IL PRETORE
   Letti gli atti, sciogliendo la riserva che precede, osserva:
   I.  -  La  presente  controversia e' stata introdotta con citazione
 notificata il 5 ottobre 1995. All'udienza di prima  comparizione  del
 13  dicembre  1995 il giudicante, rilevato che la parte convenuta non
 si era costituita, ne dichiaro' la  contumacia  ed  applicato  l'art.
 180,  comma  secondo  c.p.c.,  fisso',  sulla comparizione della sola
 attrice, l'udienza ex art. 183, concedendo al  convenuto  il  termine
 per  la  deduzione  delle  eccezioni  di  merito  e  di rito in senso
 stretto.
   All'udienza ex art. 183 c.p.c.  del  12  gennaio  1995  nessuno  e'
 comparso  ed il decidente si e' riservato, occorrendo stabilire se al
 processo  fosse  applicabile  la  norma  dell'art.  309  c.p.c.   con
 riferimento  alla  norma  dell'art.  181 primo comma c.p.c. nel testo
 recentissimamente e del tutto  inopinatamente  novellato  (o  meglio,
 come   si   vedra',   rinovellato)   dall'art.  4,  comma  1-bis  del
 decreto-legge 18 ottobre 1995, n.   432, come  modificato  (o  meglio
 aggiunto)  dall'allegato approvato dall'art. 1 (ed unico) della legge
 di conversione di detto decreto, cioe' la legge  20 dicembre 1995, n.
 534.
   Tale nuovo testo dell'art. 181 secondo comma  c.p.c.,  che  non  ha
 fatto  altro  che  ripristinare  il  vecchio  testo  modificato dalla
 sfortunata legge 26 novembre 1990 n. 353/1990, e' entrato in vigore a
 far tempo dal 21  dicembre  1995,  giusta  la  disposizione  generale
 dell'art. 15 comma quinto della legge 23 agosto 1988 n. 400.
   Non  sembra  dubbio  che,  alla stregua del c.d. principio   tempus
 regit  actum,  la  nuova  norma  (vecchia  quanto  al  contenuto   e'
 applicabile  alla  presente controversia, di modo che, di fronte alla
 mancata comparizione dell'unica  parte  costituita  si  dovrebbe,  in
 forza  del rinvio dell'art.  309 c.p.c. al primo comma dell'art. 181,
 fissare altra udienza, cui appunto rinviare la causa.
   In particolare, il  testo  dell'art.  181  primo  comma  nuovamente
 reintrodotto  dispone  che  "se  nessuna delle parti comparisce nella
 prima udienza, il giudice fissa una udienza  successiva,  di  cui  il
 cancelliere da' comunicazione alle parti costituite. Se nessuna delle
 parti  comparisce  alla  nuova udienza, il giudice, con ordinanza non
 impugnabile, dispone la cancellazione della causa  dal  ruolo".  Tale
 testo,  salva  la  sostituzione del riferimento al giudice istruttore
 del  vecchio  processo  avanti  al  tribunale,  del  riferimento   al
 "giudice"  (imposto  dalla scomparsa nel nuovo od ormai semivecchio?)
 rito processuale civile  della  figura  del  giudice  istruttore,  e'
 quello che nel nostro ordinamento venne introdotto dall'art. 15 della
 legge  14 luglio 1950 n. 581, cioe' dalla famosa (o forse famigerata,
 per chi abbia a cuore un modello processuale civile moderno)  Novella
 del 1950.
   Per effetto del rinvio formale o ricettizio che sia) dell'art.  309
 c.p.c. al primo comma dell'art. 181, la disciplina dell'assenza delle
 parti  costituite  in prima udienza, nel senso della previsione di un
 rinvio dell'udienza, e' ridiventata applicabile  anche  alle  udienze
 successive  all'udienza  di  prima  comparizione.  Per cui, il nostro
 processo civile ha tornato ad ispirarsi ad una regola  in  base  alla
 quale  e' consentito alle parti costituite, se sono d'accordo, ovvero
 all'unica  parte  costituita,  di  dilazionare  lo  svolgimento   del
 procedimento  senza palesare in alcun modo la ragione della dilazione
 e senza che al giudice sia consentito alcun potere di valutazione  in
 ordine alla ragionevolezza della dilazione.
   Ritiene questo pretore che la reintroduzione di tale disciplina non
 sia  conforme  a  Costituzione  per  le  complessive  ragioni  che si
 verranno esponendo.
   II. - Prima di esporle appare opportuna una  precisazione,  che  e'
 imposta  dalla  possibile  singolarita'  che potrebbe cogliersi nella
 prospettazione di una questione di costituzionalita'  a  soltanto  un
 mese  dall'approvazione  di  una  legge da parte del Parlamento della
 Repubblica.  La  precisazione  appare  opportuna,  in  ragione  della
 circostanza  che  la  legge  che  si  sospetta  di  costituzionalita'
 concerne  una  materia  "tecnica",  che  di  per  se'  non  coinvolge
 immediatamente  diritti  fondamentali  del  cittadino,  onde potrebbe
 sembrare che l'ipotizzata violazione della Costituzione  meriti,  per
 essere rilevata ch'abbia luogo un minimo rodaggio della legge, si che
 possa apparire sconsigliabile il rilievo immediato della questione di
 costituzionalita'.
   Senonche',  ad  escludere indugi nel formulare detto rilievo induce
 il modo in cui il  Parlamento  della  Repubblica  e'  pervenuto  alla
 reintroduzione  della  vecchia  norma  dell'art. 181: esso, sia detto
 senza  che  suoni  come  offesa  alla  sacrosante   prerogative   del
 Parlamento  stesso,  solleva  perplessita' in ordine alla adeguatezza
 della  preventiva  ponderazione  tecnica  del   ritorno   all'antico,
 implicato  dalla rinovellazione dell'art.  181 primo comma, la quale,
 come si vedra', non  rivela  alcuna  coerenza  e  contraddice  quanto
 ritenuto  poco piu' di un anno addietro dall'Istituzione Parlamentare
 al termine di una lunga gestazione della riforma del processo civile.
 Sotto il primo aspetto, si deve osservare che soltanto poco  piu'  di
 un  anno  fa,  il Parlamento, nel convertire in legge (con la legge 1
 dicembre 1994 n. 673) il  d-l.  n.  7  ottobre  1994  n.  571  (cioe'
 l'ultimo   di   un  serie  di  decreti  legge  decaduti  che  avevano
 procrastinato l'entrata in vigore  della  legge  n.  353/90,  recante
 un'organica   riforma   del   processo   civile  preceduta  da  ampia
 discussione, di ben tre anni, pur essendo stata  essa  approvata  dal
 precedente  Parlamento  con larghissimo consenso), non aveva reputato
 di arrecare alcuna modificazione all'art. 181 primo comma c.p.c. come
 novellato  dall'art.  16  della  legge  n.  353/90,   laddove   aveva
 definitivamente  disposto  (sempre  con  largo  consenso l'entrata in
 vigore della legge n. 353/90 al 30 aprile 1995. Si  badi  che  quella
 norma  era gia' in vigore per una serie di processi, cioe' per quelli
 iniziati dal 1 gennaio 1993. Infatti, la  norma  dell'art.  16  della
 legge  n. 353/90 con cui era stato novellato l'art. 181 primo comma e
 di riflesso l'art. 309 c.p.c. era stata fatta entrare in  vigore  per
 quei  processi  dall'art. 92 primo comma, primo inciso della legge n.
 353/90 come  modificato  dall'art.  2  comma  quinto  della  legge  4
 dicembre   1992   n.      477.  Pertanto,  la  nuova  norma  nel  suo
 "sconvolgente" contenuto di imporre la cancellazione della causa  dal
 ruolo in difetto di comparizione delle parti costituite, nel dicembre
 1994  aveva ormai avuto ben due anni di rodaggio, senza che alcuno le
 avesse attribuito effetti negativi, come emerge del fatto che nessuna
 agitazione del Foro la sua entrata in vigore aveva sollevato.  E'  da
 reputare,  dunque,  che  il Parlamento della Repubblica, nel dicembre
 1994, lasciando immutata l'innovazione  operata  dall'art.  18  della
 legge  n. 353/90, la valuto' positivamente, tanto che la norma non fu
 tra quelle cui vennero apportate ritocchi o modifiche dalla legge  n.
 673/94.
   Vi  e'  di piu': sempre lo stesso Parlamento in carica ebbe modo di
 esprimere  positiva  valutazione  circa  la  bonta'  dell'innovazione
 arrecata  dall'art.  16 legge n. 353/90 all'art. 181 primo comma e di
 riflesso all'art. 309, a seguito:
     a) del sopraggiungere prima del d.-l. 21 aprile 1995 n. 121,  con
 cui  il  governo della Repubblica, approssimandosi la scadenza del 30
 aprile 1995, di cui si e'  detto  sopra,  ritenne  di  rovesciare  la
 scelta che la legge  n. 353/90 e la legge n. 477/92 avevano fatto per
 i   processi   pendenti  prima  del  1  gennaio  1993,  cioe'  quella
 dell'applicabilita' integrale delle norme del nuovo rito, disponendo,
 invece, che a detti processi continuassero a trovare applicazione  le
 norme  del vecchio rito, salvo alcune eccezioni, che vennero indicate
 nell'art. 90 primo e secondo comma della legge  n.  353/90  novellato
 dall'art.  1  del d-l.   n. 121/95). Tra tali eccezioni vi era l'art.
 181 primo comma;
     b) dei successivi decreti-legge n.  238/95  e  347/95,  i  quali.
 oltre  a  riproporre  le  innovazioni al c.d. regime transitorio gia'
 contenute nel d.-l. n. 121/95, modificarono una serie  di  norme  del
 c.p.c.  appena  entrate  in  vigore  al  30  aprile  95, sconvolgendo
 l'assetto della riforma di cui alla legge n. 33/90.
   Invero,  nei lavori parlamentari che si svolsero per la conversione
 di tali decreti non sembra, almeno per l'eco che  se  ne  ebbe  sulle
 cronache,  che  si  fosse  prospettata  la opportunita' di un ritorno
 all'antico art. 181 primo comma.
   Si aggiunga che  il  suddetto  ritorno  all'antico  non  era  certo
 sembrato  una delle "bandiere" dell'agitazione  del Foro che nei mesi
 fra  l'aprile  ed  il  luglio  1995  ebbe  luogo  contro  la   (ormai
 stagionata)  legge  n.    353/90,  finalmente  entrata  in vigore per
 l'intero. E' sufficiene osservare che i dd.ll.  n.  238/95  partoriti
 dal  Governo sotto   la spinta di quella agitazione e proprio tenendo
 conto delle sue proposte, non restaurarono il vecchio art. 181  primo
 comma c.p.c.
   Dunque,  come  sia potuto accadere che quello stesso Parlamento che
 solo nel dicembre 1994 aveva confermato  la  bonta'  dell'innovazione
 dell'art.  181  primo  comma  abbia  reputato  di  capovolgere quella
 scelta, resta inspiegabile e, pertanto, l'assenza  di  percezione  di
 una   immediata  coerenza  del  capovolgimento,  esclude  che  questo
 Pretore, in tempi in cui e' fisiologica l'instabilita'  delle  scelte
 legislative,  possa  avvertire  alcuna remora nell'investire la Corte
 Costituzionale del controllo di  legittimita'  costituzionale,  senza
 attendere un "minimo rodaggio" della scelta del legislatore.
   III.  -  Puo'  passarsi a questo punto all'esposizione delle ragoni
 per cui si reputa che la restaurazione della vecchia norma  dell'art.
 181  primo  comma  e,  di riflesso, della vecchia norma dell'art. 309
 c.p.c.,  comporti  una  non  manifestamente  infondata  questione  di
 costituzionalita',  che  si solleva d'ufficio contro l'art. 181 primo
 comma c.p.c., come modificato dall'art. 1-bis  del  d.-l.  n.  432/95
 convertito  in  legge dalla legge 534/95, in quanto oggetto di rinvio
 da parte dell'art.   309 c.p.c. Va avvertito  che  le  considerazioni
 sulla  non  manifesta  infondatezza  della  sollevanda  questione  di
 costituzionalita' verranno svolte dal giudicante con riguardo diretto
 all'art. 309, ma di riflesso non potranno che involgee anche  rilievi
 sull'art.  181  primo  comma  c.p.c.  in  riferimento  al suo oggetto
 diretto di disciplina, cioe'  la  mancata  comparizione  delle  parti
 all'udienza di prima comparizione di cui all'art. 180 c.p.c.
   Tali  considerazioni  si  reputano opportune in vista dell'auspicio
 che la Corte, ove ritenga fondata la questione  di  costituzionalita'
 dell'art.  309,  nell'esercizio  dei  suoi  poteri ex art. 27 legge 9
 febbraio 1948, reputi  costituzionalmente  illegittimo  anche  l'art.
 181 primo comma c.p.c.
   Le  norme  costituzionali  che il giudicante sospetta siano violate
 dalla restaurazione della  vecchia  norma  dell'art.  309  c.p.c.  e,
 quindi,   della   previsione  che,  in  difetto  di  comparizione  ad
 un'udienza successiva alla prima del processo civile, di entrambe  le
 parti  costituite o della sola parte costituita, impone al giudice di
 rinviare la causa ad altra udienza, sono le seguenti: aa)  l'art.  97
 primo comma;
  bb) l'art. 24 primo comma; cc) l'art. 3 secondo comma.
   IV.  -  Quanto  alla  violazione  dell'art.  97  primo  comma della
 Costituzione, osserva il giudicante che esso  risulta  violato  nella
 parte in cui prevede che i pubblici uffici debbano essere organizzati
 secondo  disposizioni  di legge, le quali debbono assicurarne il buon
 andamento.
   E'  appena  il  caso si avvertire che la giurisprudenza della Corte
 costituzionale ha ormai piu' volte affermato che la  norme  dell'art.
 97  nella  parte  ora richiamata si applica anche all'amministrazione
 della giustizia: basti qui richiamare gli insegnamenti in  tal  senso
 somministrati  dalla  Corte nelle sentenze n. 86 del 1982, n. 270 del
 1988, n. 18 del 1989, n. 140 del 1992. Nella sentenza n. 86 del 1982,
 la Corte, inaugurando questa interpretazione ebbe  ad  affermare  che
 "sarebbe  paradossale  voler  esentare  l'organizzazione degli uffici
 giudiziari da ogni esigenza di buon andamento".
   Ora, potrebbe sembrare che l'invocazione della violazione dell'art.
 97 primo comma a proposito di una norma del processo civile afferente
 al suo svolgimento, quale quella dell'art. 309, sia  fuor  di  luogo,
 poiche'  essa  non  e'  una  norme di contenuto direttamene afferente
 all'organizzazione degli uffici giudiziari, cioe' non  e'  una  norma
 organizzatoria.  Ma  questo  sarebbe  il  frutto di un un'impressione
 soltano seperficiale, che trascuri di considerare  come,  essendo  il
 processo  civile gestito dai soggetti dell'organizzazione giudiziaria
 (oltre che dai difensori,  salvi  i  casi  di  difesa  personale)  ed
 essendo,  quindi,  l'espressione  diretta  od  indiretta  della  loro
 attivita', non possa dubitarsi che un determinato modello processuale
 possa  interagire  sul  modo  di  esplicazione  di  detta  attivita',
 laddove,  richiedendo l'esplicazione di determinate incombenze a quei
 soggetti e richiedendole in un certo modo e per certi fini, determini
 a livello generale  un  "risultato"  dell'attivita'  stessa  tale  da
 apparire non conforme al principio del buon andamento. In definitiva,
 sembra  che  il  modello processuale scelto non resta indifferente al
 buon andamento degli uffici giudiziari, volta  che  si  rifletta  che
 esso  e'  rappresentato anche dalla possibilita' che quel modello, in
 quanto utilizzato e gestito  dai  pubblici  uffici  giudiziari  possa
 servire   in  modo  ottimale  allo  scopo  di  assicurare  la  tutela
 giurisdizionale civile.
   Sotto tale profilo, sembra al decidente indubbio che una norma come
 l'art. 309 sia idonea a ledere il principio  di  buon  andamento  con
 riguardo  all'attivita' di tre del soggetti dell'organizzazione degli
 uffici  giudiziari  deputata  all'amministrazione   della   giustizia
 civile. Tali soggetti sono in primo luogo il giudice in secondo luogo
 due suoi ausiliari, cioe' il cancelliere e l'ufficiale giudiziario.
   V.  -  Relativamente  all'attivita'  del  giudice  civile  si  deve
 osservare che una norma quale quella che gli impone  di procedere, in
 caso di mancata competizione delle  parti  costituite  ad  un'udienza
 successiva  alla  prima,  ad un rinvio del processo ad altra udienza,
 comporta che il giudice abbia programmato,  nell'organizzare  il  suo
 lavoro,   un'udienza  "a  vuoto"  per  quella  controversia,  con  la
 conseguenza che lo spazio temporale che ad essa aveva destinato  vada
 perduto  e  se  ne  debba  occupare  un  altro  con la fissazione per
 l'incombente gia' programmato, se  ancora  possibile  (cosa  che  per
 l'assunzione  della prove, ai sensi dell'art. 208 c.p.c. non sarebbe,
 o comunque  per  una  nuova  competizione  delle  parti  in  funzione
 dell'ulteriore impulso ancora possibile per il processo.
   Nella  presente controversia era stata fissata udienza ex art.  183
 c.p.c., cioe' un'udienza ad ora fissa, per lo    svolgimento  di  una
 serie  di attivita' tali da impegnare il lavoro del giudicante per un
 certo periodo di tempo, che, invece, non si e' utilizzato ed  avrebbe
 potuto  esserlo  altrimenti  per  altra  attivita'  di  servizio  del
 giudicante, quale la trattazione di altra causa.  Inoltre  e'  andato
 perduto  il lavoro di preparazione dell'udienza svolto dal giudicante
 per procedere alle attivita' previste dall'art.  183,  fra  le  quali
 rientra l'interrogatorio libero delle parti, l'indicazione alle parti
 delle  questioni  rilevabili  d'ufficio di cui si reputa opportuna la
 trattazione,  il  rilievo  della  gran  parte  delle   questioni   di
 incompetenza.
   Ma  conseguenze  simili,  cioe'  di  inutile  dispendio di tempo di
 lavoro del giudice si possono avere in caso di  mancata  comparizione
 ad  udienze  successive alla udienza ex art. 183 c.p.c. Si pensi alla
 mancata competizione ad un'udienza  ex  art.  184  c.p.c.  ovvero  ad
 un'udienza  di  assunzione della prova. Anche in tali casi il giudice
 (che fa bene il suo lavoro studia e prepara la trattazione,  per  poi
 trovarsi  all'udienza  a  non  far  nulla  ed a dover rifissare altra
 udienza, avendo, dunque, sprecato una parte del suo "tempo di lavoro"
 inutilmente.
   Potrebbe, a questo punto pansarsi che la sostituzione  della  norma
 dell'art.  309  vecchio  testo rediviva   con quella che prevedeva la
 cancellazione della causa dal ruolo immediatamente  (introdotta  gia'
 dall'art.  16  legge  n. 353/1990) non eliminerebbe gli inconvenienti
 segnalati  cioe'  l'esplicazione  di  lavoro  inutile  da  parte  del
 giudice.
   Senonche', si deve osservare che questa conclusione e' per un verso
 in  se'  inesatta,  per  altro  verso  non  tiene conto degli effetti
 negativi sull'organizzazione del lavoro giudiziario cioe' del giudice
 che si verificano a seguito della rifissazione  dell'udienza  imposta
 dal  denunciando  testo  dell'art.  309  e  che,  invece,  a  seguito
 dell'immediata cancellazione dal ruolo della causa in base  al  testo
 introdotto dall'art.  16 citato non potevano verificarsi.
   Quanto  al primo aspetto, basti rilevare che un sistema che prevede
 l'immediata cancellazione  della  causa  dal  ruolo  e  l'uscita  del
 processo dal circuito giudiziario delle pendenze civili, comporta che
 le  parti  non abbiano alcun interesse ad attenersi dal comparire per
 mere esigenze dilatorie e soprattutto  che  la  mancata  comparizione
 risponda   ad  un'esigenza,  effettiva  quale  la  definizione  della
 controvesia in via sragiudiziale e non si fondi su  un  mero  accordo
 dei  difensori  che  non  hanno  tempo  per  trattare  la causa o non
 l'abbiano ben studiata: ne  consegue  un'obbiettiva  riduzione  delle
 mancate  comparizioni e, quindi, del segnalato lavorare "a vuoto" del
 giudice.  In  definitiva,  le  occasioni  di   mancata   comparizione
 sarebbero grandemente ridotte.
   Al  contrario,  un  sistema  che  consenta alle parti ed anche, sia
 detto fuor metafora e nella contemplazione  di  quanto  accadeva  nel
 vecchio  rito  processuale  ed aveva fatto vituperare il vecchio art.
 309  c.p.c.,  ai  loro  difensori,  nell'ignoranza  delle  parti,  di
 disporre  senza alcuna conseguenza salvo il caso dell'art. 208 c.p.c.
 dei tempi del processo e moltiplica le occasioni di  lavoro  a  vuoto
 del giudice.
   Quanto  al  secondo  aspetto indicato poco sopra, si deve osservare
 che la rifissazione  dell'udienza  comporta  che  nella  propria  c.d
 "agenda"  il  giudice  debba impegnare per l'attivita' programmata in
 relazione al suo carico di lavoro un'altra successiva udienza, con la
 conseguenza che questa successiva udienza non potra' essere destinata
 alla trattazione di un'altra  causa,  come  sarebbe,  invece,  potuto
 accadere  ove  l'incombente  fissato  fosse stato espletato a seguito
 della  comparizione  ovvero  fosse  divenuto da no piu' espletare per
 effetto di un'immediata cancellazione dal ruolo. Se  si  pensa,  poi,
 che  il  nuovo (o meglio il vecchio redivivo) art. 309 potra' trovare
 applicazione anche all'udienza in cui le parti debbono  precisare  le
 conclusioni  e  se  si  considera  che tale udienza, nelle ipotesi di
 processo avanti al tribunale art. 189 e 190-bis c.p.c.) e di processo
 avanti al Pretore in cui  si  disponga  la  decisione  a  seguito  di
 trattazione  scritta  (art. 314 c.p.c.) rappresenta il momento da cui
 decorreranno i termini per il deposito delle conclusionali e, poi,  i
 termini per il deposito della sentenza, appare di tutta evidenza che,
 in ragione della necessaria programmazone dell'udienza
  de  qua in funzione del numero di sentenze che secondo il suo carico
 di lavoro il giudice potra' prevedere di pronunciare,  un  rinvio  ex
 art.  309  c.p.c.  di  detta  udienza  puo' arrecare notevoli effetti
 negativi all'organizzazione del  lavoro  del  giudice.  Questi  aveva
 programmato  l'udienza di precisazione delle conclusioni, ipotizzando
 di dover far fronte all'onere di depositare la motivazione, una volta
 concessi i termini per le conclusionali, entro un  certo  periodo  di
 tempo.  La mancata comparizione delle parti ed il rinvio dell'udienza
 sconvolgono  tale previsione organizzativa del lavoro giudiziale, con
 effetti sul lavoro del giudice non solo relativo ad altre  cause  che
 avrebbero potuto trattarsi al posto di quella rinviata, evidentemente
 sempre  per  precisazione delle conclusioni, ma anche per gli effetti
 riflessi sul ruolo del giudice per le udienze successive.
   Non sembra, dunque, revocabile  in  dubbio  che  la  norma  che  si
 censura  offende  il  principo del buon andamento dell'organizzazione
 del lavoro del giudice, quale species del genus buon andamento  degli
 uffici giudiziari.
   E,  si  badi, considerazioni non dissimili da quelle svolte valgono
 per la prima udienza di comparizione, si  da  involgere  il  medesimo
 dubbio  di  costituzionalita' fin qui prospettato: basti pensare che,
 pur essendo la prima  udienza  di  comparizione  fissata  dall'attore
 salvo  l'esercizio  del  potere  del  giudice  di  differirla ex art.
 188-bis ult. comma, c.p.c. e, quindi, non essendo programmata secondo
 il suo carico di lavoro dal giudice, un suo  rinvio  ex  primo  comma
 dell'art.  181  (invece,  della  cancellazione  immediata  dal ruolo,
 prevista dal testo di questa norma novellato dall'art.   16 legge  n.
 353/90)  comporta  che  il  giudice,  oltre  alla  perdita  di  tempo
 lavorativo verificatasi all'udienza, debba programmare  le  attivita'
 previste dall'art. 180 per altra udienza, a scapito della trattazione
 di  altre  cause. Che cio' collida con il buon andamento degli uffici
 giudiziari sembra piu' che manifesto.
   VI. -  Ma  tale  buon  andamento  e'  offeso  anche  nella  species
 rappresentata   dall'organizazione   dell'attivita'   del  lavoro  di
 quell'ausiliario  essenziale  del  lavoro  del  giudice  che  e'   il
 cancelliere, con il suo apparato di personale burocratico dipendente.
 Focalizzando  l'attenzione  sul  presente processo, si deve osservare
 che l'applicazione della norma dell'art. 309 rediviva comporterebbe:
     aA) che il  cancelliere  dell'ufficio  di  questo  pretore  (che,
 naturalmente,  lavora  con un organico assolutamente inadeguato abbia
 lavorato "a vuoto", laddove ha predisposto il ruolo dell'udienza  del
 12  gennaio  1995  anche per l'udienza concernente la presente causa,
 nel senso che la sue attivita' appare funzionale al  "nulla"  di  una
 mancata  comparizione,  non  sanzionata dalla cancellazione e, quindi
 dall'eliminazione  della  pendenza della causa e, quindi, della fetta
 di lavoro ricollegata alla sua pendenza;
     bA)  che  il  cancelliere  debba   lavorare   per   redigere   la
 comunicazione  dell'ordinanza  di  rifissazione  dell'udienza e debba
 curare l'attivita' connessa alla richiesta all'ufficiale  giudiziario
 di notificare la comunicazione;
     cA)  che  il  cancelliere  debba,  poi, curare, prima della nuova
 udienza fissata ex art. 309, nuovamente le  attivita'  connesse  alla
 preparazione  del  ruolo  della  nuova  udienza,  nonche'  curare  di
 inserire  la   relata   della   notificazione   della   comunicazione
 dell'ordinanza nel fascicolo;
     dA)  che  tutto  questo  implichi,  inoltre,  tutta  una serie di
 operazioni materiali da parte degli ausiliari  del  cancelliere,  non
 ultime  le  attivita'  di  ripescaggio  del  fascicolo  nei  consueti
 "faldoni" in cui viene custodito, con conseguente spreco di attivita'
 che ad altro potrebbe essere destinata.
   E' perfino superfuo rimarcare come simili incombenze sottraggano il
 cancelliere ed i suoi ausiliari allo svolgimento di altre attivita' o
 ne determinino il rallentamento,  ancora  una  volta  a  causa  della
 decisione delle parti che pur avendo deciso di adire la giurisdizione
 poi  vogliano  che essa si svolga con comodo. Come tutto cio' non sia
 per  niente  funzionale  ad  un  buon  andamento  dell'organizzazione
 giudiziaria  in  persona  dell'organo  cancelliere  non sembra meriti
 ulteriori dimostrazione.
   E' chiaro, inoltre, che quanto appena considerato vale allo  stesso
 modo  per le attivita' del cancelliere connesse alla prima udienza di
 comparizione, si da giustificare identico dubbio di costituzionalita'
 per la norma dell'art.  181  primo  comma  con  riguardo  all'oggetto
 diretto  della  sua  disciplina,  cioe'  le conseguenze della mancata
 comparizione in prima udienza.
   VII. - Anche quanto al lavoro dell'ausiliario ufficiale  giudiziaro
 e' evidente la lesione del principio del buon andamento, laddove alle
 numerose  incombenze  dello  stesso, si viene ad aggiungere quella di
 notificare  la   comunicazione   di   cancelleria   della   pronuncia
 dell'ordinanza ex art. 309 c.p.c. Appare chiaro che il tempo all'uopo
 occorrente  potrebbe  essere  destinato  dall'ufficiale  ad altre sue
 attivita', che ne vengono rallentate.
   Valutazioni identiche  anche  i  tal  caso  possono  farsi  per  le
 attivita'  correlate  all'applicazione  dell'art.  181 primo comma in
 prima udienza.
   VIII. - In ordine alla non  conformita'  della  norma  all'art.  24
 primo  comma  della  Costituzione  si  osserva  che, una volta che la
 garanzia del diritto di agire in giudizio  per  ottenere  tutela  dei
 propri  diritti si interpreti nel senso che la legge processuale deve
 non solo garantire la possibilita' di agire, ma anche predisporre  un
 modello processuale che garantisca una tutela effettiva e, quindi, in
 tempi   ragionevoli,  risulta  di  tutta  evidenza  che  l'obbiettivo
 allungamento dei tempi processuali relativi  ad  altre  controversie,
 diverse  da quella in cui trovi applicazione la norma che si censura,
 discendente dalla circostanza che l'udienza in  cui  si  verifica  la
 mancata  comparizione  e  quella  di  rinvio  avrebbero potuto essere
 destinate alla loro trattazione, che, invece, ne  sara'  dilazionata,
 comporta  che  il modello processuale risultante dalla norma rediviva
 sia tale  da  ledere  l'effettivita'  della  tutela  giurisdizionale,
 laddove  provoca  un oggettivo allungamento dei tempi processuali con
 dispendio delle energie dei soggetti dell'organizzazione giudiziaria.
   In tempi in cui sono ricorrenti le condanne dello Stato italiano in
 sede europea  per  l'irragionevole  durata  del  processo  civile  la
 lesione dell'art. 24 non potrebbe apparire piu' marcata.
   In  altri termini, consentire alle parti di un determinato processo
 di dilazionare lo svolgimento processuale con conseguente alterazione
 della  programazione  del  lavoro  dei  soggetti  dell'organizzazione
 giudiziaria   e   ricadute  sui  tempi  della  trattazione  di  altre
 controversie di altri cittadini che accedono al  servizio  giustizia,
 si presenta lesivo del diritto di agire in giudizio, posto che incide
 su un elemento essenziale perche' quella garanzia sia effettiva e non
 formale, cioe' la rapidita' della risposta alla richiesta di tutela.
   Siffate  valutazioni sono poi confermate dall'evidente connotazione
 di incoerenza che la reintroduzione di una norma quale  il  "vecchio"
 art.  309  c.p.c. assume in un processo, qual e' ancora quello nuovo,
 nonostante gli sconvolgimenti arrecati all'assetto  originario  della
 legge  n.  353/90  dalla  legge n. 534/95, imperniato su un regime di
 preclusioni sia all'onere di allegazione che all'onere di  dedurre  i
 mezzi   di   prova  ed  effettuare  produzioni  documentali,  siccome
 emergente  dagli  artt.  183  e  184  nuovo  testo  c.p.c.,   nonche'
 sull'effettivita'  del  costante  esercizio  da parte del giudice dei
 poteri di direzione delle attivita' processuali.
   Consentire alle parti di disporre  dei  tempi  del  processo  senza
 alcuna  sanzione,  salvo  quella  dell'art.  208  c.p.c., non risulta
 affatto in consonanza con il nuovo modello processuale, ma semmai con
 un modello processuale come quello del c.p.c. del 1865, nel quale  le
 parti   tramite  i  loro  avvocati  trattavano  ampiamente  la  causa
 scambiandosi atti e  difese  e  si  rivolgevano  al  giudice  per  lo
 svolgimento  di  attivita'  istruttoria  effettiva  o  dell'attivita'
 decisoria.
   A ben vedere, inoltre, deve rimarcarsi che  la  lesione  potenziale
 dell'art.  24,  primo  comma,  in  punto di effettivita' della tutela
 giurisdizionale civile, discende  (non  sembri  questa  una  gratuita
 affermazione,  posto  che  e' risaputo accadesse nella prassi forense
 dell'art. 309 dopo la sua introduzione da  parte  della  novella  del
 1950:  basta  leggere  la  miriade  di  opere  di processualcivilisti
 illustri che dopo la Novella del 1950 hanno evidenziato  i  danni  da
 essa  arrecati  ed  hanno  fatto da volano per la sfortunata legge n.
 353/90) dal fatto che spesso, con  evidente  malcostume,  la  mancata
 comparizione  e'  frutto  della  scelta  dei difensori, d'accordo fra
 loro, di dilazionare il processo  o  perche'  non  sono  pronti  alla
 trattazione  o  perche'  il  carico  di  lavoro  del  loro  studio lo
 consiglia. E'  evidente  come  tutto  cio'  sarebbe  funzionale  alla
 garanzia  del  diritto d'azione, se essa si esplicasse in un processo
 come  quello  del  c.p.c.  del  1885,  in  cui  il   "contatto"   con
 l'istituzione  giudiziaria  avvenisse  quando  necessario  dopo ampia
 trattazione stragiudiziale della lite, ma non lo  e'  in  un  modello
 processuale  in  cui  l'intervento  dell'istituzione  giudiziaria  e'
 sollecitato dalla semplice citazione in giudizio.
   Ma una lesione della norma dell'art. 24, primo comma,  della  Cost.
 intesa  come  garanzia dell'effettivita' della tutela giurisdizionale
 si coglie, da parte della reintroduzione della  norme  dell'art.  309
 vecchia  maniera  anche  sotto  altro  profilo.  Posto,  infatti, che
 l'aministrazione   giudiziaria   civile   "costa"  e  tale  costo  e'
 supportato da apposito capitolo del bilancio dello Stato e non  certo
 dai  soli  introiti  delle iscrizioni a ruolo e della tassa di bollo,
 appare chiaro che il "costo" del  servizio  giustizia  per  tutte  le
 operazioni  implicate  da  una  disciplina  come  quella  della norma
 denuncianda  (attivita'  compiute  a  vuoto  dagli  organi  di  detta
 amministrazione,  costo  del  lavoro del personale addetto, attivita'
 connesse alla comunicazione e notificazione dell'ordinanza,  per  cui
 gli  ufficiali  giudiziari hanno diritto alla c.d. trasferta o ad una
 remunerazione a carico dell'erario,  attivita'  successive  correlate
 alla   nuova  udienza),  si  risolve  nella  sottrazione  di  risorse
 finanziarie che potrebbero essere destinate ad una migliore  gestione
 del  servizio della giustizia e che non sono certo a carico esclusivo
 delle parti della causa che decidono di non comparire, ma a carico di
 tutti i contribuenti.
   Si deve ancora aggiungere  che,  pur  ponendosi  nell'ottica  delle
 parti  che facciano ricorso alla disciplina dell'art. 309 c.p.c. qui'
 denunciata in base ad una volonta' consapevole e  presumibilmente  al
 bisogno  di  far  decantare la controversia in vista di una possibile
 conciliazione, un simile interesse ben puo' essere  assicurato  dalla
 comparizione  avanti  al  giudice e dalla richiesta, dopo il concreto
 esperimento  del  tentativo  di  conciliazione  nel  quale  le  parti
 palesino la volonta' di raggiungere la conciliazione, di un rinvio in
 funzione  del perfezionamento della conciliazione, sia all'udienza ex
 art.  183 c.p.c., che in un'udienza successiva. Onde, una norma quale
 quella all'esame non  puo'  sembrare  funzionale  alla  garanzia  del
 diritto di difesa delle parti che vi vogliano far ricorso.
   Anche   con   riguardo   all'udienza   di  prima  comparizione,  la
 circostanza che il  termine  di  comparizione  sia  stato  elevato  a
 sessanta  giorni, unita al fatto che alla scadenza del termine per la
 costituzione del convenuto sono ormai  ricollegate  minime  decadenze
 (si  veda  il nuovo art. 167 e lo si legga in unione al comma secondo
 dell'art.  180), si deve sottolineare che  non  potrebbe  ipotizzarsi
 che  una  disciplina  come  quella  dell'art.  181,  primo comma, sia
 funzionale al  diritto  delle  parti  di  gestire  l'invocata  tutela
 giurisdizionale,   determinandone  una  dilazione  per,  ad  esempio,
 condurre trattative. Le parti all'uopo possono sfruttare sia il lungo
 termine di comparizione, sia il fatto che sostanzialmente  le  difese
 sono rinviate all'udienza ex art.  183.
   La  riprova  di  quanto  affermato,  cioe'  che una disciplina come
 quella dell'art. 181, primo comma, sia per la prima udienza  che  per
 quelle  successive,  non  e'  funzionale  al  diritto di difesa delle
 stesse parti che ne vogliano beneficiare (nel senso che esso per tali
 parti e' garantito anche se essa manchi) si ha nel fatto che - non e'
 dato sapere quanto consapevolmente  -  lo  stesso  legislatore  della
 legge  n.  534/95 ha conservato, per i processi pendenti al 30 aprile
 1995, l'applicablita'  della  norma  dell'art.  309  nel  testo  gia'
 novellato dall'art. 16 legge n. 353/90. Basta leggere l'art. 90 legge
 n.  353/90  come  novelato dall'art. 9 del d-l. n. 432/95, convertito
 senza  modificazioni  sul  punto   dalla   legge   n.   534/95,   per
 convincersene.  In particolare, per i processi iniziati dal 1 gennaio
 1993 la norma dell'art. 16 era gia' vigente ex art. 92, primo  comma,
 primo  inciso,  legge  n.  353/90, come modificato dall'art. 2, comma
 quinto,  della legge n. 477/92 e tale ultima disposizione rientra tra
 quelle  integranti  per  detti   processi   la   disciplina   vigente
 anteriormenta  al  30 aprile 1995, cui allude l'art. 90, primo comma.
 Per i processi pendenti al 1  gennaio  1993  l'applicazone  dell'art.
 181,  primo  comma,  nel testo novellato dall'art. 16 legge 353/90 e'
 stata disposta dal secondo comma dell'art. 90 novellato come sopra.
   Ora, se una disciplina come quella  della  cancellazione  immediata
 dal  ruolo  in  difetto  di comparizione e' stata ritenuta adeguata a
 processi come quelli pendenti al 30 aprile  1995,  caratterizzati  da
 una    quasi    totale    assenza    di    preclusioni   (discendente
 dall'applicazione in proposito del vecchio rito) e  dalla  passivita'
 del  giudice  (se  non  altro  consolidata in quasi cinquanta anni di
 prassi applicativa  della  disciplina  processuale  introdotta  dalla
 Novella  del  1950,  a  maggior  ragione  lo  e'  per  il  nuovo rito
 processuale. Semmai tale dato rivela il carattere non ponderato e non
 rispondente  a  ragionevolezza  della  inopinata  restaurazione   del
 "vecchio" art. 309 c.p.c.
   Ancora:  le  parti  che  volessero una dilazione del processo hanno
 comunque un mezzo per ottenerla. Si  tratta  della  c.d.  sospensione
 concordata del processo, disciplinata dall'art. 296 c.p.c. Tale mezzo
 non  comporta  ne' inconvenienti al principio di buon andamento degli
 uffici giudiziari, ne' costi a carico dell'erario.
   IX. - In ordine alla lesione  dell'art.  3,  comma  secondo,  della
 Costituzione,  si  osserva  che  essa  discende  dal  fatto  che  una
 disciplina come quella dell'art. 181, secondo comma,  c.p.c,  laddove
 comporta  che  i  soggetti  dell'istituzione  giudiziaria lavorino "a
 vuoto" con spreco del denaro pubblico (cioe'  dei  contribuenti)  che
 serve  per  il lavoro e le attivita' in questione, nonche' l'addebito
 all'erario del costo  delle  attivita'  connesse  alla  notificazione
 dell'ordinanza   di   rinvio,   ha  l'effetto  di  sottrarre  risorse
 finanziarie che potrebbero essere destinate dallo Stato  repubblicano
 al perseguimento dei fini di cui all'art. 3, secondo comma citato. In
 tempi  in cui si propugna una riduzione della spesa pubblica cio' non
 puo' che apparire un'assurdita'.
   X.  -  Si  impone,   dunque,   alla   stregua   delle   complessive
 considerazioni    svolte,    il    rilievo    della    questione   di
 costituzionalita' dell'art.   309  c.p.c.  nel  testo  risultante  di
 riflesso  per  la  novellazione dell'art.   181, primo comma, c.p.c.,
 operata dall'art. 4 comma 1-bis del d.-l. n. 432/95, convertito nella
 legge n. 534/95. Tale testo, non sembra  conforme  alla  Costituzione
 laddove  prevede  che,  in  caso  di mancata competizione delle parti
 costituite o della sola parte costituita, il giudice debba  rifissare
 altra  udienza,  di  cui  il cancelliere deve dare comunicazione alle
 parti costituite e, quindi, solo  in  tale  nuova  udienza  disporre,
 sempre  in  difetto di competizione, la cancellazione della causa dal
 ruolo, invece di  prevedere  che  la  mancata  comparizione  comporti
 immediatamente  la  cancellazione  della  causa dal ruolo, come aveva
 fatto l'art.  309  c.p.c.  nel  testo  novellato  di  riflesso  dalla
 modifica  del primo comma dell'art. 181 operata dall'art. 16 legge n.
 353/90, in vigore tuttora per i giudizi pendenti al 30 aprile 1995.
   Ove la Corte dovesse reputare fondata di riflesso, cose  sembra  al
 decidente,  anche  la  questione  di costituzionalita' dell'art. 181,
 primo  comma,  c.p.c.,  cioe'  la  disciplina  per  cui  la   mancata
 comparizione  in  prima  udienza  comporta la fissazione di una nuova
 udienza,  tale  comma  potrebbe essere riscritto in maniera analoga a
 come suonava nel testo novellato dall'art. 16 legge  n.  353/90,  con
 mera sopressione delle parole da "fissa una udienza" a "il giudice".
   In  ordine alla rilevanza della questione nel presente giudizio, si
 osserva  che  essa  e'  manifesta,  poiche'  il  giudicante  dovrebbe
 necessariamente  provvedere  ad  applicare  la  norma denunciata come
 incostituzionale e  fissare  una  nuova  udienza,  anziche'  disporre
 l'immediata cancellazione della causa dal ruolo, come dovrebbe essere
 secondo la disciplina che si reputa conforme alla Costituzione.