principio di irretroattivita' di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione e' tema sul quale la dottrina piu' attenta si e' soffermata diffusamente, evidenziando come sia poco coerente con la funzione di garanzia che la norma assolve l'interpretazione che ne circoscrive la portata a|le disposizioni che creano nuove figure di reato e comminano le relative sanzioni. Per quanto attiene specificamente alla materia in esame, gia' dal tenore letterale della disposizione costituzionale, con il riferimento testuale alle norme in forza delle quali si unisce, si puo' argomentare la soggezione al divieto di retroattivita' delle norme che regolano la esecuzione della pena inflitta, oltre che di quelle in forza delle quali viene pronunciata la condanna. Ma soprattutto si ritiene che sussista con riferimento alle une ed altre la medesima esigenza di garanzia, e precisamente di prevedibilita' da parte dei consociati delle conseguenze della propria condotta. Invero le norme che istituiscono e disciplinano i benefici penitenziari, determinandone fra l'altro i requisiti di ammissibilita', si saldano con le norme sanzionatorie concorrendo con queste nella determinazione in concreto della pena da espiare. Si deve aggiungere che, specie nella fase attuale, la normativa penitenziaria viene adoperata come strumento di politica criminale e di prevenzione generale, cosicche' appare difficile argomentare la sua esclusione dal divieto di irretroattivita' dalla diversita' di ratio rispetto alle norme sanzionatorie. La Corte costituzionale non si e' mai pronunciata su questo punto, per difetto di rilevanza della questione nelle occasioni in cui questa e' stata sottoposta al suo esame, pur rilevando incidentalmente (sentenza n. 306 del 1993) che essa potrebbe meritare una seria riflessione. il che conferma la conclusione di questo tribunale che la questione sia, anche sotto questo profilo, non manifestamente infondata.