LA CORTE D'APPELLO
   Riunita in camera di consiglio.
   Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento di ricusazione del
 giudice per l'udienza preliminare  -  ufficio  g.i.p.  -  sez.  IX  -
 tribunale  di  Napoli,  per  incompatibilita'  ai sensi dell'art. 34,
 secondo comma, c.p.p.  a  partecipare  a  detta  udienza,  avendo  in
 precedenza applicato la misura cautelare della custodia in carcere.
                               F a t t o
   Il  procuratore  della  Repubblica  presso  il  tribunale di Napoli
 faceva richiesta di rinvio a giudizio  di  Laboccetta  Amedeo  per  i
 reati previsti dagli artt. 110, 112 n. 1 e 2, 81 cpv. 319 e 321 c.p.
   Laboccetta   Amedeo,   avvisato   della   fissazione   dell'udienza
 preliminare, proponeva dichiarazione di  ricusazione,  tempestiva  ed
 ammissibile,  del  g.u.p.,  per  essere  la stessa persona fisica che
 aveva in precedenza emesso a  suo  carico  un'ordinanza  di  custodia
 cautelare in carcere.
   Eccepiva  l'incompatibilita'  del giudice a partecipare all'udienza
 preliminare, ai sensi dell'art.  34,  secondo  comma,  c.p.p.,  quale
 ipotesi   analoga   a   quella   decisa   con  sentenza  della  Corte
 costituizionale n. 432 del 6-15 settembre  1995,  dichiarativa  della
 incompatibilita'  a  partecipare  al  dibattimento del giudice per le
 indagini  preliminari  che  abbia  applicato  una  misura   cautelare
 personale.
   In  via  subordinata alla invocata estensione dell'incompatibilita'
 al giudice per  l'udienza  preliminare,  denunciava  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non
 prevede che non possa partecipare all'udienza preliminare, il giudice
 per le indagini preliminari che abbia adottato una  misura  cautelare
 personale nei confronti dell'imputato.
                             D i r i t t o
   Il  carattere  tassativo  delle  cause di incompatibilita' previste
 dall'art. 34 c.p.p., rende la norma insuscettibile di interpretazione
 estensiva ed analogica.
   Neppure puo' derivarsi la  prospettata  causa  di  incompatibilita'
 dall'indicata  sentenza  della  Corte  costituzionale n. 432/1995, in
 quanto priva di disposizioni che consentano di estendere ex art.   27
 l.c. 2 marzo 1953, n. 87, la dichiarata illegittimita' costituzionale
 dell'art.  34,  comma  2,  c.p.p.,  a  fattispecie  diverse da quella
 esaminata.
   La sollevata eccezione di illegittimita'  costituzionale  dell'art.
 34,  comma  2,  c.p.p.,  e'  rilevante,  per  i  dedotti  profili  di
 incompatibilita' del giudice per l'udienza preliminare, ai  fini  del
 procedimento  di  ricusazione  in  corso, e non appare manifestamente
 infondata.
   La  questione  trae  spunto  dalla  natura  dei  poteri  valutativi
 attribuibili  al  giudice  per  le indagini preliminari che emetta un
 provvedimento applicativo di misure cautelari personali (coercitive o
 inderdittive), anche a seguito  della  citata  sentenza  della  Corte
 costituzionale  n.  432/1995; dalla espansione dei poteri cognitivi e
 valutativi attribuibili al giudice per l'udienza preliminare e  dalla
 natura del provvedimento conclusivo di tale udienza, alla luce di una
 registrabile  evoluzione  nell'interpretazione giurisprudenziale e in
 conseguenza della legge 8 aprile 1993,  n.  105,  che  ha  modificato
 l'art.  425  c.p.p.;  dal  raffronto  con  situazione  analoghe, gia'
 esaminate dalla Corte costituzionale.
   E' principio affermato con la sentenza della  Corte  costituzionale
 n.  432/1995 che il giudice per le indagini preliminari, nel disporre
 una  misura  cautelare  personale  di  qualsiasi  tipo  (e,   quindi,
 coercitiva  o interdittiva), deve compiere valutazioni comportanti la
 formulazione di un giudizio non di mera legittimita', ma di merito  -
 sia  pure  prognostico  ed allo stato degli atti - sulla colpevolezza
 dell'indagato; una valutazione sul merito della res iudicanda.
   A  tale  conclusione,  la  Corte  costituzionale  e'  pervenuta   -
 rivisitando  il contrario orientamento in precedenza espresso - anche
 per l'intervenuto mutamento del quadro normativo  per  effetto  della
 legge  8  agosto  1995,  n.  332,  che  accentuando  il  carattere di
 eccezionalita' delle misure cautelari personali  (in  particolare  di
 quelle  limitative  della  liberta'  personale), impone al giudice un
 piu' pregnante apprezzamento degli elementi  a  carico  ed  a  favore
 dell'indagato,   emersi   dall'attivita'  di  indagine  del  p.m.,  e
 l'obbligo di dar conto dei motivi per i quali  ritiene  che  assumono
 rilevanza,   pena   la   nullita'   del   provvedimento  applicativo,
 espressamente sancita dal comma 2-ter dell'art. 292 c.p.p.
   E' da aggiungere, a conferma della  compiutezza  dell'attivita'  di
 valutazione   nel  merito  attribuita  al  giudice  per  le  indagini
 preliminari, come essa  implichi  e  attenga  anche  alla  previsione
 quantitativa  della  pena  (valutazione gia' inclusa nel principio di
 proporzionalita' della misura, di cui all'art. 275, comma 2, c.p.p.),
 considerato l'espresso divieto normativamente disposto al comma 2-bis
 dell'art.   275 c.p.p. (introdotto con  la  legge  n.  332/1995),  di
 applicare  la  custodia  cautelare  se si ritiene che con la sentenza
 possa essere concessa la sospensione condizionale della pena.
   Nell'udienza  preliminare,  fase  terminativa  delle  indagini,  il
 giudice  e' tenuto a compiere la verifica processuale dell'iniziativa
 del p.m.,  nel  contraddittorio  fra  le  parti,  mediante  la  piena
 cognizione  di  tutti i risultati dell'attivita' di indagine, al fine
 dell'accertamento della loro idoneita'  a  giustificare  un  pubblico
 processo.
   Accertamento  che,  pur  essendo  di  ordine  processuale  per tale
 finalita' di introduzione del giudizio, non puo' prescindere  da  una
 valutazione di merito di tutti gli elementi probatori.
   Lo  stesso  potere attribuito al giudice per l'udienza preliminare,
 di procedere ad integrazioni probatorie ai sensi e nei limiti di  cui
 all'art. 422 c.p.p., nonche' la riconosciuta possibilita' ex art. 423
 c.p.p.  di  sollecitare  con  un proprio provvedimento il p.m.   alle
 modifiche dell'imputazione anche dopo  la  discussione  delle  parti,
 purche'  nel corso dell'udienza (sentenza Corte costituzionale n.  88
 del 7-15 marzo 1994), confermano da un lato l'effettuazione da  parte
 del  g.u.p.  di  un vaglio critico e di merito delle prove e fonti di
 prova gia'  in  atti,  sfociato  in  un  giudizio  di  inidoneita'  a
 consentire  una  decisione allo stato degli  atti (per incompletezza,
 lacunosita' o non  rispondenza  alla  fattispecie  contestata);  sono
 preordinato,  d'altro  lato,  a potere all'esame del g.u.p. un quadro
 degli elementi probatori, quanto piu' completo possibile "prima della
 pronuncia dei provvedimenti previsti sul  merito  della  regiudicanda
 dall'art.  424 c.p.p." (sentenza della Corte costituzionale citata n.
 88/1994).
   La   legge   8  aprile  1993,  n.  105,  abrogatrice  del  criterio
 dell'evidenza richiesto  dall'art.  425  c.p.p.,  che  consentiva  al
 giudice per l'udienza preliminare  di procedere ad una valutazione di
 merito  dell'imputazione con esclusivo riferimento ad un parametro di
 non evidente infondatezza dell'accusa, limitandone i  poteri  a  mero
 controllo  di  legittimita'  e  correttezza  delle fonti di prova, ha
 ulteriormente rafforzato ed ampliato i poteri valutativi del giudice,
 rendendoli tanto penetranti nel merito dell'accusa, da  poter  essere
 assimilati a quelli attribuiti al giudice del dibattimento, allorche'
 rimanga  immutato  il  quadro  probatorio;  comunque,  la  diversita'
 dell'apprezzamento e' solo di ordine quantitativo, e non qualitativo,
 nel caso di acquisizione di ulteriori prove.
   Conseguenza di tale modifica legislativa e',  quindi,  la  modifica
 della  regola  di  giudizio che sottende alla sentenza di non luogo a
 procedere, non piu'  di  controllo  di  legittimita'  degli  elementi
 probatori, ma di pieno merito.
   La  stessa  Corte  costituzionale, con la sentenza n. 82 del 26/2-2
 marzo 1993 - precedente alla modifica dell'art. 425 c.p.p.  ex  legge
 n.  105/1993 - affermo' il principio che "e' l'interno merito a dover
 essere valutato dal giudice",  pur  sottolineando  la  diversita'  di
 struttura  e funzione dell'udienza preliminare rispetto alla fase del
 dibattimento, in conformita' alla volonta' del legislatore  delegante
 di  limitare  ai  soli  casi  di  "evidenza"  le  ipotesi  in cui era
 consentito al giudice di apprezzare l'infondatezza dell'imputazione.
   Caduta tale limitazione, il proscioglimento  ex  art.  425  c.p.p.,
 comporta  un  giudizio  di merito pieno, che anticipa l'attivita' del
 dibattimento, rendendolo inutile, sicche' ne' il  mantenimento  della
 qualificazione  come  "sentenza  di  non  luogo  a procedere", ne' il
 carattere di non definitivita' di tale sentenza (in quanto soggetta a
 revoca nei  casi  di  cui  all'art.  434  c.p.p),  possono  valere  a
 confinare   la   decisione  del  giudice  nell'area  delle  soluzioni
 processuali dell'udienza preliminare, e non di merito.
   Posto che l'alternativa decisoria offerta al giudice per  l'udienza
 preliminare, investito della richiesta del p.m. di rinvio a giudizio,
 e'  la sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell'imputato;
 affermato che ai fini del  proscioglimento  ex  art.  425  c.p.p,  e'
 l'intero  merito  a  dover  essere valutato dal giudice; rilevato che
 solo la negativita' di tale valutazione puo' dare ingresso al  giusto
 processo,  e' chiara, anzitutto, la unitarieta' dei poteri valutativi
 di merito  che  presiedono  all'opzione  da  parte  del  giudice  per
 l'udienza preliminare per l'una o l'altra soluzione.
   E'   anche   evidente  l'impossibilita'  di  scindere  tali  poteri
 valutativi,  qualificandoli  rispetto  alla  richiesta  di  rinvio  a
 giudizio,   non   di   merito  ma  di  controllo  sulla  legittimita'
 dell'esercizio dell'azione penale, e assegnare, invece,  al  medesimo
 giudice,  nello  stesso  contesto dell'udienza preliminare e rispetto
 allo stesso materiale probatorio, un potere cognitivo pieno  rispetto
 alla sentenza di non luogo a procedere.
   Le   precedenti   considerazioni   consentono   di   affermare  che
 l'attivita' di  valutazione  che  compie  il  giudice  per  l'udienza
 preliminare   investito   della   richiesta   di  rinvio  a  giudizio
 dell'imputato, e' identica a quella che deve compiere  nell'applicare
 una  misura  cautelare  personale,  anche sotto profilo quantitativo,
 allorche' si presenti al g.u.p.  un quadro probatorio immutato.
   V'e' ragione di  ritenere,  quindi,  che  la  precedente  decisione
 assunta  dal  giudice  per  le  indagini preliminari nell'emettere un
 provvedimento cautelare, possa influenzare  quella  del  giudice  per
 l'udienza preliminare, stessa persona fisica.
   Ma, anche nel caso di arricchimento degli elementi probatori, si ha
 motivo di dubitare che il vaglio critico che il giudice per l'udienza
 preliminare  estende  ai  nuovi  indizi,  avvenga  in  condizioni  di
 assoluta  liberta'  da  pregiudizi  derivanti  dalla  gia'   compiuta
 valutazione  di quelli disponibili nel momento in cui ha disposto una
 misura cautelare  e  che,  quindi,  la  decisione  sul  provvedimento
 conclusivo  dell'udienza  preliminare sia assunta in piena serenita',
 obbiettiva ed imparzialita'.
   La concentrazione in capo allo stesso giudice, come persona  fisica
 -  prevista,  peraltro,  dalla  direttiva n. 40 della legge delega 16
 dicembre 1987, n. 81, solo in via di "disponibilita'" - di poteri che
 spaziano dall'adozione di provvedimenti cautelari  fino  all'adozione
 del  provvedimento  conclusivo dell'udienza preliminare, puo' creare,
 per  le esposte ragioni, il prospettato caso di incompatibilita', per
 cui l'art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non   prevede  che
 non  possa  partecipare  all'udienza  preliminari,  il giudice per le
 indagini  preliminari  che  abbia  adottato  una   misura   cautelare
 personale, contrasta con le norme costituzionali di cui agli artt. 3,
 24 e 25.
   La  diversita'  di  trattamento  e'  rilevabile nei confronti di un
 coimputato  della  stesso  reato  nel  medesimo   procedimento,   non
 raggiunto  da  misure  cautelari  personali,  rispetto  al  quale  la
 decisione del giudice per  l'udienza  preliminare  e'  frutto  di  un
 approccio valutativo non pregiudicato.
   E',  altresi',  rilevabile  rispetto  a  situazioni  analoghe, gia'
 esaminate dalla Corte costituzionale.
   Con sentenza n. 401/1991 e' stata dichiarata  l'incompatibilita'  a
 partecipare  al  successivo  giudizio  abbreviato  dal giudice per le
 indagini  preliminari  presso  il   tribunale,   che   abbia   emesso
 l'ordinanza di cui all'art. 409, comma 5, c.p.p.
   Con  sentenza  n. 439 del 2-16 dicembre 1993 e' stata dichiarata la
 illegittimita' dell'art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui  non
 prevede  l'incompatibilita' a partecipare al giudizio abbreviato, del
 giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la  richiesta
 di applicazione di pena concordata ex art. 444 c.p.p.
   Anche  in tali casi, il momento processuale pregiudicante attiene a
 provvedimenti   implicanti   un'attivita'   valutativa   del   merito
 dell'imputazione;  diverso,  rispetto  al  caso  in esame, e' solo il
 termine di confronto.
   Ma, tra l'alternativa  offerta  al  giudice  di  definire  la  fase
 processuale  dell'udienza  preliminare con il rinvio a giudizio o con
 il  proscioglimento  dell'imputato  ex  art.   425   c.p.p.,   e   la
 possibilita'  di  definire  tale fase il giudizio abbreviato, v'e' un
 marcato parallelismo per la comunanza dei presupposti,  di  decisione
 allo  stato  degli  atti  e  di  possibilita'  degli  stessi epiloghi
 assolutori.
   Il discrimine e' ridotto (come osservato anche in  dottrina),  alle
 sole  scelte  di strategia processuale dell'imputato, che puo' optare
 per il  giudizio  abbreviato  per  garantirsi,  in  caso  di  mancata
 assoluzione, la prevista riduzione di pena.
   L'affermata,    in   precedenza,   assimilabilita'   dell'attivita'
 valutativa del giudice  per  l'udienza  preliminare  con  quella  del
 giudice  del  dibattimento,  che  puo'  registrare,  ma  non  sempre,
 differenze di ordine quantitativo, ossia di completamento  probatorio
 e  di  nuove  acquisizioni,  e  la  quasi  omogeneita'  delle formule
 conclusive previste dall'art.  425 c.p.p. con quelle di cui  all'art.
 430  c.p.p,  consentono  di ravvisare un'analogia di situazioni anche
 tra il caso in esame e quello verificato dalla  Corte  costituzionale
 con  la sentenza n. 432/1995, dichiarativa della incompatibilita' del
 giudice per le indagini preliminari che  abbia  disposto  una  misura
 cautelare personale, a partecipare al giudizio dibattimentale.
   E'  da rilevare, anzi, che il giudice per l'udienza preliminare, in
 quanto non coinvolto nella dialettica della collegialita',  e'  ancor
 puu' esposto agli effetti trascinanti di un giudizio sulla fondatezza
 dell'accusa, gia' espresso in precedenza.
   La lesione del diritto di difesa, costituzionalmente protetto (art.
 24)  e'  conseguenza inevitabile della possibile prevenzione che puo'
 inquinare il convincimento del giudice, per la  ridotta  valenza  che
 assumono le argomentazioni difensive di fronte alla naturale tendenza
 a mantenere un giudizio gia' espresso.
   L'identita'  soggettiva  tra il giudice per le indagini preliminari
 che ha disposto l'applicazione di  una  misura  cautelare  personale,
 esprimendosi  in  termini  di  valutazione  di  alta probabilita' del
 fondamento  dell'accusa,  e  il  giudice  per  l'udienza  preliminare
 chiamato a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio, e' idonea a
 determinare  (o  far  apparire)  un  pregiudizio che mina la garanzia
 costituzionale  di  imparzialita'  del  giudice  (art.  25),  la  cui
 esigenza  e' particolarmente avvertita dalla coscienza collettiva, in
 ispecie nell'attuale momento  storico,  connotato  dall'ansia  di  un
 rigoroso garantismo.