ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 9 e 10 del
 d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432 (Interventi urgenti sul processo civile
 e sulla disciplina transitoria della legge 26 novembre 1990, n.  353,
 relativa al medesimo processo), convertito in legge 20 dicembre 1995,
 n. 534, promosso con ordinanze emesse:
   1)  il  25  novembre  1995  dal giudice istruttore del tribunale di
 Brescia nel  procedimento  civile  vertente  tra  Saleri  Giuseppe  e
 Martinangeli Paola ed altri, iscritta al n. 18 del registro ordinanze
 1996  e  pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5,
 prima serie speciale, dell'anno 1996;
   2) l'11 aprile 1996 dal tribunale di Milano nel procedimento civile
 vertente tra Nodari Margherita e  Orlando  Franco  Andrea  ed  altre,
 iscritta  al  n.  748  del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  34,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1996;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio del 13  novembre  1996  il  giudice
 relatore Cesare Ruperto.
                           Ritenuto in fatto
   1.1.  -  Nel  corso  dell'udienza fissata per la precisazione delle
 conclusioni di un giudizio per  risarcimento  danni,  introdotto  nel
 1992,  il  giudice istruttore presso il tribunale di Brescia, innanzi
 al quale la causa era stata rinviata  (in  quanto  giudice  designato
 alla  trattazione  delle  cause  pendenti  al  30  aprile  1995), con
 ordinanza emessa il 25 novembre 1995, ha  sollevato,  in  riferimento
 agli  artt.    3,  24,  25  e  97  della  Costituzione,  questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 10 del d.-l. 18  ottobre  1995,
 n. 432, nella parte in cui, modificando il comma 1 dell'art. 91 della
 legge  26  novembre  1990,  n.  353, prevede che alla trattazione dei
 giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 sono destinati, fino al
 31 dicembre  1996,  non  piu'  della  meta'  di  tutti  i  magistrati
 incaricati della trattazione dei giudizi e degli affari civili.
   Il  rimettente  sottolinea  come il comma 2 della norma consenta al
 dirigente dell'ufficio di assegnare le cause iniziate successivamente
 al 30 aprile 1995 anche ai magistrati addetti  alla  trattazione  dei
 giudizi  pendenti  e  come  tale  possibilita'  sia stata ammessa dal
 C.S.M., con propria circolare,  solo  per  gli  uffici  con  organico
 complessivo  inferiore  ai  sei  magistrati  incaricati  degli affari
 civili.
   Appunto in forza di tale normativa  il  giudizio  a  quo  e'  stato
 assegnato  al  rimettente,  il  quale ne sospetta l'illegittimita' in
 riferimento  ai  citati  parametri.  Sussisterebbe  in  primo   luogo
 violazione  degli  artt.  3 e 24 della Costituzione, poiche' tutte le
 cause pendenti al 30 aprile 1995 vengono "concentrate" soltanto sulla
 meta' dei giudici addetti al settore civile, mentre l'altra meta'  e'
 addetta  esclusivamente  ai  giudizi  iniziati successivamente a tale
 data, con conseguente differenza nei tempi di decisione,  assai  piu'
 lunghi   per   le  prime,  mentre  le  seconde  vengono  trattate  da
 "magistrati sgravati dal ruolo delle cause pendenti". La presenza  di
 ruoli   di   diversa   consistenza   comporterebbe   un   trattamento
 differenziato tra cittadini  (in  ragione  del  mero  dato  temporale
 dell'introduzione  del  giudizio)  lesivo  anche  dell'art.  24 della
 Costituzione, in quanto le cause di piu' lunga definizione  sarebbero
 proprio quelle avviate in epoca piu' remota.
   La  norma impugnata risulterebbe altresi' lesiva dell'art. 25 della
 Costituzione, poiche', in contrasto con  l'art.  174  del  codice  di
 procedura  civile,  si  verrebbe a mutare il giudice istruttore senza
 l'indicazione di criteri precostituiti per la scelta  dei  magistrati
 destinati  a  trattare le cause pendenti e quelli preposti ai giudizi
 sopravvenuti.  Tale  mancanza  di  regole  finirebbe   per   incidere
 "sull'immagine"   del   giudice   istruttore,   mentre   la   pratica
 impossibilita' di controllare l'iter  logico  che  ha  condotto  alla
 assegnazione  dei  processi  lascerebbe  "adito  alle  piu'  svariate
 interpretazioni, anche malevole". Osserva in proposito il  rimettente
 che  per  le  "vecchie"  cause  il  tribunale  decide in composizione
 collegiale  e  che  con  un  ruolo  di  diverse  migliaia  di   cause
 risulterebbero  impossibili  per  l'istruttore l'effettiva conoscenza
 delle stesse e l'esercizio dei poteri di direzione  di  cui  all'art.
 127  cod.  proc.  civ. La scelta dei giudici dovrebbe quindi avvenire
 nella massima trasparenza per  evitare  discriminazioni  tra  giudici
 dello stesso ufficio.
   La  norma  impugnata  sarebbe  infine  lesiva  dell'art.  97  della
 Costituzione, poiche', per garantire il successo della riforma, se ne
 sarebbero poste le conseguenze negative a carico  dei  cittadini;  in
 proposito si fa rilevare come l'originario art. 91 della legge n. 353
 del  1990  prevedeva  che alla trattazione delle cause pendenti fosse
 destinato un numero  di  magistrati  non  inferiore  alla  meta'  ne'
 superiore  ai  due  terzi, e come, con l'aumento della competenza per
 valore del pretore,  la  sopravvenienza  di  cause  nuove  presso  il
 tribunale  si  e'  drasticamente ridotta. La violazione del principio
 del buon andamento  risiederebbe  anche  nella  diversa  ripartizione
 quantitativa del carico di lavoro sulle cancellerie dei magistrati.
   1.2.  -  E'  intervenuto  il Presidente del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che  ha  concluso
 per  l'inammissibilita',  ovvero  per l'infondatezza della questione.
 Sotto  il  primo  profilo  si  osserva  che  le  doglianze  avrebbero
 legittimato  un  ricorso  del  giudice  in  altre  sedi  piu' che una
 questione di costituzionalita'  (che  si  tradurrebbe  nel  lamentare
 discriminazioni all'interno dell'ufficio).
   Nel  merito  l'Autorita' intervenuta sottolinea anzitutto la natura
 transitoria della norma, del tutto giustificabile nella fase di prima
 attuazione di una riforma ed esclude la violazione dell'art. 24 della
 Costituzione, in quanto il precetto costituzionale non impone che  la
 tutela  giurisdizionale  venga  conseguita sempre nello stesso modo e
 con i medesimi effetti, mentre nel caso in esame nessun onere sarebbe
 imposto all'esercizio  del  diritto  di  difesa.  Pretendere  poi  di
 sindacare  l'iter logico che sottende l'assegnazione, significherebbe
 paralizzare  quel  potere  del  presidente  del   tribunale   sancito
 dall'art.  168-bis  cod.  proc.  civ., che nella specie ammette anche
 l'adozione di un criterio diverso rispetto a quello censurato, quando
 il numero di magistrati  disponibili  non  consenta  di  adottare  il
 descritto meccanismo proporzionale.
   Non    sarebbero    infine   ravvisabili   quell'arbitrarieta'   ed
 irragionevolezza, nelle quali si concreta la violazione dell'art.  97
 della  Costituzione,  in  quanto  la  scelta  del  dato temporale per
 individuare  il   diverso   regime   cui   assoggettare   i   giudizi
 rappresenterebbe  il criterio piu' obiettivo e rigoroso per garantire
 l'efficacia della riforma.
   2. - Il tribunale di  Milano,  in  sede  di  reclamo  di  ordinanza
 istruttoria ammissiva della prova, ha sollevato, con ordinanza emessa
 l'11  aprile  1996,  questioni  di  legittimita'  costituzionale:  a)
 dell'art. 9 del d.-l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito in legge 20
 dicembre 1995, n. 534, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101, secondo
 comma,  della  Costituzione,  nella  parte  in   cui   ha   eliminato
 l'applicabilita'  ai  giudizi in corso alla data di entrata in vigore
 della riforma, dell'intera novella sul processo civile (in precedenza
 sancita dall'art. 90, comma  8,  della  legge  n.  353  del  1990)  e
 comunque  in  quanto esclude l'applicabilita' dell'art. 178 novellato
 del codice di procedura civile (che abolisce il controllo istruttorio
 del collegio) e degli artt.  180,  183  e  190-bis  cod.  proc.  civ.
 concernenti la monocraticita' del giudice; b) dell'art. 10 del citato
 decreto-legge,   in   riferimento   agli  artt.  3,  24  e  97  della
 Costituzione, nella parte in cui fissa  un  rapporto  tra  magistrati
 addetti  alla trattazione dei giudizi pendenti e magistrati assegnati
 alle  cause  nuove  ancor  meno  favorevole  di  quello  indicato  in
 precedenza  dall'art.  91,  comma  4,  della  legge  n.  353 del 1990
 (anziche' adottare un criterio che avvantaggi  la  trattazione  delle
 cause in corso).
   Il  rimettente  collegio  prende le mosse proprio dalle norme che -
 per i giudizi pendenti - lasciano sussistere il - reclamo istruttorio
 (del quale appunto egli e' investito), cosi' cancellando l'originario
 disegno della disciplina transitoria che voleva esteso il nuovo  rito
 anche alle cause in corso (ex art. 90, comma 8, cit.) . Si sarebbe in
 tal  modo  creato un "doppio binario" per i giudizi - rispettivamente
 pendenti  e  sopravvenuti  al  30  aprile  1995  -  creativo  di  una
 disparita'  di trattamento tra le parti, non giustificata da esigenze
 di gradualita'.   Secondo il tribunale, il  perpetuarsi  del  vecchio
 rito  renderebbe  eccessivamente difficoltoso il raggiungimento della
 tutela  dei  diritti  e  sarebbe  in  contrasto  con   altre   scelte
 legislative, come quella adottata allorche' fu introdotto il rito del
 lavoro,  in  cui la disciplina transitoria prevedeva l'estensione del
 nuovo rito ai giudizi pendenti, si' che i princi'pi  contenuti  nelle
 disposizioni abrogate dovrebbero essere reintrodotti.
   Secondo  il  giudice  a  quo,  l'istituto  del  reclamo al collegio
 rappresenterebbe un rimedio superfluo (essendovi gia' la facolta'  di
 chiedere  la  modifica  o la revoca del provvedimento ammissivo delle
 prove al giudice che lo  ha  emesso),  non  di  rado  usato  a  scopi
 meramente  dilatori e che perpetua una sovrapposizione ed un continuo
 passaggio  tra  i  due  organi  investiti  dell'istruzione  e   della
 decisione,  anche perche' l'istruttore, per non scontentare le parti,
 potrebbe essere indotto a rimettere al collegio  l'intera  causa.  La
 soppressione  del  reclamo ben potrebbe essere affermata - osserva il
 giudice  a  quo  -  anche  nel  vigente  sistema  di   collegialita',
 trattandosi di un rimedio anacronistico, il cui perpetuarsi non giova
 allo smaltimento dell'arretrato.
   Parimenti  rilevante,  anzi  assorbente  rispetto  alla  precedente
 questione, risulterebbe - secondo il tribunale di Milano - il profilo
 d'illegittimita' costituzionale concernente la  mancata  applicazione
 ai  giudizi  in  corso  dell'art.  190-bis con la conseguente vigenza
 della regola che vuole la collegialita' per decidere le  controversie
 (mentre  pure qui era stata prevista la figura del giudice unico). Da
 cio' deriverebbero tempi lunghissimi per definire le controversie  in
 corso,  con  inutile aggravio di costi. Anche l'art. 190-bis potrebbe
 essere    esteso    ai     giudizi     pendenti     indipendentemente
 dall'applicabilita' dell'intera riforma, in quanto compatibile, da un
 lato, con il mantenimento della precedente composizione del Tribunale
 per  le  cause  gia'  rimesse  al collegio, e dall'altro lato, con la
 riserva di collegialita' mantenuta dal nuovo rito.
   Il rimettente si diffonde quindi sulle  origini  storiche  e  sugli
 aspetti di diritto comparato relativi all'udienza preliminare ex art.
 180 (novellato) cod. proc. civ., allo scopo di evidenziare l'utilita'
 dell'istituto  ed i benefici che conseguirebbero dalla sua estensione
 anche ai giudizi in corso.  Per  quello  a  quo,  gia'  pervenuto  in
 istruttoria, il tribunale non esclude tuttavia la rilevanza del tema,
 sostenendo  che l'applicabilita' della nuova disciplina comporterebbe
 una sorta di "reimpostazione" dell'intera controversia.
   In ordine alla denuncia dell'art. 10, il rimettente,  che  richiama
 esplicitamente l'ordinanza del tribunale di Brescia, svolge argomenti
 analoghi  a  sostegno dell'illegittimita' costituzionale del criterio
 dal legislatore prescelto per la distribuzione dei processi vecchi  e
 nuovi, ulteriormente sottolineando l'irrazionalita' della proporzione
 di   meta'   dei  magistrati,  anche  alla  luce  dell'aumento  della
 competenza  pretorile  per  valore;  in  proposito  egli   suggerisce
 l'estensione immediata del sistema che la norma stessa indica per gli
 anni  successivi  al primo biennio, ovvero un criterio che avvantaggi
 con un "congruo numero di magistrati" la trattazione delle  cause  in
 corso.
                         Considerato in diritto
   1.   -      Il   tribunale  di  Milano  dubita  della  legittimita'
 costituzionale dell'art.  9  del  d.-l.  18  ottobre  1995,  n.  432,
 convertito  in  legge  20 dicembre 1995, n. 534, nella parte in cui -
 sostituendo l'art.  90 della legge 26 novembre  1990,  n.  353,  gia'
 piu' volte modificato da altre norme - ha escluso l'applicabilita' ai
 giudizi  in  corso  della  nuova disciplina del processo civile ed in
 particolare degli artt.  178,  180,  183  e  190-bis  del  codice  di
 procedura civile.
   L'impossibilita'  di  trattare  la  causa  attraverso il meccanismo
 dell'udienza di prima comparizione cui fa seguito l'udienza  ex  art.
 183  cit., nonche' il permanere dell'istituto del reclamo istruttorio
 e della struttura collegiale dell'organo decidente concreterebbero, a
 parere del rimettente, altrettante  violazioni  del  principio  della
 parita'  di trattamento tra le parti, restando queste assoggettate ad
 un rito diverso a seconda della data in cui e'  stata  introdotta  la
 lite,  con  conseguente  compressione del diritto di difesa e lesione
 anche dell'art. 101 Cost.
   Secondo il medesimo tribunale, gli artt. 3 e 24 della  Costituzione
 nonche' il principio di buon andamento della pubblica amministrazione
 sarebbero poi vulnerati dall'art. 10 del citato decreto-legge, che ha
 sostituito  l'art. 91 della legge n. 353 del 1990, nella parte in cui
 esso stabilisce che, fino al 31 dicembre 1996, alla  trattazione  dei
 giudizi  pendenti  in  data  30  aprile 1995, sono destinati non piu'
 della meta' dei magistrati incaricati della trattazione dei giudizi e
 degli affari civili.  Anche  in  tale  ipotesi  alle  cause  pendenti
 sarebbe  riservato  un  trattamento deteriore, tale da ostacolarne lo
 smaltimento.
   Analoga   censura,   con   riferimento   agli   stessi   parametri,
 relativamente all'art. 10 del solo decreto-legge, e' infine sollevata
 dal  Tribunale  di  Brescia,  che  evoca  altresi'  l'art.  25  della
 Costituzione per lesione del  principio  del  giudice  naturale,  dal
 rimettente  ritenuta  insita  nel  provvedimento  con cui un processo
 civile viene sottratto ad un giudice istruttore ed  assegnato  ad  un
 altro in esecuzione della denunciata norma.
   2.  -  I  giudizi,  attesa  la  parziale identita' del tema, devono
 essere riuniti e trattati insieme.
   3. - Le questioni non sono fondate.
   3.1.1. - L'originario testo dell'art. 90, comma 8, della  legge  26
 novembre 1990, n. 353, disponeva l'applicabilita' ai giudizi pendenti
 delle  disposizioni  dettate dalla legge medesima. Tale opzione aveva
 comportato una serie di conseguenziali  scelte,  in  particolare  con
 riguardo  alla prosecuzione dei giudizi stessi ed al loro adeguamento
 al sistema delle decadenze.
   Con ulteriori interventi modificativi venivano eliminati l'onere di
 comparizione delle parti per evitare la cancellazione della causa dal
 ruolo  (onere  sostituito  dalla  semplice  istanza)  ed  il  termine
 perentorio  originariamente  previsto  per  gli adempimenti necessari
 alla conversione del rito. Ma neppure  tali  innovazioni  valevano  a
 sottrarre  i  profili di diritto transitorio alle travagliate vicende
 legislative  che  hanno  caratterizzato  la  lunga  gestazione  della
 riforma  del  processo civile. Con l'art. 1 del d.-l. 21 aprile 1995,
 n. 121 (poi decaduto per mancata conversione nei termini),  e'  stato
 infatti   adottato   l'opposto   criterio,   che   vuole   pressoche'
 integralmente soggetti al previgente regime i giudizi  pendenti  alla
 data del 30 aprile 1995.
   3.1.2.  - Il netto mutamento di indirizzo - nuovamente disposto con
 la norma ora denunciata - si inserisce  appunto  nel  contesto  delle
 molteplici  modifiche  subite dall'originario impianto della riforma,
 pressata via via da sempre nuove esigenze di adattamento alla realta'
 strutturale   degli   uffici,   anche   in   ragione  del  necessario
 coordinamento con la sopravvenuta istituzione del  giudice  di  pace.
 Come reso esplicito dai lavori preparatori della legge di conversione
 n.  534  del  1995,  esso  appare ispirato - nello sforzo altresi' di
 venire incontro alle  istanze  provenienti  soprattutto  dal  Foro  -
 dall'intento  di  agevolare  il  piu'  possibile la fase di avvio del
 nuovo processo. L'applicabilita'  di  quest'ultimo  ai  soli  giudizi
 introdotti dopo il 30 aprile 1995 si pone dunque in coerenza con tale
 scelta  di  fondo,  e oltretutto comporta soluzioni processuali assai
 piu' lineari di quelle individuate in precedenza.
   Si  deve  pertanto  ritenere  non  travalicato  il   limite   della
 ragionevolezza,   che   il   legislatore  incontra  nel  regolare  la
 successione delle leggi processuali nel tempo.  In  proposito  e'  da
 ribadire  che  il  regime  transitorio  e'  volto  ad  assicurare  il
 passaggio da una disciplina ad un'altra  secondo  tempi  e  scale  di
 priorita'  che  rientrano  nel  senso politico della discrezionalita'
 legislativa, si' che ben puo' essere mantenuta in vita solo una parte
 ovvero la totalita' delle norme abrogate in riferimento a  situazioni
 pendenti, e variamente stabilita la sorte dei processi in corso (cfr.
 sentenze  n.  101  del  1993,  n. 136 del 1991 e ordinanza n. 419 del
 1990).
   3.1.3. - D'altronde, la struttura collegiale dell'organo  decidente
 e  il  reclamo  delle  ordinanze  istruttorie che ad esso si correla,
 appartengono ontologicamente alla disciplina previgente. Per  cui  la
 manipolazione che il giudice a quo richiede a questa Corte, nel senso
 della  soppressione del citato mezzo di impugnazione come conseguenza
 della monocraticita' del giudice (della quale  pure  si  richiede  la
 estensione  ai  processi  in  corso)  verrebbe ad operare altrettanti
 "innesti" della nuova disciplina  sul  vecchio  sistema,  che  si  e'
 invece  voluto  mantenere  pressoche'  unitario,  nel non irrazionale
 esercizio della detta discrezionalita'.
   A maggior ragione  cio'  puo'  ripetersi  in  ordine  alla  mancata
 previsione,  per i giudizi pendenti, delle due nuove udienze ex artt.
 180 e  183  cod.  proc.  civ.,  la  cui  distinzione  e'  infatti  da
 considerarsi   funzionale   alla  nuova  disciplina  delle  eccezioni
 processuali e di merito proponibili dal convenuto (cfr.  sentenza  n.
 84  del  1996),  in  armonia  con il modello procedurale adottato dal
 legislatore nel disegnare la riforma; modello che  appare  del  tutto
 estraneo, anzi in gran parte antitetico, al rito precedente.
   3.2.  - Anche la seconda censura, proposta dal tribunale di Brescia
 soltanto con riguardo all'art. 10 del decreto-legge n. 432 del  1995,
 ma  ovviamente estensibile alla legge di conversione (che peraltro e'
 stata  direttamente  impugnata  in  parte  qua  dalla  ordinanza  del
 tribunale  di  Milano),  e'  priva  di  consistenza.  La decisione di
 destinare alla trattazione dei giudizi pendenti non piu' della  meta'
 dei  magistrati  addetti  agli  affari  civili  rappresenta, infatti,
 nient'altro   che   il   corollario,   in   termini    organizzativi,
 dell'anzidetta opzione vo'lta a favorire nella fase iniziale il nuovo
 processo.
   Il  previsto criterio di riparto delle controversie, in presenza di
 strutture giudiziarie notoriamente inadeguate sia al vecchio  che  al
 nuovo  sistema,  costituisce  l'esito d'un evidente bilanciamento tra
 detta esigenza e quella, posta sullo stesso  piano,  di  smaltire  in
 tempi  ragionevoli  l'enorme  carico  di processi arretrati; cosi' da
 impedire che questi ultimi venissero a condizionare  la  riforma  del
 rito  civile al punto da sacrificarne sin dall'inizio il fondamentale
 principio  di  immediatezza.  E  non  e'  da  trascurare  che   nella
 ponderazione del legislatore e' stato tenuto presente anche il potere
 di  nominare e utilizzare piu' vicepretori onorari, che, proprio "per
 sopperire alle finalita' dell'esaurimento delle  controversie  civili
 pendenti", lo stesso novellato art. 90, nel quinto comma, attribuisce
 al  presidente del tribunale pur in assenza delle condizioni previste
 dal r.d. 30 gennaio 1941, n. 12.
   Da sottolineare e' inoltre che  il  vincolo  in  esame  -  peraltro
 concernente  solo  gli  uffici giudiziari la cui consistenza organica
 permetta la prevista divisione proporzionale delle assegnazioni -  e'
 limitato  nel tempo, venendo a cessare il 31 dicembre 1996 per essere
 sostituito dal piu' elastico  criterio  di  cui  alla  seconda  parte
 dell'art. 91, comma 1. Sicche' si e' di fronte a un a'mbito temporale
 di  vigenza assai modesto, chiaramente indispensabile per raccogliere
 i dati  necessari  ai  Consigli  giudiziari  onde  poter  rendere  il
 previsto  parere  al  Consiglio  superiore  della  magistratura,  cui
 spettera' nel futuro di stabilire la nuova  proporzione  per  ciascun
 distretto  di  Corte  d'appello.  E codesto carattere provvisorio non
 puo' non concorrere con le ragioni sopra esposte, a far escludere che
 la denunciata disciplina transitoria per i giudizi in corso  concreti
 violazione degli evocati parametri.
   Per   quanto   poi   riguarda   in   particolare  l'art.  25  della
 Costituzione, e' appena il caso  di  rilevare  come  il  criterio  di
 ripartizione dei processi viene dall'impugnata norma enunciato in via
 generale e predeterminata, non gia' in vista di singole controversie;
 sicche'  non  configurabile  si  palesa la prospettata violazione del
 principio del giudice naturale.