IL PRETORE
   Ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del  dispositivo,  la
 seguente  ordinanza  nei confronti di Sordoni Rosanna, nata il giorno
 15 luglio 1955 ad Ancona, ivi  residente  in  via  Candia  n.  140/H;
 libera,  presente;  Fiori  Stefania, nata il giorno 17 gennaio 1963 a
 Porto Potenza Picena (Macerata), ivi residente in via G.B.  Pergolesi
 n.   5; libera, contumace; Gravina Renato, nato il giorno 15 novembre
 1954 a Montecassiano (Macerata), ivi residente in via A.  Manzoni  n.
 16/A;  libero, contumace; Gravina Pasquale, nato il giorno 1 dicembre
 1951 a Battipaglia (Salerno), residente in Montecassiano  (Macerata),
 via Mattei n. 14; libero, presente;
   imputati  del reato p. e p. di cui agli artt. 1-ter, 1-sexies legge
 n. 431/1985, perche', le prime due quali committenti, gli altri quali
 esecutori dei lavori realizzavano abusivamente una veranda  in  legno
 sopra  il  terrazzo  di  copertura  del  garage, in zona sottoposta a
 vincolo paesaggistico in forza di decreto ministeriale del 9 febbraio
 1976 e di delibera del consiglio regionale n. 8 del 23 dicembre 1985.
 In Ussita acc. Il 26 luglio 1995.
   Con  l'intervento  del  p.m.  in  persona  della  dott.ssa  Lorella
 Appignanesi, vice procuratore onorario, all'uopo delegato.
   Le parti concludevano nel modo che segue: il p.m. chiede affermarsi
 la   penale   responsabilita'   degli   imputati  in  relazione  alla
 fattispecie loro ascritta e  condannarsi  ciascuno  degli  stessi  al
 minimo edittale della pena.
   Il  difensore  dell'imputato  Gravina Pasquale, avv. Claudio Netti,
 del foro di Macerata, chiede  dichiararsi  non  doversi  procedere  a
 carico  del  suo  assistito in relazione alla fattispecie ascrittagli
 per estinzione del reato a seguito di intervenuta  autorizzazione  in
 sanatoria.
   Il  difensore  degli  imputati  Sordoni  Rosanna,  Fiori Stefania e
 Gravina Renato, dott.ssa proc. Letizia Cimini, del foro di  Macerata,
 si associa alle conclusioni dell'avv. Netti.
                            Fatto e diritto
   In  data  9  marzo  1996,  l'ufficio della procura della Repubblica
 presso il tribunale di  Camerino  emetteva  decreto  di  citazione  a
 giudizio,  recante  il n. 992/1995 registro generale notizie di reato
 (mod. 22), con cui Sordoni Rosanna, Fiori Stefania, Gravina Renato  e
 Gravina  Pasquale, meglio qualificati in epigrafe, venivano convocati
 dinanzi a questa A.  G.  per  rispondere  della  fattispecie,  meglio
 individuata  in rubrica. In particolare, si contestava ai quattro, le
 prime due in qualita' di proprietarie committenti,  il  terzo  ed  il
 quarto,  invece, in veste di esecutori dei lavori, di aver realizzato
 una veranda al di sopra di una tettoia di copertura di un  garage  in
 territorio   del   comune  di  Ussita  in  assenza  delle  preventive
 autorizzazioni a fini  edilizi  ed  a  fini  ambientali.  All'odierna
 udienza,  avuta  la  presenza  dei  soli  imputati  Sordoni Rosanna e
 Gravina  Pasquale,  veniva   aperto   il   dibattimento.   In   esito
 all'esposizione    introduttiva,    si   procedeva   all'espletamento
 dell'istruttoria dibattimentale, che si  compendiava  nell'esame  dei
 testi  indotti  dal  p.m.  e  nell'acquisizione  della documentazione
 prodotta  dalla  difesa  degli  imputati.   Terminata   l'istruttoria
 dibattimentale, le parti concludevano come da separato verbale.
   L'esame  delle  risultanze dell'istruttoria dibattimentale consente
 di apprezzare quanto segue.
   In data 26 luglio 1995, Puccia Vincenzo,  mandante  della  stazione
 dei  carabinieri  di  Ussita,  compiva,  a  seguito  di  segnalazione
 telefonica, un'ispezione in localita' Cuore di Sorbo  del  comune  di
 Ussita,  ove  si  stavano  svolgendo dei lavori di costruzione di una
 veranda, in legno "pino  di  Svezia",  al  di  sopra  di  tettoia  di
 copertura  di  un  garage  di  un immobile, gia' edificato in loco; i
 lavori erano condotti dalla ditta di Gravina  Renato  e  Pasquale:  i
 lavori  medesimi  erano  stati commissionati alla ditta summenzionata
 dalle proprietarie dell'immobile, le signore Sordoni Rosanna e  Fiori
 Stefania.  Secondo  le  successive indagini, i lavori di edificazione
 della  veranda  erano  stati  intrapresi in assenza di autorizzazione
 edilizia e di autorizzazione paesaggistica.  Le circostanze  storiche
 or  ora  riferite sono state narrate con estrema precisione dal teste
 Puccia Vincenzo (v. in atti) e trovano conferma  nelle  dichiarazioni
 della  testimone Ortenzi Patrizia, dirigente dell'ufficio tecnico del
 comune di Ussita, esaminata nel corso  dell'odierna  udienza  (v.  in
 atti).  Orbene,  quanto  precede  fonda  il  convincimento  di questo
 giudicante circa la sussistenza della materialita' della  fattispecie
 contestata  agli  odierni imputati: nessun dubbio puo' nutrirsi che i
 lavori intrapresi,  relativi  all'edificazione  della  veranda  sopra
 identificata,   non   formava   oggetto  di  alcun  provvedimento  di
 autorizzazione  ovvero  concessione,  rilasciato   dalle   competenti
 autorita'. Si consideri, infatti, che la veranda suddetta ricadeva in
 zona  soggetta  alla  tutela  paesaggistica,  alla  stregua di d.m. 9
 febbraio 1976 e di delibera del Consiglio regionale del  23  dicembre
 1985,  recante  il  numero  8 (v., in atti, dichiarazioni, rese dalla
 teste  Ortenzi  Patrizia).    L'autorizzazione  ambientale,  di   cui
 all'art.  7  legge  n.  1497/1939,  ha  per  oggetto, a seguito delle
 innovazioni apportate con legge n.   431/1985, tutti  gli  interventi
 effettuati  nelle  zone  vincolate,  oggetto  della  peculiare tutela
 predisposta dal legislatore: nessun dubbio, pertanto, che i lavori di
 edificazione della veranda al di sopra della tettoia di copertura del
 garage dovessero essere oggetto di nuova autorizzazione e  che  senza
 l'apposito provvedimento amministrativo i lavori prefati si sarebbero
 presentati come illegittimi. La sussistenza dell'elemento subbiettivo
 della fattispecie in disamina appare desumibile dalla circostanza che
 i responsabili dei lavori si attivarono per ottenere dalla competente
 autorita'  l'autorizzazione,  di cui all'art.   7 legge n. 1497/1939,
 relativa  ai  lavori  oggetto  dell'imputazione  (intrapresi,  lo  si
 rammenti,  prima del rilascio del provvedimento autorizzatorio): cio'
 appare indice della consapevolezza della necessita' del provvedimento
 surrichiamato al fine del compimento dei  lavori,  sicche'  non  puo'
 dubitarsi  che l'inizio degli stessi in assenza di autorizzazione sia
 comportamento ascrivibile alla volontarieta' dei prevenuti, dovendosi
 ravvisare nella condotta degli stessi, quanto  meno,  un  profilo  di
 colpevole  leggerezza.  A  nulla  rileva  che, in epoca successiva al
 controllo operato dal  comando  della  Stazione  dei  Carabinieri  di
 Ussita, l'Amministrazione comunale di Ussita (rectius: il sindaco del
 comune  di  Ussita)  ebbe  a  rilasciare  l'autorizzazione richiesta,
 relativa  ai  lavori  sopra  identificati   (v.,   in   atti,   copie
 fotostatiche  delle  delibere,  recanti  i  nn.  29  e  15  del 1995,
 rispettivamente rese  in  data  27  settembre  1995  ed  in  data  28
 settembre  1995).  Si  consideri, a tal proposito, che la fattispecie
 preveduta dall'art. 1-sexies della  legge  8  agosto  1985,  n.  431,
 costituisce, secondo le acquisizioni della consolidata giurisprudenza
 di  legittimita'  e della maggioritaria dottrina, reato di pericolo e
 non di danno, tendendo la normativa in disamina a vietare  tutti  gli
 interventi  tout  court, i quali abbiano potenzialita' di immutazione
 dello stato dei luoghi, oggetto della protezione legislativa.
   Proprio quanto precede, peraltro, impone di valutare  la  questione
 concernente  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1-sexies della
 legge 8 agosto 1985, n. 431.
   La  norma  incriminatrice  contestata  infatti, l'art. 1-sexies del
 d.-l. 27 giugno 1985, n. 312 (convertito nella legge 8  agosto  1985,
 n.  431),  nell'interpretazione  che  di  essa fornisce il cosiddetto
 droit vivant, colpisce con le sanzioni penali previste dall'art.   20
 legge  n.  47/1985  la violazione delle disposizioni introdotte dalla
 legge  n.  431/1985,   indipendentemente   dalla   circostanza   che,
 nell'ipotesi  in  cui  l'opera eseguita non sia stata preventivamente
 autorizzata, l'autorizzazione  -  e  con  essa  l'accertamento  della
 inesistenza di qualsivoglia minaccia all'integrita' del bene tutelato
 - intervenga successivamente.
   Tale  e'  infatti  la  conclusione ricavabile dalla norma in esame,
 siccome oggetto dell'ormai cristallizzata  interpretazione  fornitane
 dalla  suprema  Corte  (v.,  in  proposito, Cass., sez. III penale, 5
 maggio-11 giugno 1992, Ferrero: "la legge n. 431 del 1985 ha  dettato
 un  complesso  di disposizioni particolarmente restrittive, dirette a
 tutelare in modo  rigoroso  non  soltanto  l'aspetto  paesistico  del
 territorio,  in  coincidenza  con  l'interesse  garantito dalla Carta
 fondamentale all'art. 9, ma l'intero  assetto  ambientale,  sia  pure
 sotto  il  prevalente  profilo  de  quo",  v.  Cass., 3 gennaio 1991,
 Francucci;  "In  questa  prospettiva  la  costruzione  del  reato  di
 violazione   della   legge   de  qua  (...)  prescinde  completamente
 dall'accertamento di un reale danno al tessuto preesistente. (...) In
 siffatto  quadro  la  sopravvenienza  dell'atto  da'  luogo  ad   una
 sanatoria   soltanto   amministrativa  e  non  anche  penale.  Questa
 interpretazione ha anche una sua coerenza coincidente  con  la  ratio
 della   legge.   Si   vuole   stimolare   il  cittadino  al  rispetto
 dell'ambiente e delle regole all'uopo predisposte, inducendolo a  far
 transitare  ogni  sua  piu' rilevante iniziativa attraverso il vaglio
 dell'autorita' competente". Cass., 5 maggio-11 giugno 1992,  Ferrero,
 cit.).
   Si  consideri,  ancora,  che  il  legislatore  non ha espressamente
 attribuito   efficacia   estintiva   del   reato   al   provvedimento
 amministrativo  favorevole  sopravvenuto,  a  differenza di quanto ha
 fatto in materia urbanistica con l'art. 22 della  legge  n.  47/l985.
 Cio'  costituirebbe il chiaro indice di una voluntas legis improntata
 a disfavore nei confronti di provvedimenti di "sanatoria" post operas
 in materia paesaggistica.
   La   legittimita'   costituzionale    di    questa    disposizione,
 nell'interpretazione  ora  riferitane,  e' stata sottoposta al vaglio
 della Consulta in piu' occasioni e con riferimento a diversi profili,
 onde  appare  opportuno  -  oltreche'  metodologicamente  doveroso  -
 ripercorrerne  brevemente  la  vicenda.  L'ordinanza n. 431 del 1991,
 affrontando   il   problema   della   difformita'   del   trattamento
 sanzionatorio delle diverse, possibili violazioni della disciplina di
 tutela   del   paesaggio  (nel  senso  che  l'art.  1-sexies  sarebbe
 applicabile soltanto alle violazioni relative ai beni individuati per
 categorie astratte dalla stessa legge n.   431/1985, e  non  anche  a
 quelle  relative  a  beni  la cui rilevanza paesaggistica e' stata in
 concreto accertata dall'autorita' amministrativa  come  previsto  dal
 sistema   introdotto  dalla  legge  n.  1497/1939),  ha  giustificato
 l'indicata difformita' sulla base della considerazione che  la  legge
 n.   431/1985   ha  introdotto  un  regime  di  tutela  paesaggistica
 completamente diverso - quanto ai criteri di individuazione dei  beni
 tutelati  ed  alle  caratteristiche  della tutela - rispetto a quello
 stabilito   dalla   legge  n.  1497/1939,  per  cui,  trattandosi  di
 "violazioni  operanti  su  piani  diversi",  ben  si  giustifica   la
 difformita' del trattamento sanzionatorio.
   Peraltro   l'ordinanza   in   esame,  pur  affermando  la  radicale
 diversita' del nuovo regime di tutela sotto il profilo dei meccanismi
 di individuazione dei beni tutelati ex art. 9 della Costituzione, non
 si e' discostata, quanto al fondamento costituzionale di detta tutela
 ed ai conseguenti criteri valutativi che  consentono  al  legislatore
 ordinario   di   vincolare  questo  o  quel  bene,  dalla  precedente
 giurisprudenza costituzionale in materia: l'esplicito riconoscimento,
 operato mediante rinvio alla precedente sentenza n. 151 del 1986, del
 "valore estetico-culturale"  quale  fondamento  costituzionale  della
 tutela  del  paesaggio,  e' perfettamente coerente con l'impostazione
 culturale fatta propria dalla  Corte  costituzionale  in  materia  di
 individuazione  dei caratteri differenziali delle tutele, ad un tempo
 differenziate  ed  interferenti,  insistenti  sul   medesimo   ambito
 territoriale,  nel  senso che tra i possibili regimi di tutela quello
 che trova  il  suo  fondamento  nell'art.  9,  secondo  comma,  della
 Costituzione si caratterizza per il fatto di avere ad oggetto la cura
 dell'interesse estetico-culturale (cosi' Corte cost., 26 aprile 1971,
 n.  79; 6 luglio 1972 n. 142; e, in particolare, 29 dicembre 1982, n.
 239, dove l'affermazione che la Costituzione "... accomuna la  tutela
 del paesaggio a quella del patrimonio storico ed artistico e detta il
 suo  precetto, come gia' rilevato da parte della dottrina, ai fini di
 proteggere e migliorare i beni  (culturali)  suddetti  e  contribuire
 cosi' all'elevazione intellettuale della collettivita'").
   Questa  ricostruzione, pertanto, prende posizione nel dibattito fra
 le contrapposte tesi, tendenti  rispettivamente  a  qualificare  come
 beni  paesaggisticamente  rilevanti  -  e  come  tali  legittimamente
 assoggettabili alla  relativa  disciplina  -  soltanto  i  cosiddetti
 quadri  naturali,  ovvero  a  ritenere imprescindibile l'azione della
 comunita' nella definizione di una nozione di  paesaggio  individuata
 nella cosiddetta forma del paese: il superamento di queste posizioni,
 mediante   la  valorizzazione  del  profilo  dell'interesse  posto  a
 fondamento della tutela, consente di affermare che il dato  materiale
 costituito  dal  suolo  assume  rilevanza  paesaggistica  (e  diviene
 pertanto meritevole dell'apposita tutela) a seguito di un giudizio di
 carattere  estetico-culturale,  che  nel  sistema  della   legge   n.
 1497/1939 era rimesso alla competente autorita' amministrativa.
   Nella  successiva  sentenza n. 67 del 1992, la Corte costituzionale
 precisa ulteriormente tale profilo: il criterio di individuazione dei
 beni paesaggisticamente rilevanti introdotto dalla legge n.  431  del
 1985,  e  basato  non  sull'effettivo  accertamento  della  rilevanza
 estetico-culturale ma sulla indicazione di una serie di categorie  di
 beni che in via astratta e presuntiva dovrebbero avere tali caratteri
 (che  ne  giustificano  l'assoggettamento al regime di tutela siccome
 previsto dall'art.  9  della  Costituzione),  ha  il  suo  necessario
 presupposto    nel    completamento   della   disciplina   ad   opera
 dell'attivita' di pianificazione demandata alle regioni,  sulla  base
 della  quale  "... possono essere disposte discipline differenziate".
 Questa impostazione  e'  stata  poi  coerentemente  sviluppata  nelle
 successive  pronunzie  relative  alla  disposizione  in  esame. Nella
 sentenza n. 122 del 1993, con riferimento al fatto  che  il  richiamo
 operato quoad poenam dall'art. 1-sexies legge n. 431/1985 all'art. 20
 legge  n.  47/1985  non  consente  di individuare con esattezza quale
 delle sanzioni contemplate dalla norma richiamata  si  applichi  alla
 violazione  del  precetto,  si  e'  affermato che, in ogni caso, "...
 l'accentuata severita' di trattamento, che puo' aversi in taluni casi
 per effetto del carattere non differenziato della  disciplina,  trova
 giustificazione  nella  entita'  sociale  dei  beni  protetti  e  nel
 carattere generale, immediato e interinale della tutela che la  legge
 ha inteso apprestare".
   Nella sentenza n. 269 del 1993, che affronta direttamente l'ipotesi
 di  costruzione  in  zona  vincolata  in  assenza dell'autorizzazione
 paesaggistica,  poi  sopravvenuta,  nell'estendere  -  peraltro   con
 motivazione assolutamente tautologica - le ragioni poste a fondamento
 delle   precedenti   dichiarazioni   di   infondatezza   all'indicata
 fattispecie, si afferma che in dette pronunzie la Corte "...  non  ha
 mancato  di precisare di riconoscere congruita' e ragionevolezza alla
 disciplina anche in relazione al suo palese carattere interinale. Non
 puo'  negarsi  infatti  che  l'applicazione  della  normativa   sulla
 protezione  ambientale  abbia  posto  in  evidenza  alcuni  problemi,
 segnalando in particolare l'opportunita' di  definire  le  previsioni
 sanzionatorie  in  modo  che  consentano  di  discriminare  meglio il
 trattamento punitivo in relazione alla effettiva gravita' dei  fatti.
 E' dunque auspicabile che, tenuto conto dell'ormai prolungata vigenza
 della  disciplina,  il  legislatore  provveda  ad un adeguato riesame
 della stessa alla luce delle questioni che via  via  si  sono  andate
 ponendo".
   Orbene,   non   essendo  intervenuto,  nel  frattempo,  l'auspicato
 intervento legislativo, e permanendo pertanto gli indicati profili di
 incongruita' della normativa in esame, sono venute meno, ad avviso di
 questo giudicante, le ragioni poste a fondamento della giurisprudenza
 costituzionale fin qui riportata.
   Il  primo  dei  profili  di  incostituzionalita'  e'  relativo   al
 principio  di  legalita'  di  cui  all'art.  25, secondo comma, della
 Costituzione, ed in particolare alla sua  proiezione  in  termini  di
 sufficiente  determinatezza  della  fattispecie  con  riferimento  al
 richiamo operato quoad poenam dall'art. 1-sexies all'art. 20 legge n.
 47/1985.
   Nell'escludere il contrasto  con  tale  principio  della  norma  in
 esame,  la Corte costituzionale, nella richiamata sentenza n. 122 del
 1993, ha motivato sulla base del richiamo  al  diritto  vivente,  con
 riferimento  al  fatto che il carattere univoco della giurisprudenza,
 nel senso di ritenere applicabile la sanzione  di  cui  all'art.  20,
 lettera  c),  "...  fuga  ogni  preoccupazione di incertezza circa le
 conseguenze penali della violazione della norma impugnata".
   L'affermazione surriportata non ha evidentemente tenuto conto della
 sentenza 5 maggio-11 giugno 1992 della  terza  sezione  penale  della
 Corte  di  cassazione (ricorrente Ferrero), la quale ha affermato che
 il richiamo de quo non riguarda  la  sola  lettera  c)  ma  tutte  le
 ipotesi  contemplate  nell'art. 20 legge n. 47/1985, giacche' "... il
 legislatore non ha voluto inserire alcun puntuale richiamo alle varie
 lettere  dell'art.   20,   lasciando   tale   compito   all'attivita'
 interpretativa del giudice".
   La  conseguenza e' che giudici diversi potrebbero applicare a fatti
 diversi le stesse sanzioni ed agli  stessi  fatti  sanzioni  diverse,
 unica  essendo la norma penale incriminatrice contenente il precetto,
 ma varie (e variamente interpretabili: la decisione citata ne  e'  un
 esempio) le sanzioni.
   Il  secondo  profilo  attiene  al  contrasto fra la disposizione in
 esame e l'art. 9, secondo comma, della Costi-tuzione.
   La sentenza n. 239 del 1982 della Corte costituzionale, di  cui  si
 e'  riportato un passo significativo, aveva con chiarezza evidenziato
 come  il  fondamento  costituzionale   della   tutela   paesaggistica
 implicasse  la  legittimita'  esclusivamente di quei regimi di tutela
 che di tale fondamento estetico-culturale tenessero conto, o, meglio,
 che ad esso preordinassero il loro contenuto ed il loro scopo.
   Ora, non puo' dirsi che l'art. 1-sexies della  legge  n.  431/1985,
 nel  colpire  con  la sanzione penale anche gli interventi di cui sia
 stata accertata - con autorizzazione sopravvenuta - la compatibilita'
 con i valori estetico-culturali del bene su cui  insistono,  persegua
 una finalita' di tipo paesaggistico, nel senso ora visto.
   L'equivoco  di fondo che consente la sopravvivenza di questa palese
 violazione  della  Carta  fondamentale  nasce,  forse,  per   effetto
 dell'aggiunta   dell'aggettivo  ambientale  alla  nozione  di  tutela
 paesaggistica: il metodo generalizzante  utilizzato  dal  legislatore
 della  legge  n.  431/1985  per individuare i beni paesaggisticamente
 rilevanti avrebbe avuto l'effetto, secondo  tale  prospettazione,  di
 mutare   i  connotati  (e  la  natura)  della  tutela  in  questione,
 consentendo l'utilizzazione dei relativi  strumenti  (anche)  per  la
 protezione di una non meglio definita nozione di ambiente.
   Questa conclusione non puo' essere accolta.
   In primo luogo perche' la nozione di ambiente, da un punto di vista
 giuridico,  ha  valore puramente convenzionale, indicando il fenomeno
 della compresenza in un medesimo spazio fisico  di  diversi  elementi
 materiali,  a  ciascuno  dei  quali  corrisponde una tutela giuridica
 differenziata in ragione non gia' (o non solo) delle  caratteristiche
 ontologiche  di  ogni  singolo  elemento,  ma  piuttosto  del profilo
 dell'interesse ad esso  afferente  (la  riferita  impostazione  della
 dottrina e' accolta da Corte cost., n. 239 del 1982).
   In secondo luogo, perche' mai una legge ordinaria che modificasse i
 criteri di individuazione dei beni tutelati potrebbe mutare l'oggetto
 della tutela siccome individuato dalla Costituzione.
   L'accertamento  del  carattere  estetico-culturale  puo',  in altre
 parole, essere condotto in tutte le forme che la discrezionalita' del
 legislatore ritenga di individuare, ma deve pure  esserci,  affinche'
 siano   legittimamente  esercitate  le  potesta'  -  compresa  quella
 punitiva - finalizzate (soltanto) alla tutela di tale valore.
   L'estensione, operata dal legislatore ordinario sul presupposto  di
 una  temporaneita'  rimasta  ormai  lettera morta, degli strumenti di
 tutela paesaggistica a beni (e ad interventi su beni) privi  di  tale
 carattere,  e  per  finalita' ad esso estranee (il controllo dell'uso
 del territorio, o di parti di esso), non autorizza ad  affermare  una
 pretesa  evoluzione  della materia del paesaggio verso gli incerti (e
 in realta' inesistenti) confini della nozione giuridica di  ambiente,
 implicando  semmai  -  ove  si ritenesse, appunto, che i vincoli e le
 sanzioni   dettati   dalla   disciplina   paesaggistica    colpiscano
 fattispecie    in    cui    difetta,   rispettivamente,   il   pregio
 estetico-culturale ovvero  la  lesione  di  esso  -  l'illegittimita'
 costituzionale,  per  violazione  dell'art.  9,  secondo comma, della
 Costituzione delle relative disposizioni della legge ordinaria.
   Il  profilo di illegittimita' costituzionale ora indicato determina
 una importante conseguenza.
   Chiarita la natura del bene tutelato  dalla  norma  incriminatrice,
 che  non  e'  dunque  l'integrita'  del tessuto ambientale (tutelata,
 nelle sue diverse componenti, dalla disciplina urbanistica, da quella
 sull'inquinamento, ecc.)  ma  il  patrimonio  estetico-culturale  del
 paese,   occorre   verificare  le  implicazioni  della  ricostruzione
 giurisprudenziale della fattispecie criminosa in  esame  nei  termini
 descritti dalle richiamate decisioni della Corte di cassazione.
   Non  puo'  non rilevarsi una irragionevolezza della disposizione in
 esame, nella parte  in  cui  sottopone  alla  medesima  sanzione  sia
 l'ipotesi  di esecuzione di un'opera priva di autorizzazione (perche'
 non richiesta o per essere l'opera  medesima  non  assentibile),  sia
 quella in cui l'opera eseguita sia stata successivamente autorizzata.
   La  precedente  pronunzia  di  rigetto non presenta, sul punto, una
 motivazione particolarmente approfondita.
   La giurisprudenza della Corte di cassazione  citata  allega  invece
 motivazioni  del  tutto  formalistiche,  fondate  su un parallelo fra
 autorizzazione  paesaggistica  e  concessione   edilizia   che   pare
 improponibile,  attesa la profonda differenza strutturale dei vincoli
 che ciascuno di tali provvedimenti e'  chiamato  a  rimuovere  (Corte
 costituzionale,   sentenza  n.  56  del  1968),  e  prima  ancora  la
 diversita' delle materie -  e  dei  relativi  principi  -  cui  detti
 provvedimenti  afferiscono "...  diversita di scopi, di presupposti e
 di oggetto..." evidenziata peraltro nella sentenza n.  269  del  1993
 della Corte costituzionale).
   La  sopravvenienza dell'autorizzazione, se non e' tale da escludere
 la messa in pericolo del bene tutelato (sia pure con tutte le riserve
 fin qui espresse in ordine alla sussistenza di questo), pur  tuttavia
 ne  esclude  certamente  la  lesione.  Ne consegue che il trattamento
 sanzionatorio risulta il medesimo,  pur  in  presenza  di  una  cosi'
 rilevante   difformita'   delle  modalita'  di  aggressione  al  bene
 tutelato. Se cio' si riveli ancora giustificato e  giustificabile  in
 considerazione  dell'asserito  carattere temporaneo della disciplina,
 ovvero della fiducia nell'intervento riequilibratore del legislatore,
 e' questione ormai di agevole soluzione.
   La configurazione del reato in esame  come  reato  di  pericolo,  e
 precisamente di pericolo astratto o presunto, anche in considerazione
 delle   argomentazioni   fin  qui  sviluppate  con  riferimento  alle
 difficolta' di individuazione del bene tutelato, pone un problema  di
 compatibilita' con il principio di necessaria offensivita' del reato,
 desumibile dal plesso normativo costituito dagli artt. 3, 25, 27 e 13
 della Costituzione.
   La  teorica  dell'offensivita' del reato si fonda, come e' noto, su
 diversi percorsi ermeneutici.
   Da un lato si ritiene che gli artt. 25 e 27 della Costituzione, nel
 prevedere come conseguenze della violazione della  legge  penale  una
 duplice  tipologia  di  sanzioni,  in funzione del tipo di violazione
 (nel senso di escludere l'applicazione della pena ai  fatti  di  mera
 disubbidienza), impedirebbero la punibilita' (ma non l'irrogazione di
 misure di sicurezza) dei fatti inoffensivi.
   D'altro   canto  si  sostiene  che  il  sacrificio  della  liberta'
 personale, garantita  dall'art.  13  della  Costituzione,  non  possa
 ammettersi se non per l'esigenza di tutelare un concreto interesse.
   Quale  che  sia l'impostazione preferibile, la dottrina concorda su
 di un punto: il principio di necessaria offensivita' del  reato  puo'
 subire deroghe, laddove sia necessario anticipare la tutela sino alla
 soglia  della  astratta  pericolosita' in considerazione della natura
 del bene, salvo pero' a  recuperare  sul  piano  della  tipicita'  il
 deficit di lesivita' delle condotte incriminate.
   Al  contrario  la normativa in esame si rivela estremamente carente
 sotto questo profilo,  sia  con  riferimento  al  precetto  che  alla
 sanzione.
   Il  rischio  e'  che  la  limitazione  del  bene  inviolabile della
 liberta' personale non avvenga,  nella  materia  de  qua  agitur,  in
 un'ottica   di   bilanciamento   degli  interessi  costituzionalmente
 protetti, ma piuttosto nella prospettiva di una funzione promozionale
 del diritto penale, evocata  dalla  giurisprudenza  della  Cassazione
 citata  in  precedenza,  al  punto che, al di la' dell'affermazione o
 meno della sua incostituzionalita', v'e'  da  chiedersi  quanto  tale
 regime sia di effettivo giovamento alla tutela del bene protetto.
   Si  consideri  che,  in  tale  ottica,  si  finirebbe per punire in
 maniera  sproporzionata  all'effettiva   lesivita'   della   condotta
 criminosa, con lesione anche del finalismo rieducativo della sanzione
 criminale,  che  impone la comminatoria di pene adeguate al disvalore
 sociale delle fattispecie illecite.  Inoltre,  si  ponga  mente  alla
 circostanza  che,  laddove  un  danno  ambientale si sia verificato e
 risulti applicabile la norma di cui all'art. 734 c. p.,  il  soggetto
 verrebbe  sanzionato  con una pena che potrebbe risultare inferiore a
 quella comminabile al soggetto che ha posto in  essere  una  condotta
 che,  seppur  formalmente  priva  dei  requisiti di legge, appare, in
 concreto,  tutt'affatto   sfornita   delle   caratteristiche   lesive
 dell'interesse   giuridico   tutelato,   proprie   del  comportamento
 sanzionato dall'art.  734  c.  p.,  con  evidente  conflitto  con  il
 principio   di  eguaglianza  sostanziale  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art. 3 della Costituzione.