IL VICE PRETORE ORDINARIO Ha pronunciato, in data 2 dicembre 1996, la seguente ordinanza nella causa, iscritta al n. 2886/19/91 del r.g.a.c., tra la Ideal Food di Russo Giuseppina e C. s.a.s., rappresentata e difesa dal dott. proc. Giuseppe Sartorio, presso il quale elett.te domicilia in Napoli, alla via Tasso n. 169, giusta procura a margine dell'atto di citazione, attrice, contro il comune di Procida, in persona del suo sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dal dott. proc. Enrico Scotto di Carlo, presso il quale elett.te domicilia in Procida, alla via G. da Procida n. 42, giusta procura a margine della comparsa di costituzione e risposta ed in forza delle delibere di g.m. nn. 348 del 5 dicembre 1991 e 106 del 2 luglio 1996, convenuto. Va premesso in fatto che, con sentenza n. 317/92, passata in giudicato (come da attestazione del cancelliere del 19 ottobre 1992), la p.a. convenuta fu condannata al pagamento, in favore dell'attrice, di una somma per capitale ed interessi sino al 20 maggio 1992, giorno anteriore all'entrata in vigore del decreto-legge n. 289/92, poi non convertito in legge, contenente - sotto l'art. 30 - una prima, ma in parte diversa, versione del vigente art. 81 del decreto legislativo n. 77/95; la lite e' in ragione della domanda attorea di condanna della convenuta al pagamento degli ulteriori interessi e rivalutazione monetaria (dal 21 maggio 1992) al saldo. Dall'esame degli atti, risulta che il comune di Procida, con delibera n. 7 del 10 gennaio 1991, approvo' il piano di risanamento ex art. 25 legge n. 144/89; che il credito vantato dall'attrice non e' stato ammesso alla massa passiva del piano di estinzione (oggi, distinto in "rilevazione" ed "estinzione"); che, anzi, l'ente ha espressamente considerato che non potesse esere inserito nella predetta massa passiva, stante il disposto dell'art. 21 legge n. 68/93 (oggi, 81 decreto legislativo n. 77/95), giusta nota del 12 ottobre 1993, prot. n. 11037, in atti. Nelle more della causa entro' in vigore la legge n. 68 del 1993, di conversione del decreto-legge n. 8/93 che, all'art. 21, cosi' testualmente disponeva: "In deroga ad ogni altra disposizione, dalla data di deliberazione del dissesto i debiti insoluti non producono piu' interessi, rivalutazioni ed altro ...". A tale legge, segui' il d.P.R. n. 378 del 24 agosto 1993 che, all'art. 6, comma V, lett. g), prescriveva: "sono esclusi dalla massa passiva .. interessi moratori o corrispettivi e rivalutazioni monetarie maturate dopo la data di deliberazione del dissesto, interessi moratori o corrispettivi calcolati su altri interessi". Va brevemente osservato che la norma citata (art. 21) fu ritenuta sospetta di incostituzionalita' da piu' giudici remittenti (T.A.R. Puglia 19 maggio 1993 e pretura Napoli, sezione distaccata di Pozzuoli, 9 ottobre 1993), ritenendosi che la stessa "escludesse la capitalizzazione degli interessi e della rivalutazione per il tempo successivo alla deliberazione del dissesto, non diversamente da quanto si ha nelle procedure concorsuali (art. 55 legge fall.)", da cui: a) un primo sospetto, sul piano generale, non potendosi ammettere che una p.a. possa mai trovarsi in istato di insolvenza definitiva ed essere per tale ragione assoggettata ad una procedura concorsuale; b) un secondo, sul piano piu' specifico, per la violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost. (T.A.R. Puglia 19 maggio 1993 in Gazzetta Ufficiale n. 6, serie speciale del 1994). La Corte costituzionale, con la pronunzia n. 242 del 9-16 giugno 1994, considero': a) che la censura, mossa sul piano generale, fosse infondata; sottolineo', al riguardo, che la norma avesse l'attitudine a caratterizzare legittimamente un tertium genus di procedura concorsuale diretta al risanamento dell'ente pubblico che "ancorche' dissestato, non puo' cessare di esistere in quanto espressione di autonomia locale" (valore costituzionalmente tutelato); richiamo' sul punto i principi espressi nella sua precedente sentenza n. 155/94, con la quale aveva definito "mera questione esegetica - rimessa all'interpretazione della giurisprudenza - quella della sorte dell'eventuale parte non soddisfatta dei crediti ammessi"; con la pronunzia n. 242/94, invece, ritenne la legittimita' della norma - ma con espresso riferimento al solo diritto del creditore di richiedere il pagamento degli accessori (interessi e rivalutazione) maturati, per crediti ammessi al riparto - dopo la deliberazione di dissesto; considero' che "essa lascia integra la facolta' per il creditore di azionare tali diritti nei confronti dell'ente pubblico una volta tornato in bonis"; b) che anche la censura piu' specifica fosse parimenti infondata perche' "il blocco di rivalutazione ed interessi in pendenza della procedura concorsuale trova giustificazione nello specifico delle procedure concorsuali (art. 55 legge fall.), in quanto finalizzato alla realizzazione della par condicio ed all'impedimento di un ulteriore deterioramento della condizione patrimoniale del debitore. E trova inoltre fondamento nella considerazione che, nel tempo successivo all'apertura della procedura concorsuale, non e' configurabile un inadempimento ne' a carico del debitore, ne' tanto meno a carico degli organi della procedura, questa ponendosi proprio come strumento sostitutivo dell'adempimento"; ritenne, inoltre, che quanto "alla ritenuta definitivita' della cd. cristallizzazione del credito", sebbene nei confronti di una p.a. dissestata, fosse da "escludersi che sussista tale denunziata violazione del principio di eguaglianza", in quanto "la corretta lettura della norma censurata, compiuta tenendo presente il quadro normativo complessivo risultante anche dalle disposizioni regolamentari dettate dal d.P.R. n. 378 del 1993, conduce a ritenere errata l'opinione ... circa la pretesa definitivita' della lamentata cristallizzazione dei crediti. L'art. 6, comma V, lett. g) del citato regolamento, nel darsi carico di precisare che sono esclusi dalla massa passiva interessi moratori o corrispettivi e rivalutazioni monetarie maturate dopo la data della deliberazione del dissesto, interessi moratori o corrispettivi calcolati su altri interessi, lascia chiaramente intendere che il legislatore postula il maturare sia della rivalutazione che degli interessi anche successivamente all'apertura della procedura, limitandosi ad escludere la opponibilita' alla procedura stessa e l'ammissibilita' alla massa passiva, ma lasciando integra la facolta' per il creditore di azionare tali diritti nei confronti dell'ente pubblico una volta tornato in bonis". Dopo le citate pronunzie della Corte costituzionale, e' entrato in vigore l'art. 81 del decreto legislativo n. 77 del 25 febbraio 1995 che ha riprodotto, in parte qua, il disposto del precedente art. 21 (della legge n. 68/93 gia' citata), abrogato in forza dell'art. 123, lett. g) del decreto legislativo n. 77/95, in uno con "tutte le disposizioni non compatibili con i principi e le norme contenute nel presente decreto legislativo". E' poi entrato in vigore il decreto legislativo n. 336 dell'11 giugno 1996, confermativo delle abrogazioni gia' disposte nei termini riportati, che ha introdotto il IV comma dell'art. 81 citato, che - oggi - cosi' testualmente dispone: "alla data della deliberazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'art. 89 i debiti insoluti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa gia' erogate non producono piu' interessi ne' sono soggetti a rivalutazione monetaria ...". Dopo le sentenze nn. 155 e 242 del 1994 della Corte, chiare nel senso di far ritenere che i crediti, lungi dal "cristallizzarsi", continuavano a produrre interessi e rivalutazioni (anche dopo la delibera di dissesto e con il solo limite della loro inopponibilita' alla procedura concorsuale), il legislatore ha disposto, con il citato art. 81, che tali accessori, invece, non maturano per il periodo "dalla data di delibera del dissesto e sino all'approvazione del rendiconto ...". La presenza di tale disposizione ed il rilievo che risulta - con l'art. 89, XI comma del novellato decreto legislativo n. 77/95 - specificamente riprodotto il disposto di cui ai precedenti - ma abrogati - artt. 21 della legge n. 68/93 e 88, VII comma, del decreto legislativo n. 77/95, prima formulazione, (secondo cui "dopo l'approvazione del piano di estinzione ... non sono ammesse richieste relative ad ulteriori crediti nei confronti dell'ente") fanno, dunque, risorgere ragionevolmente il sospetto della illegittimita' della norma, vuoi sul piano generale, vuoi su quello piu' specifico, attualizzando le ragioni di censura gia' avanzate, ma respinte - al tempo - dalla Corte con le gia' citate sentenze nn. 155 e 242 del 1994. Delle due, cioe', l'una: o la norma (art. 81, ult. comma, del decreto legislativo n. 77/95, nel testo vigente) non avendo innovato il sistema, e' del tutto superflua e priva di ratio giustificatrice, come pero' e' difficile poter ritenere tanto specifico risulta essere stato l'intervento del legislatore, cui non pare siano neanche sfuggite le osservazioni della stessa Corte, di cui alle sopra citate pronunzie; ovvero prescrive, effettivamente, quella "cristallizzazione" dei crediti, del tutto esclusa dalla Corte con la sentenza n. 242 del 1994. Da qui, plurimi sospetti di incostituzionalita' della norma, seguiti dalla formulazione di alcuni quesiti, che vengono proposti alla Corte, nella sequenza logica di cui infra, sol perche' il rigetto del dubbio di costituzionalita' in ordine al primo potrebbe rendere irrilevante il vaglio degli altri da parte del giudice delle leggi. La necessita' di tentare di "conservare" la norma, induce lo scrivente ad esporre prima la censura specifica e poi quelle piu' generali, per la maggiore gravita' che si collegherebbe all'accoglimento di queste ultime. La norma (art. 81, IV comma del decreto legislativo n. 77/95, nel testo vigente) - abrogatrice certamente delle precedenti con essa incompatibili, tra cui l'art. 6, comma V, lett. g) del d.P.R. n. 378/93 - ipotizza, come si diceva, la "cristallizzazione" dei crediti diversamente, dunque, da quanto ritenuto dalla stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 citata, secondo cui - invece - si limitava ad "escludere l'opponibilita' alla procedura concorsuale e l'ammissibilita' alla massa passiva, degli interessi e rivalutazioni, maturati dopo la delibera di dissesto, lasciando integra la facolta' per il creditore di azionare tali diritti nei confronti dell'ente pubblico una volta tornato in bonis". La norma prevede la "cristallizzazione" dei crediti e preclude - dunque - la capitalizzazione degli interessi e della rivalutazione monetaria, per quanto limitatamente al periodo di tempo tra la "data della deliberazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'art. 89", senza "lasciare integra alcuna facolta'" per i creditori di azionare tali diritti nei confronti della p.a. dissestata, una volta tornata in bonis. Per tale interpretazione continua - necessariamente - a deporre l'art. 89, comma XI, del decreto legislativo 77/95 (testo vigente), secondo cui: "dopo l'approvazione del piano di estinzione ... non sono ammesse richieste relative ad ulteriori crediti nei confronti dell'ente". Proprio tale norma finira' per costituire (vedi infra) il riferimento specifico del secondo - ma piu' generale e grave - profilo di censura, in quanto alla stessa si collega, indubbiamente, il sospetto di effetti ben piu' traumatici. Il citato XI comma dell'art. 89, infatti, in modo piu' apparentemente deciso, ma certo non sufficientemente chiaro, pare evidenziare una volonta' legislativa mirata alla definitiva compressione del diritto di credito che, una volta ammesso alla massa passiva, ma non soddisfatto, non si riespanderebbe piu', si' da non poter piu' essere opposto alla p.a. tornata in bonis. Le analisi in corso della stessa norma, sotto i delineati profili, riguardano inoltre anche tutti quegli altri crediti - magari pure sorretti da giudicati - che, per le ragioni piu' diverse, non sono stati ammessi alla massa passiva e, dunque, a partecipare al riparto. Per tali crediti - ivi compreso quello dell'attrice - nulla la norma dispone circa la loro sorte; in particolare, non dice se i predetti crediti siano o meno opponibili alla p.a. in bonis; evenienza quest'ultima, che sola potrebbe giustificare l'utilita' di pronunce cognitive di condanna. L'interpretazione della predetta norma, laddove dovesse condurre a ritenere l'inopponibilita' dei crediti (ammessi e non soddisfatti o addirittura non ammessi) anche nei confronti della p.a. in bonis, rischierebbe, infatti, di compromettere anche l'utilita' delle pronunzie, con una serie di riflessi anche sui giudizi di cognizione e non solo, in prospettiva, "vanificando il futuro comando"; sul punto, infatti, si puo' brevemente osservare che la questione dell'"utilita' della pronunzia" non puo' certo dirsi che si pone in vista di un evento futuro ed incerto (quale quello della formazione del titolo esecutivo) e che, quindi, collegandosi ad un fatto meramente ipotetico, la questione di incostituzionalita' sarebbe anticipata e, come tale, non rilevante, ai fini dell'ammissibilita' al giudizio della Corte. La rilevanza la si coglie - specificamente - sotto il profilo dell'art. 100 cpc: e' ovvio, infatti, che qualsivoglia domanda di condanna (ma anche di solo accertamento) - se vi fosse consapevolezza della inutilita' della sentenza - sarebbe destinata al rigetto, assumendo carattere meramente accademico. Ed e' pure altrettanto vero che, diversamente opinando, un numero incalcolabile di giudizi cognitivi, magari gia' totalmente istruiti, se non addirittura in fase di decisione, sarebbero destinati a concludersi sterilmente con pronunce del tutto inutiliter date, con ingiustificati costi a carico non solo delle parti ma anche dell'amministrazione giudiziaria, in spregio ai principi che regolano il buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.) e della strumentalita' necessaria del processo, destinato - invece - ad assicurare a chi domanda giustizia "tutto quello e proprio quello che gli spetta sul piano del diritto sostanziale" (ex art. 24 Cost., con riferimento al disposto di cui all'art. 2907 cc.). Per le espresse ragioni e per i motivi che seguiranno, appare non manifestamente infondata la questione di incostituzionalita' del vigente art. 81, IV comma, del decreto legislativo n. 77/95, per violazione degli artt. 2, 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione, in correlazione con gli artt. 1282, 1284, 1224, 2907 del c.c. e 55 della legge fall., anche con riferimento all'art. 15 della legge n. 1404 del 1956. La norma censurata, infatti, concreta, rispetto ai creditori di altri soggetti, sia privati che pubblici, un trattamento deteriore che, alla luce dei principi costituzionali, non pare affatto giustificato. Ne' la natura pubblica del soggetto passivo, ne' lo stato di dissesto possono di per se' giustificare la derogatoria e restrittiva disciplina imposta agli accessori del credito dall'art. 81; norma questa che, bloccando interessi e rivalutazione, consente al mero decorso del tempo di incidere negativamente sulla prestazione dovuta ai creditori dell'ente dissestato, sottoponendoli ad un sacrificio patrimoniale che vede esenti sia i creditori degli enti locali non in dissesto, sia i creditori in genere degli altri soggetti pubblici e privati. Ne' sarebbe possibile imporre questo sacrificio patrimoniale ai creditori dell'ente locale, senza violare il canone costituzionale che, alla luce dei principi di solidarieta' (art. 2 della Cost.), di capacita' contributiva (art. 53) e di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.), vuole che le prestazioni patrimoniali siano imposte ai singoli con criteri che consentano un equo concorso alla spesa pubblica. Il pagamento, da parte di una p.a., inoltre, e' "atto dovuto" (Corte cost. n. 138/1981); "effetto ineludibile" della sua attivita'; "scopo istituzionale" di questa, cui non puo' mai collegarsi, pertanto, la responsabilita', non solo di uno stato di definitiva insolvenza, ma anche solo di una semplice insolvenza (vedi infra). Non e' tutto: se e' senza dubbio condivisibile sostenere che un ente pubblico "ancorche' dissestato non puo' cessare di esistere in quanto espressione di autonomia locale" (rivedi la sentenza n. 155/94 della Corte), e' altrettanto vero, pero', che, rientrando il pagamento tra i suoi compiti istituzionali (ed al riguardo, non e' un caso che si dica, senza alcuna contraddizione, che allo stesso "deve provvedere spontaneamente"), proprio il mancato pagamento, allora - piu' che l'assoggettamento a procedura concorsuale - compromette lo scopo per il quale "e'" tale tipo ente. La prevista "cristallizzazione" dei crediti, nei confronti di una p.a. dissestata, consolida posizioni confliggenti con i principi espressi, facendo degradare la p.a. al rango di un soggetto privato: se l'inadempienza e' un fatto illecito, non e' tollerabile che la p.a. sia protagonista (rectius: possa essere istituzionalmente protagonista) di tale fatto; e cio' ancor piu' ove si consideri che la stessa e' - sempre istituzionalmente - preposta non solo ad evitare tali fatti, ma addirittura a garantire che questi non vengano commessi. Per tali ragioni, la norma viola gli artt. 2 e 3, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle garanzie ed all'obbligo di rimozione di ostacoli. Senonche' l'interpretazione della norma, di cui al quarto comma dell'art. 81, del decreto legislativo n. 77/95, nel testo vigente, in combinato disposto con il successivo art. 89, XI comma (secondo cui "dopo l'approvazione del piano di estinzione ... non sono piu' ammesse richieste relative ad ulteriori crediti") induce pure a ritenere - cosi' rivitalizzando, sotto nuovi profili e con nuovi motivi, le censure gia' rimesse alla Corte e da questa respinte con le sentenze nn. 155 e 242 citate - che la volonta' del Legislatore non fosse stata prima e non sia ancora oggi solo quella di mirare alla "cristallizzazione" dei crediti, nei limiti fissati dalla Corte con la citata pronunzia n. 242 (ossia nei limiti dell'inopponibilita' alla procedura concorsuale), ma altra di natura ben diversa: vale a dire quella di "azzerare" il diritto di credito non soddisfatto a seguito del riparto. Tale volonta' - non va taciuto - pare inserirsi in un ben piu' ampio disegno, proteso - non si sa quanto consapevolmente - a comprimere il diritto soggettivo di credito e quello di difesa. Non sono, forse, un caso le innumerevoli disposizioni in tema di limitazioni dell'azione e dell'esecuzione. Basti pensare all'individuazione dei fondi a specifica destinazione definiti impignorabili, per preservarli dalle azioni dei creditori; alla sospensione delle procedure esecutive, ex art. 24 legge n. 144/89 alla prescrizione, ex art. 113 del decreto legislativo n. 77/95, di inammissibilita' delle esecuzioni presso terzi soggetti diversi dal Tesoriere, con l'instituzione, dunque, di un criterio di discrimine addirittura soggettivo, mentre si sa che cio' che puo' meritare tutela e' il solo "bene" colpito dall'azione esecutiva e non certo il debitore; all'individuazione generica dei servizi indispensabili (decreto ministeriale 28 maggio 1993), diretta anch'essa a preservare le risorse della p.a., dalle aggressioni dei creditori; all'abrogazione dell'art. 11 della legge n. 68/93), nella parte in cui prevedeva una serie di condizioni di rispetto perche' la p.a. potesse far valere l'impignorabilita' (vedi, sul punto, la sentenza n. 285 del 1995 delle Corte, di cui piu' specificamente infra); alla regola dell'impignorabilita' "rilevabile di ufficio", cui accede un irrazionale ed imprevedibile conferimento di poteri cognitivi al g.e. in un tipo di processo, quale quello esecutivo, dove - in difetto di contraddittorio - non puo' essere esercitata la difesa (art. 113 del decreto legislativo n. 77/95, nel testo modificato dal decreto legislativo n. 336/96); all'esclusione del vincolo pignoratizio (art. 113 citato, IV comma), con conseguente pregiudizio della tutela dell'esecuzione (presso terzi), sicche' si puo' anche giungere a ritenere - plausibilmente - che ci si trova di fronte ad un fenomeno nuovo, estraneo all'intera disciplina codicistica e contrario ai principi piu volte ribaditi dalla Corte (sent. n. 138 del 1981); all'estensione delle regole in tema di impignorabilita' anche all'attivita' dei commissari nominati dal giudice amministrativo, in sede di ottemperanza a giudicati di condanna della p.a. al pagamento di somme di denaro, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 113, gia' citato; alle stesse norme sul dissesto, che minano le azioni esecutive; al piu' recente decreto-legge n. 513/96, che addirittura sospende le azioni di cognizione in corso e preclude la proposizione di quelle nuove. E, ben al di la' dal dire che le norme in materia (tra cui alcune di quelle teste' indicate) risultano pure tanto tortuose da lasciare quanto meno perplesso l'interprete, spesso invece colto impreparato, o costretto in errore, come e' accaduto certamente nel caso della sentenza n. 285 del 29 giugno 1995 alla stessa Corte costituzionale (in occasione della dichiarazione di illegittimita' dell'art. 1 della legge n. 67/93, allorquando, in sede di interpretazione di tale norma, l'ha ritenuta illegittima "in esito alla comparazione con la disciplina parallela dell'art. 11 della legge n. 68/93", non piu' vigente - pero' - al tempo della citata pronunzia), sorge il dubbio - fondato a parere di chi scrive - che la strada sin ad oggi percorsa dal legislatore sia, allora, in direzione esattamente opposta rispetto a quella tracciata dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 138 del 1981, tanto da evidenziare una retrocessione del sistema ad epoca anteriore alla predetta pronunzia; e tutto cio' aggravato da una condizione di piu' profonda incoerenza - sul piano generale - del sistema stesso che, se da un lato, percorrendo la strada opposta a quella segnata dalla Corte, mira ad una protezione ingiustificata delle risorse della p.a., allo scopo di preservarle dalle aggressioni dei creditori, dall'altro, consente che le stesse vengano, pero', sottratte dai Tesorieri (nel caso, degli enti locali), soggetti istituzionalmente autorizzati alle anticipazioni e, conseguentemente, aventi titolo a lucrare cospicui interessi, con chiara funzione corrispettiva. Senza considerare che proprio l'obbligo di pagamento di tali interessi e' la causa principale dell'indebitamento, perfettamente identificabile con quella che, la piu' parte delle volte, conduce un ente locale al dissesto. Quadro generale questo che disvela, dunque, la volonta' legislativa, dalla quale non si puo' certo prescindere quando le norme vengono sottoposte al vaglio dell'interprete. Cio' posto, considerato che, con le norme di cui agli artt. 81 e 89 citati, ovviamente nelle parti in questione, si prefigura l'inadempienza definitiva della p.a., si osserva: non si e' mai sospettato (anzi, e' stato sempre escluso) che un ente pubblico non economico, dotato di autonomia potesse, pur trovandosi in uno stato di impotenza patrimoniale ad adempiere integralmente ed immediatamente le proprie obbligazioni, essere soggetto ad una esecuzione collettiva, fondata sul presupposto di un suo stato di definitiva insolvenza; neppure si e' mai ipotizzato, per tale tipo di ente, il c.d. stato di definitiva insolvenza o l'insolvenza verso anche uno soltanto dei suoi creditori (privati o pubblici), ossia la insolvenza semplice. La ratio di tali principi si collega alla logica - gia' evidenziata - che, se l'inadempienza e' un fatto illecito, che lede l'interesse del creditore insoddisfatto, non e' tollerabile che una p.a. sia proprio essa protagonista di un tal fatto, visto che la stessa e', poi, pure preposta istituzionalmente ad evitare che vengano commessi fatti illeciti e, per giunta, a garantire che questi non vengano commessi. Storiche ragioni, sempre condivise, tollerano il definitivo inadempimento solo nei confronti dell'imprenditore. Ben vero, l'art. 2093 del c.c. prevede che l'impresa possa anche essere esercitata da enti pubblici. E' da escludere, pero', che enti, come le province, i comuni e lo Stato, possano mai acquistare la qualita' di imprenditori (commerciali). L'"esercizio" (per comuni, province, etc.) e', infatti, solo un'attivita' accessoria, rispetto a quella principale da essi svolta, inerente al fine istituzionale pubblico che perseguono; ed e' giustificato dall'esigenza di assicurare alla collettivita' la prestazione di servizi di sostanziale importanza per l'economia del paese o anche dall'opportunita' di assicurarsene il profitto che, scevro dal rischio economico (inerente ad ogni impresa per il carattere di monopolio con cui e' effettuato), costituisce un gettito patrimoniale certo, da detti enti utilizzato per il conseguimento dei loro fini generali. Lo Stato (al pari di un ente locale), infatti, allorche' esercita, se cosi' si puo' dire, un'impresa non assume veste di imprenditore, che contrasterebbe con la sua indole. Le norme (artt. 81 e 89) in esame, allora, collidono con i cennati principi e con quelli espressi in materia in numerose decisioni della Corte costituzionale (tra cui la sentenza n. 138/81); sottraggono la p.a. dalla posizione istituzionale di garante ed assimilano (rectius: tentano di assimilare) addirittura l'attivita' della stessa a quella di un soggetto, imprenditore privato debitore; cio' del tutto ingiustificatamente e, per giunta, con una serie di privilegi per la p.a. che non trovano giustificazioni, tutti sempre censurati (rivedi la sentenza n. 138 del 1981) dalla stessa Corte costituzionale, chiamata anche oggi a pronunziarsi (in una materia di fondo, dunque, perfettamente identica), oltre che dal supremo collegio (tra le tante, Cass. S.U 18 dicembre 1987 n. 9497; Cass. S.U. 9 marzo 1981 n. 1299). Ripugna, peraltro, alla coscienza giuridica l'idea che una p.a. possa "dissestare" (rectius: fallire o liquidare) in senso stretto, ossia non pagare. A siffatte considerazioni, aggiungasi che il continuo gettito patrimoniale, in favore della p.a. costituito dall'esercizio delle sue attivita' e dalle entrate tributarie esclude, d'altro canto, che possa mai rinvenirsi il c.d. stato di insolvenza (definitivo), tipico presupposto delle procedure concorsuali, cosi' escludendo la prefigurabilita' anche di queste. I poteri di coercizione che la p.a. dissestata puo' continuare ad esercitare, per il recupero delle entrate (anche tributarie), sono del tutto inconciliabili con il rilievo di uno stato di decozione patrimoniale, emergendo - diversamente opinando - l'illogicita' della norma, visto che la stessa non potrebbe che giustificarsi se non come atto impositivo, senza ristoro e, come tale, illegittimo anche sotto tale profilo. Per tali ragioni, da un lato, riguardo alla verifica sul se il sistema costituzionale possa ammettere che un comune possa versare in istato di insolvenza definitiva o, come dir si voglia, essere definitivamente insolvente anche verso uno soltanto dei suoi creditori (e, dunque, anche sempilcemente insolvente) e, dall'altro, riguardo al riscontro della legittimita', sul piano costituzionale, dell'assoggettabilita' dello stesso ente ad un'esecuzione collettiva, fondata su quel presupposto (insolvenza definitiva), si puo' dubitare, piu' che ragionevolmente, che la norma violi gli artt. 2 e 3 secondo comma, della Costituzione, attinenti alle garanzie ed all'obbligo di rimozione degli ostacoli, nonche' l'art 41, attinente al riconoscimento dell'iniziativa economica, di programma, di indirizzo e coordinamento della iniziativa economica detta, anche con riferimento agli artt. 2082 del c.c., 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (l.f.) e 15 della legge 4 dicembre 1956 n. 1404.