IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 2037 del 1996,
 proposto da Primaverile Antonio,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.
 Antonio Fusca', per il presente giudizio elettivamente domiciliato in
 Catanzaro,  alla  via  dei  Bizantini,  presso  lo  studio  dell'avv.
 Maurizio  Arabia, contro, il questore di Vibo Valentia, rappresentato
 e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato  di  Catanzaro  per
 l'annullamento  del  decreto  emesso dal questore di Vibo Valentia in
 data 2 luglio 1996 e notificato il successivo 8 luglio, con il  quale
 veniva  revocata  la  licenza  di  porto  di  fucile  rilasciata  dal
 commissariato di P.S. di Vibo Valentia il 22 settembre 1994;  nonche'
 di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguenziale;
   Visto il ricorso con i relativi allegati;
   Visto  l'atto  di  costituzione  in  giudizio  dell'amministrazione
 resistente;
   Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno  delle  rispettive
 difese;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Relatore  alla  camera  di  consiglio del 12 dicembre 1996 il dott.
 Roberto Politti; uditi altresi l'avv. dello  Stato  Scaramuzzino  per
 l'amministrazione residente;
   Ritenuto in fatto ed in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   Espone   il  ricorrente  che  in  data  13  marzo  1996  il  figlio
 Primaverile Francesco veniva tratto in arresto con contestazione  del
 reato  di  detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti; al medesimo
 venivano  concessi  gli  arresti  domiciliari   presso   l'abitazione
 paterna.
   I  carabinieri  della  stazione  di  Briatico procedevano quindi al
 sequestro di talune armi di  pertinenza  del  ricorrente  Primaverile
 Antonio,  avuto  riguardo  alla  possibilita' che il figlio Francesco
 potesse abusarne durante la durata della misura restrittiva.
   Con provvedimento del 5 aprile 1996 il g.i.p. presso  il  tribunale
 di Roma revocava gli arresti domiciliari.
   Il  successivo 27 giugno l'odierno ricorrente rivolgeva al prefetto
 di Vibo Valentia istanza di  dissequestro  delle  armi  dal  medesimo
 legittimamente detenute.
   Avverso  l'impugnato  provvedimento  -  con  il  quale  la predetta
 autorita', in luogo di accedere alla predetta  richiesta,  ha  invece
 disposto  la  revoca  della  licenza di porto di fucile rilasciata al
 Primaverile Antonio nel 1994 - vengono dedotti i seguenti profili  di
 censura:    Violazione  di  legge. Carenza di motivazione. Eccesso di
 potere, illogicita' manifesta.
   Illustra in proposito il ricorrente  come  nell'atto  adottato  dal
 questore  di  Vibo  Valentia  sarebbe  stata operata una non corretta
 interpretazione delle disposizioni di cui agli  artt.  11  e  43  del
 testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (approvato con r.d.  18
 giugno  1931  n.  773),  nella  parte  in  cui  viene disciplinata la
 revocabilita' del gia' rilasciato porto d'armi.
   Contesta l'interessato che, fuori  dall'ipotesi  del  ricorrere  di
 condanna penale, possa essere configurata nella fattispecie all'esame
 la  possibilita' che il titolare della licenza non dia affidamento di
 abusare delle armi (contemplata dall'ultimo comma del menzionato art.
 43).
   Osserva infatti il ricorrente come il provvedimento  in  esame  sia
 stato  giustificato  dalla  sola  circostanza  della coabitazione del
 medesimo con il figlio Francesco, condannato dal  tribunale  di  Roma
 per detenzione di sostanze stupefacenti con sentenza del 16 settembre
 1996  (reato  che  non  rientra,  peraltro, nella casistica contenuta
 nelle disposizioni in precedenza richiamate).
   Nel  rilevare  come   l'intervenuta   cessazione   della   predetta
 coabitazione   abbia   comunque   determinato  il  venir  meno  della
 circostanza  sulla  quale  e'  fondato   l'impugnato   provvedimento,
 conclude  la  parte  ricorrente  insistendo  per  l'accoglimento  del
 gravame ed il conseguente annullamento del censurato atto.
   L'ammistrazione resistente, costituitasi in giudizio,  ha  eccepito
 l'infondatezza  delle  esposte  doglianze, invocando la reiezione del
 gravame.
   La domanda  di  sospensione  dell'esecuzione  dell'atto  impugnato,
 dalla  parte  ricorrente  proposta  in  via  incidentale, e' stata da
 questo tribunale accolta con ordinanza pronunziata in pari data.
   Il ricorso viene ritenuto per la decisione alla camera di consiglio
 del 12 dicembre 1996.
                             D i r i t t o
   1. - l'impugnato provvedimento in data 2 luglio 1996 - con il quale
 il questore di Vibo Valentia ha  revocato  la  licenza  di  porto  di
 fucile  rilasciata in favore del ricorrente Primaverile Antonio il 22
 settembre 1994 dal commissariato di P.S. del predetto capoluogo -  e'
 motivato con riferimento alla coabitazione del citato soggetto con il
 figlio  Francesco,  "detenuto  agli arresti domiciliari con ordinanza
 emessa dal tribunale di  Roma,  perche'  responsabile  del  reato  di
 detenzione  e  spaccio  di sostanze stupefacenti" ed alla conseguente
 valutazione, operata dall'autorita' emanante, che quest'ultimo "possa
 abusare delle armi detenute legalmente dal padre".
   Le disposizioni nella fattispecie applicate dal  questore  di  Vibo
 Valentia  sono  contenute  negli  artt. 11 e 43 del testo unico delle
 leggi di pubblica sicurezza (approvato con r.d.  18  giugno  1931  n.
 773).
   Il primo dei menzionati articoli di legge prevede (conuni III e IV)
 che  "le  autorizzazioni  di  polizia  possono essere negate a chi ha
 riportato condanna per delitti contro la personalita' dello  Stato  o
 contro  l'ordine  pubblico,  ovvero  per  delitti  contro  le persone
 commessi con violenza, o per furto, rapina, estorsione, sequestro  di
 persona  a  scopo  di  rapina  o  di  estorsione,  o  per  violenza o
 resistenza all'autorita', e a chi  non  puo'  provare  la  sua  buona
 condotta",  ulteriormente  disponendosi che "le autorizzazioni devono
 essere revocate quando nella persona autorizzata vengono  a  mancare,
 in  tutto  o  in  parte, le condizioni alle quali sono subordinate, e
 possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono  a  risultare
 circostanze  che  avrebbero  imposto  o  consentito  il diniego della
 autorizzazione".
   Il successivo  art.  43,  nel  contemplare  talune  fattispecie  di
 condanna  penale,  al ricorrere delle quali non puo' essere conceduta
 la licenza di portare  armi,  prevede  altresi'  (ultimo  comma)  che
 siffatta  licenza  possa  essere  ricusata  ai condannati per delitto
 diverso da quelli sopra menzionati e a chi non possa provare  la  sua
 buona condotta o non dia affidamento di non abusare delle armi.
   2.  -  Cosi' individuato il quadro normativo di riferimento ai fini
 della delibazione della sottoposta vicenda  contenziosa,  ritiene  il
 tribunale   che   la   controversia   non   possa   essere   definita
 indipendentemente  dalla  previa  sottoposizione   al   giudizio   di
 legittimita'  costituzionale  delle illustrate previsioni di cui agli
 artt. 11 e 43 del T.U.L.P.S., nella  parte  in  cui  consentono  alla
 pubblica  autorita'  di  disporre  la revoca della licenza di portare
 armi nei confronti di soggetti  che  non  diano  affidamento  di  non
 abusare delle armi.
   La   rilevanza   della   questione  che  questo  tribunale  intende
 sottoporre al giudizio della Corte costituzionale  appieno  viene  in
 considerazione  dal  momento  che  il provvedimento nella fattispecie
 impugnato si fonda  appunto  sull'asserita  presenza  dell'illustrata
 circostanza: al ricorrere della quale il questore di Vibo Valentia ha
 disposto  la  revoca  della  licenza di porto di fucile in precedenza
 rilasciata al ricorrente Primaverile Antonio.
   Il presupposto tenuto  presente  dall'autorita'  emanante  vieppiu'
 rileva   ove  si  tenga  conto  che,  secondo  quanto  esposto  nella
 motivazione del provvedimento impugnato, il  soggetto  per  il  quale
 viene  manifestato  il  convincimento  circa la possibilita' di abuso
 delle armi non e' il titolare della licenza,  ma  il  figlio  con  il
 medesimo convivente.
   Tale  elemento  di  fatto consente di argomentare, con carattere di
 assorbente  e  preliminare  pregnanza  rispetto  alla  configurazione
 normativa  delle  anzidette  previsioni,  come  esse  comportino  una
 nozione  "estesa"  -  quanto  "indeterminata"  -  della   fattispecie
 sostanziata  dall'"idoneita'  all'abuso  delle  armi" suscettibile di
 essere interpretata (come comprovato dal provvedimento in esame)  con
 riferimento  non  gia'  alla  sola  persona (rectius: alle qualita' e
 condizioni personali) del titolare dell'autorizzazione di polizia, ma
 anche ad altri soggetti ad esso legati da rapporti di parentela o  di
 mera convivenza.
   Proprio  l'applicazione  che il questore di Vibo Valentia ha inteso
 operare con riferimento alle  illustrate  disposizioni  di  cui  agli
 artt. 11 e 43 del T.U.L.P.S. - e nell'ambito dell'ampio apprezzamento
 che   tali  disposizioni  consentono  -  induce  questo  tribunale  a
 dubitarne della  legittimita'  costituzionale:  avuto  riguardo  alla
 presenza  di  un'indicazione  a "fattispecie generica" (quali appunto
 "il mancato affidamento di non abusare delle armi") la quale ben puo'
 indurre, in assenza di  sicuri  parametri  di  riferimento,  ricadute
 applicative idonee a vulnerare posizioni giuridiche garantite a tutti
 i cittadini dalla Carta costituzionale.
   3.  -  Non puo' non darsi preliminarmente atto della presenza di un
 costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in base al
 quale viene riconosciuto all'esercizio del  potere  attribuito  dalle
 disposizioni   in   esame   un'ampia   latitudine   di  discrezionale
 apprezzamento, la cui  sindacabilita'  nell'ambito  del  giudizio  di
 legittimita'  viene  ad  essere,  per  l'effetto,  significativamente
 limitata.
   Tale convincimento e' stato ribadito anche da una recente decisione
 del Consiglio di Stato (sez. IV, 17 luglio 1996 n. 858), il quale  ha
 rilevato  come  le  misure  di polizia abbiano carattere preventivo e
 perseguano finalita' di prevenire  la  commissione  di  reati  e,  in
 generale,   di   fatti   lesivi  della  pubblica  sicurezza;  con  la
 conseguenza che, in base agli artt. 11 e  43  del  regio  decreto  n.
 773/1931, per la revoca della licenza di porto d'armi non si richiede
 che  vi sia stato un oggettivo ed accertato abuso delle armi, essendo
 sufficiente che il soggetto non dia affidamento di non abusarne sulla
 base di circostanze oggettive.
   Con  riserva  di  successiva disamina in ordine alla configurazione
 della "oggettivita'" delle circostanze  di  che  trattasi  -  la  cui
 presenza  non  viene  in  alcun  modo  richiesta, ne' postulata dalle
 disposizioni all'esame - va fin d'ora osservato come gli orientamenti
 maturati  in  giurisprudenza  confortino  la   presenza   di   ambiti
 valutativi  in  capo alla pubblica amministrazione significativamente
 estesi: a fronte dei quali, come in precedenza accennato, le concrete
 possibilita' di sollecitazione del sindacato  giurisdzionale  vengono
 corrispondentemente a restringersi.
   Con  particolare  riferimento  alla disposizione di cui all'art. 39
 del regio decreto n. 773/31 - che riguarda la possibilita' di inibire
 la detenzione di armi, munizioni e materie esplodenti  nei  confronti
 dei  soggetti  che,  analogamente  a  quanto  previsto  dall'art. 43,
 vengano  ritenute  capaci  di  abusarne  -  e'  infatti  maturato  un
 convincimento  che  attribuisce  all'Amministrazione  un ampio potere
 discrezionale,  la  cui   sindacabilita'   ad   opera   del   giudice
 amministrativo   transita   attraverso  la  rilevabile  emersione  di
 determinazioni manifestamente illogiche e irrazionali (T.A.R.  Lazio,
 sez.  I,  30  giugno 1982 n.  685; T.A.R. Toscana, 19 ottobre 1984 n.
 1237; T.A.R. Lazio, sez.  I, 22 maggio 1985  n.  618;  T.A.R.  Emilia
 Romagna,  9 settembre 1986 n. 494), ovvero di una carenza assoluta di
 motivazione (T.A.R. Lazio, sez.  I,  30  novembre  1992  n.  1530,  9
 ottobre 1993 n. 1444 e 2 novembre 1993 n. 1542).
   Anche  per  quanto  concerne la necessaria ostensione dell'apparato
 giustificativo (che, per effetto dell'art. 3  della  legge  7  agosto
 1990  n. 241, e' ora presidiata da un espresso obbligo normativo), e'
 stato  affermato  che  la  legge,  ai  fini   dell'adozione   di   un
 provvedimento  negativo  di rinnovo di licenza di licenza di porto di
 fucile, non richieda una puntuale motivazione circa la sussistenza di
 elementi che escludano l'affidabilita' di un soggetto nell'uso  delle
 armi   addirittura   escludendosi   l'esigenza   di  una  motivazione
 particolarmente   penetrante,   che    finirebbe    con    l'incidere
 negativamente   sul   destinatario  del  provvedimento,  arrecandogli
 nocumento, senza idonee garanzie procedimentali (T.A.R.  Toscana,  21
 novembre 1986 n. 1359).
   Quanto  alle  consistenza che devono assumere le circostanze atte a
 comprovare  l'"inaffidabilita'"  ai  fini   dell'applicazione   delle
 disposizioni    all'esame,   trovasi   ulteriormente   affermata   la
 legittimita' del diniego di rilascio della licenza di porto di fucile
 basato sull'affermazione che il richiedente non e' in grado  di  dare
 sufficiente  affidamento  di  fare  dell'arma  l'uso consentito dalla
 legge  (cioe'  di  non  abusarne)   in   considerazione   della   sua
 personalita' e della disistima che lo circonda (Cons. Stato, sez. IV,
 28 novembre 1972 n. 1165).
   Nell'osservare come il riferimento a labili ed ambigui parametri di
 giudizio  -  quali  integrati dall'estimazione sociale del soggetto o
 dalla considerazione nella quale il medesimo  viene  tenuto  (per  la
 valorizzazione  dei quali, cfr. anche T.A.R. Marche, 1 agosto 1985 n.
 282) - offra un ulteriore spunto per critiche riflessioni  in  ordine
 alla  compatibilita'  costituzionale  di  previsioni il cui contenuto
 appare  suscettibile  di  essere  delineato  da  una  indefinita   ed
 indeterminata  varieta' di elementi, va ulteriormente rammentato come
 la revocabilita' della licenza di portare armi nei confronti di colui
 il  quale  non  dia  affidamento  di non abusarne sia stata affermata
 escludendosi la  necessita'  che  i  fatti  ascritti  all'interessato
 costituiscano  reato  o  che la responsabilita' in ordine ad essi sia
 stata accertata con sentenza penale  di  condanna  (T.A.R.  Calabria,
 Catanzaro, 22 agosto 1991 n. 521).
   Le  giustificazioni  addotte  in  giurisprudenza  a  conforto di un
 orientamento che ha accentuato il  carattere  di  "norma  in  bianco"
 delle  disposizioni  all'esame  - con esso propiziando una (di fatto)
 incensurabile latitudine  determinativa  della  p.a.,  la  cui  ratio
 giustificativa  viene  individuata  in un apprezzamento svincolato da
 riscontrabili  ed  oggettivi  parametri  di  riferimento,   ma   piu'
 semplicemente  rimesso  alla  valutazione  dell'autorita'  di  P.S. -
 trovano  un  consapevole  (ma  per  questo  non   meno   discutibile)
 fondamento nel convincimento che siffatto potere si riveli in armonia
 con tutta la regolamentazione data alla materia.
   E'  ben vero che la detenzione di armi si caratterizza, da un lato,
 per una intrinseca pericolosita' e, dall'altro, per la mancanza o  la
 tenuita'  di un interesse socialmente apprezzabile, presente in altre
 attivita' pure soggette ad autorizzazione amministrativa.
   Cio'   nondimeno,   va   tuttavia   rilevato   come   la   concreta
 esercitabilita'  della  potesta'  repressiva  (che si sostanzia nella
 revoca del porto d'armi) debba comunque essere ricondotta  nell'alveo
 delle regole proprie di ogni potere discrezionale.
   E   postuli,   conseguentemente,   l'assolvimento  dell'obbligo  di
 motivazione, al quale accede l'esternazione delle  ragioni  che  sono
 alla  base  del  provvedimento  adottato  e  che  non  possono essere
 indicate  con  la  semplice  testuale   ripetizione   della   formula
 legislativa (cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 4 marzo 1985 n. 281).
   4.   -   Ma  anche  la  riaffermazione  delle  note  coordinate  di
 legittimita'   dell'esercizio    del    potere    amministrativo    -
 identificabili,  fra  l'altro,  nella presenza di un congruo apparato
 giustificativo e motivazionale che dia  piena    contezza,  in  fatto
 quanto  in  diritto,  delle  scelte operate dall'amministrazione - si
 rivela inidonea  a  garantire  la  piena  attuazione  delle  garanzie
 previste dall'ordinamento, ove il fondamento normativo della potesta'
 non  corrisponda - come nel caso in esame questo giudice ha motivo di
 ritenere - ai principi dettati da  talune  disposizioni  della  Carta
 costituzionale.
   Ben  e'  consapevole  il  tribunale  remittente  come, per costante
 giurisprudenza, la licenza di porto d'armi debba essere  intesa  come
 una  deroga  al  generale  divieto  posto  dall'ordinamento di girare
 armati e vada rilasciata solo nei  casi  di  effettiva  e  comprovata
 necessita'.
   Nondimeno,  l'esercizio  della  potesta'  di  revoca, impingendo in
 situazioni  giuridiche   soggettive   la   cui   espansione   riviene
 dall'adozione  di  un atto permissivo adottato dalla stessa autorita'
 pubblica, non puo' ritenersi legittimamente connesso allo svolgimento
 di unilaterali apprezzamenti i quali, per quanto rivolti a dimostrare
 l'affidabilita' del soggetto (in relazione  al  "corretto  uso  delle
 armi"),  finiscono  per atteggiarsi quale ricadute applicative di una
 fattispecie dispositiva a contenuto indeterminato.
   A  fronte  di  tale  tipologia  normativa  (ed  in  relazione  alle
 circostanze  invocabili  dall'amministrazione  procedente   ai   fini
 dell'esercizio  del  potere consentito dalle norme in discorso) viene
 ad emergere una limitata sindacabilita' del convincimento al riguardo
 espresso  dall'  autorita'  di  Pubblica  Sicurezza:  il  quale,  non
 necessariamente  tributario  di obiettivi e circostanziati riscontri,
 sfugge al giudizio di legittimita' ove  l'atto,  come  in  precedenza
 sottolineato, non si dimostri macroscopicamente inficiato.
   Tale   circostanza,   in   assenza   di  previsioni  normative  che
 configurino le concrete fattispecie in base alle quali  possa  essere
 espresso  il giudizio di "inaffidabilita'" consente una revocabilita'
 della licenza concretamente adottabile ad nutum:  potendo  essere  il
 presupposto  apprezzamento basato ora su mere informazioni di polizia
 (non confortate dalla necessaria ostensione di elementi e circostanze
 di fatto), ora su generiche  considerazioni  ostative  fondate  sulla
 diminuita  estimazione  e considerazione sociale del soggetto (la cui
 indimostrata   concludenza   appieno   rileva   ove   si    consideri
 l'eterogeneita' e la vaghezza di tale fondamento giustificativo).
   Va  a  questo  punto rammentato come codesta Corte, con sentenza n.
 440 del 2-16 dicembre 1993, ebbe a rilevare il contrasto degli  artt.
 11  e  43 del regio decreto n. 773/1931 con le previsioni di cui agli
 artt. 3 e 97 della Costituzione,  nella  parte  in  cui  l'originaria
 formulazione   delle  relative  disposizioni  postulava  in  capo  al
 richiedente il porto d'armi la presenza del  requisito  della  "buona
 condotta", ovvero poneva l'obbligo di dimostrazione di tale requisito
 a  carico  del soggetto vulnerato da un provvedimento di revoca della
 gia' rilasciata licenza.
   In tale circostanza  fu  osservato  come  "l'estrema  varieta'  dei
 criteri  in  grado  di pervenire ad un'operazione di riempimento e di
 conseguente  tipizzazione  del  requisito   della   buona   condotta"
 implicasse  "l'insorgere  di  zone di assoluta incertezza quanto alla
 verifica dei parametri sui quali  la  pubblica  amministrazione  deve
 attestarsi   nel   valutare  la  sussistenza  del  detto  requisito";
 ulteriormente  rilevandosi  come  -  interna  di  dimostrazione   del
 requisito  della  "buona  condotta" - si dimostrasse "intrinsecamente
 irragionevole addebitare all'interessato un onere che talora  neppure
 l'amministrazione  e'  in  grado di adempiere proprio per la varieta'
 dei parametri di verifica dai quali  puo'  scaturire  la  preclusione
 alla  realizzazione  di  posizioni  soggettive  di  cui il privato e'
 titolare".
   Siffatta "varieta'  dei  parametri  di  verifica"  e'  analogamente
 riscontrabile  anche per quanto riguarda i presupposti sulla base dei
 quali   un   soggetto   dell'ordinamento   puo'    essere    ritenuto
 "inaffidabile"  circa  l'uso delle armi: e, conseguentemente, privato
 della licenza gia' posseduta.
   E', ancora una volta analogamente, la dimostrazione  del  requisito
 della    "buona    condotta",    rispetto   alla   dimostrazione   di
 "affidabilita'" onde trattasi, appare rivelare  la  presenza  di  una
 ricaduta   concettuale   particolarmente   omogenea   ad  un  sistema
 istituzionale (quale quello fascista)  rispetto  al  quale  il  testo
 unico  delle  leggi  di  pubblica  sicurezza  rappresenta un corpo di
 disposizioni di coerente ispirazione repressiva,  all'interno  di  un
 complessivo ordito normativo precipuamente finalizzato ad esigenze di
 controllo  sociale  e  politico  dei  cittadini  (peraltro  all'epoca
 ristretti al rango di "sudditi").
   L'indeterminatezza   delle   disposizioni   dettate   ai  fini  del
 mantenimento dell'ordine e della  sicurezza  pubblici  -  nell'ambito
 delle quali le norme ora in esame rappresentano una tipica, ancorche'
 non  isolata,  esemplificazione dispositiva - appare, in tale ottica,
 particolarmente consona ad assolvere le funzioni che  il  legislatore
 dell'epoca   intendeva   perseguire  nel  definire  un  penetrante  e
 capillare strumentario di repressione delle liberta' fondamentali dei
 cittadini, al fine di mantenere, attraverso  l'amplissima  latitudine
 discrezionale  riconosciuta  all'esercizio  dei  poteri  facenti capo
 all'autorita'  di  pubblica  sicurezza,  un  autoritario   e   rigido
 controllo della societa'.
   Tale  esteso  -  e  tendenzialmente  incensurabile  - apprezzamento
 discrezionale, nelle sue concrete ricadute limitative sulla  liberta'
 dei   singoli,  non  appare  al  tribunale  remittente  ulteriormente
 compatibile con i principi ispiratori della Carta repubblicana.
   Va al riguardo dato atto delle affermazioni esplicitate dalla Corte
 costituzionale con la rammentata pronunzia n. 440/1993, in base  alle
 quale,  "se  e'  vero  che resterebbe preclusa la possibilita' che il
 potere discrezionale dell'amministrazione trasmodi  in  arbitrio  non
 soltanto  esaminando  la  progressiva  evoluzione giurisprudenziale e
 dottrinale che ha svincolato  la  nozione  di  buona  condotta  dalle
 incrostazioni     socio-politiche    caratterizzanti    il    sistema
 precostituzionale, tentando di storicizzarne  la  portata,  e'  anche
 vero   che   si   e'   trattato,   di   frequente,  di  un'operazione
 interpretativa priva di risultati favorevoli in  concreto,  rimanendo
 demandato  ai  soli  titolari  della potestas decidendi il compito di
 determinare  il  contenuto  dei  presupposti  e   imponendosi   cosi'
 all'interessato  un  prova  talora  diabolica  volta a contrastare la
 forza cogente".
   Nell'osservare, ancora una volta, come i principi  affermati  nella
 rammentata   pronunzia   rivelino   precipue  e  singolari  idoneita'
 applicative anche per quanto riguarda la previsione ora in esame,  va
 ulteriormente  ribadito come la genericita' del disposto normativo di
 che trattasi, nel consentire lo svolgimento di apprezzamenti  che  si
 risolvono  in  una  pratica  incensurabilita'  in sede giudiziale (in
 quanto privi di un concreto ed obiettivo fondamento di fatto, che  le
 disposizioni  in  esame non richiedono, ne' postulano in alcun modo),
 privi il cittadino di efficaci e reali strumenti di difesa,  inibendo
 la    possibilita'    di   un   concludente   ricorso   alla   tutela
 giurisdizionale: il cui esercizio  rischia,  proprio  in  conseguenza
 dell'assenza  di  parametri  di  riferimento, di arrestarsi di fronte
 alla rilevata  carenza  di  clamorose  (e  percio'  stesso  limitate)
 fattispecie  inficianti  sub  specie  della  manifesta illogicita' ed
 incongruita' determinativa, del travisamento dei fatti, ovvero  della
 assoluta carenza motivazionale.
   Nel  mutuare,  ancora  una volta, i principi ermeneutici da codesta
 Corte esemplarmente esplicitati nella ripetuta pronunzia n. 440/1993,
 va rilevato come, per effetto  della  mancata  predeterminazione  dei
 "canoni  cui  la  pubblica autorita' deve uniformarsi", nonche' degli
 "schemi attraverso i quali il  privato  e'  posto  in  condizione  di
 ribaltare  la  detta  valutazione",  sussista  sempre, "per un verso,
 un'ampia possibilita' di abuso dell'organo decidente, solo  in  parte
 ovviabile  attraverso  l'accesso  alla  giurisdizione;  e,  per altro
 verso, la necessita' per il privato di addurre elementi  dimostrativi
 in  grado  di  superare  il  giudizio  negativo  formulato  nei  suoi
 confronti e di cui non sempre e' posto in condizione di disporre".
   5. - Ribadite le considerazioni svolte ai precedenti punti,  dubita
 pertanto  il  tribunale  che  le  rammentate disposizioni di cui agli
 artt. 11 e 43 del r.d. 18 giugno 1931 n. 773  rivestano  i  caratteri
 della  legittimita' costituzionale - segnatamente per quanto concerne
 la compatibilita' con le previsioni di cui agli artt. 2, 3 e 97 della
 Costituzione - nella parte in cui consentono alla pubblica  autorita'
 di  revocare  la  licenza  di  portare armi nei confronti di colui il
 quale non dia affidamento di non abusare delle  armi;  per  l'effetto
 valutandosi  l'esigenza, in relazione alla non manifesta infondatezza
 ed alla rilevanza della relativa questione, di devolverne d'ufficio -
 ai sensi degli artt. 11 legge cost. 9 febbraio 1948 n.1 e 23 legge 11
 marzo 1953 n. 87 - l'esame alla Corte costituzionale.
   In particolare, rileva il giudice remittente che le ripetute  norme
 del regio decreto n. 773/1931 appaiono porsi in contrasto:
      con   l'art.  2  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  la
 Repubblica riconosce e garantisce lo svolgimento  della  personalita'
 dell'individuo  sia  uti  singulus,  sia all'interno delle formazioni
 sociali delle quali faccia parte: al riguardo  osservandosi  come  la
 consentita  facolta'  di portare anni ben possa integrare, ancor piu'
 ove   preordinata   all'esercizio   dell'attivita'   venatoria,   una
 manifestazione  della  personalita' del cittadino, la cui estimazione
 sociale verrebbe inoltre ad essere gravemente vulnerata dall'adozione
 di un atto di revoca della licenza;
     con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui garantisce  a
 tutti i cittadini pari dignita' sociale ed eguaglianza di fronte alla
 legge,  altresi'  imponendo alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli
 che, limitando di fatto la liberta' e  l'eguaglianza  dei  cittadini,
 impediscono  il pieno sviluppo della persona umana; tale disposizione
 non  potendo  non  trovare  applicazione  in  presenza  di  posizioni
 giuridiche,   delle   quali   si   rivelino   portatori   i  soggetti
 dell'ordinamento,  aventi  contenuto   anche   meramente   oppositivo
 (relativamente  ai  provvedimenti  con  i  quali l'autorita' pubblica
 revochi la gia' rilasciata autorizzazione);
     con l'art. 97  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  viene
 imposto  all'amministrazione  di operare secondo canoni improntati al
 buon andamento ed alla correttezza; la vulnerazione di tale principio
 venendo a configurarsi, con ogni evidenza, attraverso  la  consentita
 adottabilita' di provvedimenti che, lungi dall'essere necessariamente
 fondati  su  presupposti  e circostanze certi e dimostrabili, possano
 consentire l'adozione di  determinazioni  permeate  da  caratteri  di
 arbitrarieta',  propiziando  la consolidazione di abusi a danno delle
 posizioni giuridiche  soggettive  delle  quali  siano  legittimamente
 portatori i soggetti dell'ordinamento.
   Considerata  dunque  la  non  manifesta infondatezza - ai sensi dei
 richiamati artt. 2, 3 e 97 della Costituzione - nonche' la  rilevanza
 della  questione  (atteso  che  la  presente  vicenda  contenziosa e'
 insuscettibile di essere decisa indipendentemente  dalla  valutazione
 della compatibilita' costituzionale del ripetuto disposto di cui agli
 artt.  11  e  43 del T.U.L.P.S.), determina il Tribunale di rimettere
 all'esame della Corte  costituzionale  il  giudizio  di  legittimita'
 delle   anzidette  previsioni,  nella  parte  in  cui  consentono  la
 revocabilita' della licenza  di  portare  armi  laddove  il  soggetto
 interessato non dia affidamento di non abusare delle armi.
   La   rimessione   dell'esposta   questione  all'esame  della  Corte
 costuzionale impone, a termini di legge, di disporre  la  sospensione
 del presente giudizio.