ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei  giudizi  di legittimita' costituzionale degli artt. 1, 5, 6, 12,
 17, comma 1 - in relazione agli artt.  22-38  e  129  del  d.P.R.  22
 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui
 redditi)  e  agli  artt.  1  e  3 del d.-l. 30 settembre 1992, n. 394
 (Disposizioni  concernenti  la  istituzione  di   una   imposta   sul
 patrimonio  netto  delle  imprese),  convertito  in legge 26 novembre
 1992, n. 461 - e 18 del d.lgs. 30 dicembre  1992,  n.  504  (Riordino
 della  finanza  degli enti territoriali a norma dell'articolo 4 della
 legge 23 ottobre 1992, n. 421), promossi con ordinanze  emesse  il  7
 novembre 1995 dalla Commissione tributaria di primo grado di Livorno,
 l'11 gennaio 1996 e il  9 novembre 1995 dal TAR dell'Abruzzo, Sezione
 staccata  di  Pescara, rispettivamente iscritte ai nn. 63, 460 e  461
 del registro ordinanze 1996 e  pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale
 della Repubblica nn. 7 e 21, prima serie
  speciale, dell'anno 1996;
   Visti  gli atti di costituzione della Alleanza Assicurazioni s.p.a.
 e della Associazione della proprieta'  edilizia  della  provincia  di
 Chieti,  nonche'  gli atti di intervento del Presidente del Consiglio
 dei Ministri;
   Udito  nell'udienza  pubblica  del  26  novembre  1996  il  giudice
 relatore Massimo Vari;
   Uditi  gli  avvocati  Nicoletta Dolfin per l'Alleanza Assicurazioni
 s.p.a., Giovanni  Pitruzzella  per  l'Associazione  della  proprieta'
 edilizia  della  Provincia  di  Chieti e l'avvocato dello Stato Carlo
 Salimei per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1.1.  -  Nel  corso  di  un  giudizio   promosso   dalla   Alleanza
 Assicurazioni  s.p.a.  contro  l'Amministrazione  delle  finanze, per
 l'impugnativa del silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di rimborso
 dell'imposta comunale sugli immobili, versata  dalla  ricorrente  per
 l'anno 1993, la Commissione tributaria di primo grado di Livorno, con
 ordinanza  emessa  il  7  novembre  1995  (r.o.  n.  63 del 1996), ha
 sollevato questione  di  legittimita'  costituzionale  di  molteplici
 disposizioni  contenute  nel decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.
 504  (Riordino  della  finanza  degli  enti  territoriali   a   norma
 dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).
   1.2. - Le questioni sollevate riguardano, in primo luogo, gli artt.
 1  e 5, la cui legittimita' costituzionale viene posta in dubbio, per
 violazione degli artt. 3, 42, terzo comma, e 53  della  Costituzione.
 In  relazione  al  primo  parametro,  l'ordinanza  reputa  del  tutto
 irrazionale e  contrastante  con  i  principi  di  uguaglianza  e  di
 capacita'   contributiva  l'istituzione  di  un'imposta  patrimoniale
 ordinaria avente ad oggetto i soli immobili posseduti, ossia una sola
 componente del patrimonio del soggetto passivo,  si'  da  creare  una
 palese  disparita'  di  trattamento tra i cittadini, a seconda che il
 loro patrimonio sia o meno costituito (in prevalenza o in  tutto)  da
 tale categoria di beni.
   Al tempo stesso viene lamentata la violazione degli artt. 42, terzo
 comma,  e  53  della  Costituzione,  e  in particolare la lesione del
 principio  di  capacita'  contributiva,  giacche'   la   legge,   nel
 determinare  (art.   5) la base imponibile, con riferimento al valore
 degli immobili, non terrebbe conto delle eventuali passivita' che  il
 proprietario  ha dovuto contrarre per acquistare o costruire il bene,
 assumendo percio' quale manifestazione di capacita'  contributiva  un
 indice solo fittizio di ricchezza.
   1.3.  -  I commi 2 e 7 del medesimo art. 5 formano del pari oggetto
 di denuncia, in riferimento agli artt. 3  e  53  della  Costituzione,
 quanto  ai  criteri  per  la  determinazione  della  base imponibile,
 individuata attraverso moltiplicatori fissi da applicare alle rendite
 catastali.  Secondo l'ordinanza tali criteri violano il principio  di
 effettivita'  della capacita' contributiva e quello di ragionevolezza
 in ragione della elevatezza dei moltiplicatori, della  vincolativita'
 e/o  incontrovertibilita'  dei valori cosi' ottenuti, come pure della
 illogicita' ed irrazionalita'  insite  nella  mancata  previsione  di
 correttivi  in relazione al regime vincolistico di determinazione del
 canone di locazione.
   1.4.  -  Viene,  inoltre,   posta   in   dubbio   la   legittimita'
 costituzionale   di  altre  due  disposizioni  dello  stesso  decreto
 legislativo n. 504 del 1992, e cioe' dell'art.  6  nonche'  dell'art.
 17,  comma  1, "combinato con i disposti" degli artt. 22-38 e 129 del
 t.u. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione  del  testo  unico  delle
 imposte sui redditi) e degli artt. 1 e 3 del d.-l. 30 settembre 1992,
 n.  394  (Disposizioni  concernenti la istituzione di una imposta sul
 patrimonio netto delle imprese), convertito, con modificazioni, nella
 legge 26 novembre 1992, n.  461,  osservando  che  la  previsione  di
 un'aliquota  oltremodo  elevata  e  la  indetraibilita'  del  tributo
 dall'imponibile della  imposta  personale  sul  reddito  si  combina,
 oltretutto,  con  ulteriori  imposte  che  colpiscono pesantemente il
 reddito  e  il  patrimonio  immobiliare,   comportando   un   effetto
 espropriativo in violazione degli artt. 42 e 53 della Costituzione.
   1.5. - Sotto il profilo dell'eccesso di delega, risulta denunciato,
 poi,  l'art.  18,  comma  3,  che,  nell'attribuire, per l'anno 1993,
 all'amministrazione finanziaria la potesta' impositiva in materia  di
 ICI,  prevede  che essa operi in virtu' delle vigenti disposizioni in
 tema di accertamento,  riscossione  e  sanzioni  agli  effetti  delle
 imposte  erariali  sui  redditi.    Al  riguardo  si  osserva  che il
 legislatore delegante aveva attribuito la potesta' di imposizione  in
 materia  di  ICI al comune, contemplando, per le violazioni, sanzioni
 soltanto amministrative piuttosto tenui, come  risulta  dall'art.  4,
 lettera a), numeri 14 e 15 della legge n. 421 del 1992.
   1.6.  -  Forma,  infine,  oggetto  di censura, per violazione degli
 artt. 3, 24, 113  e  53  della  Costituzione,  l'art.  12,  il  quale
 prevede,  anche  in  presenza  di  opposizione  all'accertamento,  la
 riscossione coattiva immediata delle somme liquidate dal  comune  per
 imposta,  sanzioni  ed interessi. Secondo l'ordinanza, la riscossione
 immediata ed integrale dell'intero carico  tributario  nonche'  della
 totalita'  delle  sanzioni  irrogate,  stravolgerebbe  in  radice  il
 principio generale, da tempo  radicato  nell'ordinamento  tributario,
 secondo  il  quale,  in  presenza  di  un  atto  di  impugnazione del
 contribuente, l'ente impositore procede alla riscossione  graduale  e
 frazionata  delle  imposte accertate, nonche' dei relativi interessi,
 rinviando le sanzioni.
   2. - E' intervenuto in giudizio il  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri,   rappresentato   dall'Avvocatura   generale  dello  Stato,
 chiedendo  che  le  questioni  vengano  dichiarate  inammissibili   e
 infondate.
   La difesa erariale, nel riportarsi alle pronunzie gia' emesse dalla
 Corte  e,  da  ultimo, alla sentenza n. 21 del 1996 (in tema di ISI),
 rileva che l'ICI e' una imposta a carattere patrimoniale la cui  base
 imponibile   e'   determinata  oggettivamente  partendo  dai  redditi
 catastali e che, pertanto, non puo' tenere conto dei costi sopportati
 per  acquisire  il  patrimonio  ne'  del  reddito  prodotto  (o   non
 prodotto).
   Quanto, poi, al denunciato eccesso di delega in cui sarebbe incorso
 l'art.  18,  l'Avvocatura  dello  Stato osserva che l'Amministrazione
 finanziaria, nel 1993,  ha  utilizzato  si'  i  mezzi  procedimentali
 stabiliti   per   le   imposte  dirette,  ma  secondo  la  disciplina
 sostanziale dell'ICI, quale risulta dal decreto  legislativo  n.  504
 del  1992. La questione, peraltro, sarebbe irrilevante nel giudizio a
 quo, il cui oggetto  riguarda  la  richiesta  di  rimborsi  di  somme
 regolarmente pagate senza applicazione di sanzioni.
   Anche la questione sulla asserita illegittimita' della disposizione
 dell'art.  12, oltre che essere irrilevante, in quanto, nella specie,
 la relativa riscossione e' avvenuta per versamento  diretto,  sarebbe
 comunque  infondata,  poiche' la regola della riscossione frazionata,
 peraltro  non  assoluta,  viene  applicata  sulla  parte dell'imposta
 liquidata in riferimento ad una base imponibile da accertare  secondo
 un  giudizio di valutazione economica, e non sulla parte dell'imposta
 riferita ai valori dichiarati o a valori  predeterminati,  come  sono
 appunto quelli catastali.
   3.  -  Si  e'  altresi'  costituito in giudizio il contribuente, il
 quale, premesso che le questioni sollevate sono state in  gran  parte
 dichiarate  inammissibili  dalla  Corte  con sentenza n. 263 del 1994
 soltanto per motivi procedurali, evidenzia anzitutto che l'ICI e' una
 imposta patrimoniale ordinaria e speciale gravante sul  valore  lordo
 del   patrimonio   del  soggetto  passivo  limitatamente  alla  parte
 costituita da beni di natura immobiliare; cio' sarebbe  in  contrasto
 con i principi affermati dalla Corte nelle sentenze nn. 159 del 1985,
 143  del  1995 e 21 del 1996, nelle quali la imposizione su patrimoni
 esclusivamente di natura immobiliare e'  stata  ritenuta  conforme  a
 Costituzione  in  virtu'  del  carattere  straordinario  e  del tutto
 temporaneo  dei  tributi  ivi  considerati,  come  pure   (nel   caso
 dell'imposta   straordinaria   sugli   immobili)   della  contestuale
 istituzione di un prelievo gravante sulle liquidita' finanziarie.
   Il fatto che la base imponibile prescinda del  tutto  da  eventuali
 passivita'  che  il proprietario ha dovuto contrarre per acquistare o
 costruire l'immobile,  comporterebbe  poi  un  contrasto  sia  con  i
 principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale in ordine alla
 necessita'  di  far  riferimento  ad  indici  effettivi  di capacita'
 contributiva (sentenza n. 69  del  1965),  sia  con  quelli  rilevati
 dall'analisi  della  disciplina  adottata  nella gran parte dei Paesi
 dotati di imposizioni  di  tipo  patrimoniale  sia,  infine,  con  la
 disciplina  positiva  di  tutti  i  tributi  a carattere patrimoniale
 introdotti in passato nel nostro ordinamento.
   Il criterio di determinazione della  base  imponibile,  consistente
 nella  utilizzazione  di  moltiplicatori  fissi  di entita' oltremodo
 elevata applicati alle rendite catastali, senza che sia consentito al
 contribuente di fornire la prova contraria di un  diverso  valore  in
 comune  commercio  del  bene,  si  porrebbe  in contrasto con l'unico
 sistema idoneo a dar garanzia dell'esistenza dell'effettiva capacita'
 contributiva del contribuente: quello, cioe', del valore  venale  del
 bene,  accolto,  del  resto,  dal legislatore nella stessa disciplina
 dell'ICI,  limitatamente  ad  alcune   specie   di   immobili   (aree
 edificabili, fabbricati demoliti o sottoposti a restauro), nonche' in
 quella  di  tutte le principali imposte sui trasferimenti (imposta di
 registro, imposta sulle successioni e donazioni, imposta ipotecaria e
 catastale).
   Atteso che il prospettato difetto della disciplina in esame sta nel
 non aver affiancato  al  criterio  di  determinazione  automatica  un
 meccanismo   di   presunzione   legale  relativa,  a  tale  vizio  di
 incostituzionalita' la Corte potrebbe porre rimedio con una pronuncia
 additiva.
   In conclusione, la mancata previsione  di  qualsivoglia  correttivo
 idoneo  a  tener  conto delle situazioni in cui la perdurante vigenza
 della disciplina vincolistica dell'equo canone comporti una  notevole
 depressione  del reddito e del valore dell'immobile; la previsione di
 un'aliquota   oltremodo    elevata;    l'indetraibilita'    dell'ICI;
 dall'imponibile    dell'imposta    sul    reddito;   la   compresenza
 nell'ordinamento  di  ulteriori tributi, che colpiscono il reddito ed
 il patrimonio immobiliare, sono  tutti  elementi  che  comportano  il
 "rastrellamento fiscale di una cifra superiore all'intero reddito del
 cespite",  con  la  conseguenza  di  incidere  sul  capitale in senso
 espropriativo  e  di  costringere  all'alienazione  del  bene.   Cio'
 ignorando  che  la  stessa  Corte (sentenze nn. 120 del 1984, 144 del
 1972 e 120 del 1972) ha  riconosciuto  il  principio  generale  della
 deduzione  di  imposta da imposta ed ha censurato la irragionevolezza
 della discrezionalita' esercitata dal  legislatore  nella  fissazione
 della   misura  dei  tributi.  Non  si  considera,  inoltre,  che  la
 legislazione  dei  Paesi  in  cui  esiste  il  tributo   patrimoniale
 ordinario  si  preoccupa di inserire nel sistema fiscale - accanto ad
 un tasso  d'imposta  sufficientemente  esiguo  -  anche  clausole  di
 salvaguardia  (tax  ceiling)  atte  a  fissare  un  tetto  nel carico
 tributario,  allo  scopo  di  evitare  che  il  totale   dell'imposta
 patrimoniale  e  delle  altre  imposte sul reddito superi percentuali
 predeterminate, fino a comportare la stessa incisione della fonte  di
 reddito.
   Nel  caso  di  specie sarebbe, invece, evidente l'effetto ablatorio
 scaturente  dalla  struttura  dell'imposta  in  esame  e  dalla   sua
 combinazione  con  l'imposta  personale e l'imposta straordinaria sul
 capitale netto delle imprese.
   4. - In prossimita' della udienza la parte privata ha depositato un
 memoria nella quale, replicando alle deduzioni dell'Avvocatura  dello
 Stato, si sostiene la non pertinenza del richiamo alla sentenza n. 21
 del 1996, considerato che il tributo oggetto del presente giudizio ha
 caratteristiche ben diverse dall'imposta straordinaria sugli immobili
 alla quale si riferisce la richiamata pronunzia.
   Si  osserva,  tra  l'altro,  che la questione relativa all'asserito
 carattere discriminatorio dell'ISI nei confronti  dei  possessori  di
 immobili  e'  stata  dichiarata  infondata  con  la motivazione della
 contestuale istituzione, accanto al predetto tributo, di una  imposta
 straordinaria  sulle  liquidita'  finanziarie  costituite da depositi
 bancari e postali.   Anche  le  motivazioni  con  le  quali  si  sono
 ritenuti   irrilevanti   gli  altri  profili  di  incostituzionalita'
 prospettati  in  quella  sede  (la   mancata   considerazione   delle
 passivita' gravanti sugli immobili ai fini della determinazione della
 base  imponibile  ISI  e  la  indeducibilita' di quest'ultimo tributo
 dall'imponibile dell'imposta  personale),  incentrate  sul  carattere
 straordinario  del  prelievo,  limitato  ad un solo anno, non possono
 valere per ricondurre nell'alveo dei precetti  costituzionali  l'ICI,
 tributo  ordinario  sul patrimonio immobiliare, destinato come tale a
 colpire, in via continuativa e permanente, l'indice di ricchezza  che
 ne costituisce l'oggetto.
   Quanto,  poi,  all'argomentazione dell'Avvocatura, secondo la quale
 l'ICI, basandosi sul valore dell'immobile determinato con il  sistema
 catastale,  non  puo'  tenere  conto  ne'  dei  costi  sopportati per
 acquisire il cespite ne' del reddito prodotto, la memoria osserva che
 il metodo valutativo catastale avrebbe dovuto,  comunque,  comportare
 la deducibilita' delle passivita' afferenti il patrimonio immobiliare
 dal  valore del bene, al fine di assicurare il necessariocollegamento
 tra capacita' contributiva e prelievo. Cosi' pure si sarebbero dovuti
 contemplare correttivi idonei a consentire di  assumere  a  parametro
 dell'imposta l'effettivo valore dell'immobile quando per qualsivoglia
 ragione  (ad esempio, per effetto della perdurante vigenza del regime
 vincolistico  delle   locazioni)   la   rendita   catastale   risulti
 notevolmente  superiore  al  reddito e, di riflesso, al valore venale
 del bene.
   5. - Anche l'Avvocatura generale  dello  Stato  ha  depositato  una
 memoria  in  cui  si  ribadiscono  gli  argomenti  a  sostegno  della
 richiesta di inammissibilita' ed infondatezza delle questioni.
   Vengono richiamate le sentenze nn. 263 del  1994  e  21  del  1996,
 nonche'   l'ordinanza   n.   328  del  1995,  nelle  quali  e'  stata
 riconosciuta la compatibilita' di una imposizione patrimoniale con  i
 principi  costituzionali  e  sono state affermate (sentenza n. 21 del
 1996) l'astrattezza e la carenza di coerenti elementi  valutativi  in
 merito  al  profilo  della  mancata  previsione della deduzione delle
 passivita' gravanti sull'immobile.  Nell'eccepire  l'inammissibilita'
 di   vari   profili  d'incostituzionalita'  evidenziati  dalla  parte
 (vincolativita' degli estimi catastali, necessita' di  assumere  come
 riferimento   i   valori   reali,  illegittimita'  delle  presunzioni
 assolute, necessita' di tenere conto dei  regimi  vincolistici  sulle
 locazioni),  trattandosi  di  censure  ignorate  o  appena  accennate
 nell'ordinanza di rimessione,  l'Avvocatura  assume  che,  una  volta
 ammessa   la   legittimita'   del  sistema  catastale,  ne  diventano
 incontestabili   alcune   conseguenze:   il   valore   catastale   e'
 indipendente  dal  se  e  dal come della locazione, mentre del regime
 vincolistico  si  tiene  conto  solo  quando  si  rilevano  i  valori
 effettivi.
   Inoltre,  la  misura  dell'aliquota,  riferita  ad  un valore quale
 quello catastale, "sempre inferiore  a  quello  effettivo",  potrebbe
 essere  oggetto  di  censura in questa sede soltanto sotto il profilo
 dell'irragionevolezza, certamente assente. Infine, la questione della
 indeducibilita' dell'ICI dalla base imponibile IRPEF ed IRPEG,  anche
 se  fosse proponibile, riguarderebbe pur sempre queste ultime imposte
 e non l'ICI.
   6. - Nel corso di un giudizio instaurato dalla  Associazione  della
 proprieta'   edilizia   della   provincia  di  Chieti,  unitamente  a
 Sebastiani Daniela, per chiedere  l'annullamento  della  delibera  n.
 4382  del  26  febbraio 1993, con la quale il Commissario prefettizio
 del comune di Chieti aveva  determinato  l'aliquota  ICI  per  l'anno
 1993,  il  TAR dell'Abruzzo, sezione di Pescara, con ordinanza emessa
 l'11  gennaio  1996  (r.o.  n.  460  del  1996),  ha  sollevato,   in
 riferimento  agli  artt.    23,  76,  77  e  128  della Costituzione,
 questione di legittimita' costituzionale degli artt. 6 e 18 del  gia'
 menzionato  decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, nella parte
 in cui prevedono che la determinazione dell'aliquota venga  stabilita
 con deliberazione della giunta comunale.
   Con  i  predetti  artt.  6  e  18,  il legislatore delegato avrebbe
 attribuito  alla  giunta  comunale  la   competenza   a   determinare
 l'aliquota dell'ICI, pur in assenza di specifica delega in tal senso,
 dal momento che l'art. 4, numero 6, della legge n. 421 del 1992 si e'
 limitato   a  delegare  il  Governo  a  prevedere,  tra  l'altro,  la
 possibilita' da parte del "comune" di determinare  l'aliquota,  senza
 incidere sul vigente riparto di competenze tra gli organi comunali.
   Rammenta  l'ordinanza che la legge 8 giugno 1990, n. 142, dopo aver
 introdotto la regola della competenza specifica del  consiglio  (art.
 32)   e  residuale  della  giunta,  ha  disposto  che  tra  gli  atti
 fondamentali del consiglio rientrano quelli riguardanti l'istituzione
 e  l'ordinamento  dei  tributi  (art. 32, lettera g). La disposizione
 richiamata  ha  percio'  affidato  alla  specifica   competenza   del
 consiglio,   cioe'   all'organo   "di   indirizzo   e   di  controllo
 politicoamministrativo",  il  potere  di  adottare  tutti  gli   atti
 fondamentali  relativi  alla  disciplina dei tributi, in linea con la
 legislazione  vigente  circa  l'attribuzione   al   consiglio   della
 competenza  a  determinare  le  aliquote dei vari tributi locali e in
 stretta connessione con altre due competenze del  medesimo  organo  e
 cioe'  l'esercizio  del  potere  regolamentare  e  l'approvazione del
 bilancio. Quanto al potere regolamentare, rileva il giudice a quo che
 il principio della riserva di legge in  materia  tributaria  comporta
 che  "la  potesta'  degli  enti  locali  di  integrare  la disciplina
 legislativa con disposizioni che la  completano  appare  conforme  al
 disposto  del predetto art. 23 solo ove disposta con atti generali ed
 astratti"; mentre, quanto al potere di approvare il bilancio, sarebbe
 "evidente la stretta connessione delle scelte effettuate in tale sede
 con quelle relative alla materia tributaria".
   7. - Con  altra  ordinanza,  di  analogo  contenuto,  emessa  il  9
 novembre  1995  (r.o.  n.  461 del 1996) nel corso di un procedimento
 instaurato innanzi  al  TAR  dell'Abruzzo  dalla  Associazione  della
 proprieta'  edilizia della provincia di Pescara, unitamente a Lucilla
 Curato, per l'annullamento della delibera 19 gennaio 1993, n. 5,  con
 la  quale la giunta comunale di Pianella aveva determinato l'aliquota
 ICI per l'anno 1993 lo stesso TAR dell'Abruzzo, sezione  di  Pescara,
 ha sollevato questione di legittimita' costituzionale degli artt. 6 e
 18 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n.  504, nella parte in cui prevedono
 che la determinazione dell'aliquota venga stabilita con deliberazione
 della  giunta  comunale, per violazione degli artt. 23, 76 e 77 della
 Costituzione.
   8. - In entrambi i giudizi (r.o. n. 460  e  n.  461  del  1996)  e'
 intervenuto  il  Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato
 dall'Avvocatura generale dello  Stato,  chiedendo  che  le  questioni
 siano dichiarate inammissibili o non fondate.
   La   difesa   erariale,  eccepito  preliminarmente  il  difetto  di
 rilevanza della sollevata questione, in quanto nel  ricorso  proposto
 innanzi  al  TAR  non  sarebbe stato dedotto il vizio di incompetenza
 della giunta comunale, assume che il decreto legislativo n.  504  del
 1992,  nel precisare (verosimilmente allo scopo di evitare incertezze
 sulla individuazione dell'organo competente) che la deliberazione  e'
 adottata  dalla  giunta,  non  modificherebbe  la  norma generale, ma
 detterebbe semplicemente una norma specifica non  eccedente  rispetto
 alla  delega  e  certamente compatibile con la legge n. 142. Difatti,
 mentre  l'art.    32  di  quest'ultima  legge  riserva  al  consiglio
 comunale,    fra    i   compiti   di   indirizzo   e   di   controllo
 politico-amministrativo, l'istituzione e l'ordinamento dei tributi  e
 la disciplina generale delle tariffe (argomenti cioe' di fondamentale
 rilevanza  che concernono, nella totalita' dei relativi caratteri, la
 introduzione di un tributo in connessione con  la  istituzione  o  il
 dimensionamento dei servizi), ben piu' modesta portata rivestirebbe -
 per  converso  -  la determinazione, anno per anno, della aliquota di
 un'imposta che il  comune  non  ha  il  potere  di  istituire  o  non
 istituire.   Se  e'  vero  che  la  determinazione  dell'aliquota  si
 riconnette alle scelte che il comune adotta in sede  di  approvazione
 del   bilancio,   la   quale,   anzi,   deve  precedere,  secondo  la
 giurisprudenza   del   Consiglio   di   Stato,   la    determinazione
 dell'aliquota stessa, tale premessa avvalora la conclusione che, dopo
 l'approvazione  del  bilancio  da  parte  del  consiglio comunale, si
 trattera' di porre in essere  "un  atto  consequenziale  a  direzione
 obbligata  che  non  risponde  minimamente  ai  caratteri  degli atti
 fondamentali dell'art. 32 della legge n. 142".
   9. - Nel giudizio relativo all'ordinanza di cui al r.o. n. 460  del
 1996,  si  e'  costituita in giudizio l'Associazione della proprieta'
 edilizia della provincia di Chieti,  concludendo  per  l'accoglimento
 della questione.
   La  memoria,  nel  richiamare l'art. 128 della Costituzione, assume
 che la competenza della giunta per  la  determinazione  dell'aliquota
 ICI  sarebbe  in contrasto con il riparto di competenze fissato dalla
 legge 8 giugno 1990, n.  142,  legge  generale  della  Repubblica  in
 materia  di  enti  locali,  le  cui  disposizioni  non possono essere
 oggetto di deroghe tacite o implicite ad opera di leggi particolari o
 generali, per espresso divieto dell'art.  1,  comma  3,  della  legge
 medesima.
   Peraltro neppure la legge n. 421 del 1992 avrebbe mutato il riparto
 delle  competenze tra gli organi comunali tracciato dalla legge sulle
 autonomie, limitandosi invece a demandare al comune  la  facolta'  di
 determinare  l'aliquota dell'ICI con una dizione, quindi, non idonea,
 neanche sotto il profilo della deroga tacita o implicita - ugualmente
 inammissibile - ad individuare la competenza in  capo  ad  un  organo
 comunale diverso rispetto a quello indicato dal legislatore del 1990.
   10.  - Nell'imminenza dell'udienza, l'Associazione della proprieta'
 edilizia della provincia di Chieti ha presentato, nel giudizio di cui
 al r.o. n. 460 del 1996, una ulteriore  memoria,  insistendo  per  la
 declaratoria   di   illegittimita'   delle  disposizioni  denunciate.
 Richiamati gli artt. 128 e 5 della Costituzione, si  osserva  che  le
 disposizioni  censurate  avrebbero  attuato  in  modo  illegittimo ed
 irragionevole la delega conferita dall'art. 4 della legge n. 421  del
 1992.  Posto  che  l'atto  di  determinazione dell'aliquota ha natura
 normativa, non sussisteva  alcuna  giustificazione  nella  scelta  di
 stravolgere  l'ordine  del  riparto  delle  competenze.  Rilevato che
 l'art. 4 della legge n.  421 del 1992, nel rimettere  al  legislatore
 delegato  "la  determinazione  di  un'aliquota  unica  da  parte  del
 comune", sancisce un principio di per se' autosufficiente  ed  idoneo
 ad essere direttamente applicato ed attuato, soprattutto per quel che
 concerne  il  riparto  di  competenze  tra  gli organi del comune, la
 memoria osserva che non trova qui spazio il rapporto di "riempimento"
 tra norma delegante e norma delegata al quale si riferisce talora  la
 giurisprudenza:  la  delega conferita dal Parlamento aveva ad oggetto
 esclusivamente l'istituzione  di  tributi,  per  cui  il  legislatore
 delegato  era  vincolato  al  rispetto della legislazione vigente non
 tributaria,  ossia  dei  principi  della  legislazione   comunale   e
 provinciale,  tra  cui  si collocano quelli degli artt. 30 e seguenti
 della legge n. 142 del 1990, tanto piu' che il legislatore  delegante
 non  ha  operato  deroghe  o abrogazioni espresse di tale legge, come
 l'art. 1 della medesima avrebbe invece richiesto, essendo la legge n.
 142, per certi versi, una c.d. legge rinforzata. In ogni caso,  anche
 ad  ammettere  che,  nonostante  la  detta clausola, la legge n.  142
 resti una legge ordinaria  come  le  altre,  essa  dovrebbe,  in  via
 interpretativa, presumersi operante di fronte ad ogni altra legge che
 non ne disponga ex professo la deroga o l'abrogazione.
   L'incostituzionalita'  delle norme censurate viene infine lamentata
 non solo in nome dei corretti rapporti  tra  fonti  del  diritto,  ma
 anche  per  forti  ragioni  di  sostanza,  giacche'  si rileva che la
 manomissione delle competenze del  consiglio  -  competenze  indicate
 tassativamente  dalla  legge n. 142 del 1990, tanto che la materia e'
 sottratta allo statuto comunale ed  e'  ridotta  la  possibilita'  di
 intervento,  in via d'urgenza, della giunta - appare ancor piu' grave
 in seguito alle riforme  introdotte  dalla  legge  n.  81  del  1993,
 sull'elezione  diretta  del sindaco. Nel nuovo assetto del sistema di
 governo locale solo l'attivita' del consiglio,  e  non  anche  quella
 della  giunta  o  del  sindaco,  e'  contraddistinta da effettivita',
 pubblicita' e trasparenza.
   Le disposizioni censurate,  non  considerando  che  la  riserva  al
 Consiglio  delle  competenze  normative  e  di  indirizzo corrisponde
 all'esigenza di salvaguardare la  liberta'  dei  cittadini,  alterano
 percio'   in  modo  rilevante  un  delicato  equilibrio  di  garanzie
 sostanziali in ambito comunale.
                        Considerato in diritto
   1. -  Con le ordinanze in epigrafe  la  Commissione  tributaria  di
 primo  grado di Livorno e il TAR dell'Abruzzo sollevano questioni che
 investono, sotto vari profili, la  disciplina  dell'imposta  comunale
 sugli  immobili (ICI), istituita a far tempo dal 1993, con d.lgs.  30
 dicembre 1992, n. 504 recante  "Riordino  della  finanza  degli  enti
 territoriali,  a  norma  dell'art.  4 della legge 23 ottobre 1992, n.
 421".
   Come si desume da quest'ultimo articolo, obiettivo della  legge  e'
 quello  di  favorire  l'autonomia  tributaria  degli  enti  locali, a
 beneficio dei quali, una volta entrata a regime la disciplina,  viene
 devoluto   il   gettito   del   tributo,  istituito  con  contestuale
 soppressione sia dell'ILOR sui redditi dei fabbricati a qualsiasi uso
 destinati, ivi compresi quelli strumentali od oggetto di locazione, i
 redditi dominicali delle aree fabbricabili e  dei  terreni  agricoli,
 nonche'  i  redditi  agrari di cui all'art. 29 del d.P.R. 22 dicembre
 1986,  n.   917   e   successive   modificazioni;   sia   dell'INVIM,
 limitatamente  agli  incrementi di valore maturati successivamente al
 31 dicembre 1992 (art. 17, commi 6 e 7, del  decreto  legislativo  n.
 504 del 1992).
   L'imposta  assume  come  base  imponibile  il valore degli immobili
 (art. 5, comma 1),  intendendosi  per  tali  i  fabbricati,  le  aree
 fabbricabili e i terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a
 qualsiasi  uso  destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui
 produzione o scambio e' diretta l'attivita' dell'impresa.
   Dall'esame dell'art. 1, comma 2, della normativa  in  questione  si
 rileva   che   il   presupposto  dell'imposta  e'  rappresentato  dal
 "possesso" dei beni. Di essa, secondo le specificazioni dell'art.  3,
 sono soggetti passivi il proprietario, ovvero il titolare del diritto
 di  usufrutto,  uso o abitazione, nonche' - per gli immobili concessi
 in superficie, enfiteusi o locazione finanziaria - il concedente  cui
 viene  attribuito, peraltro, diritto di rivalsa, rispettivamente, sul
 superficiario, enfiteuta o locatario (art. 3).
   2.  -  I  giudizi,  avendo  ad oggetto questioni fra loro connesse,
 vanno riuniti per essere decisi con una unica sentenza.
   3. - La Commissione tributaria di primo grado di Livorno solleva un
 duplice ordine di censure che attengono, da un lato,  alla  struttura
 sostanziale  del  tributo,  quale  regolata dagli artt. 1, 5, 6 e 17,
 comma 1, del decreto legislativo n. 504 del 1992, norme  ritenute  in
 contrasto  con gli artt. 3, 42 e 53 della Costituzione e, dall'altro,
 alla disciplina delle  fasi  procedimentali  che  mettono  capo  alla
 riscossione,  quali  si  evincono  dagli  artt.  18 e 12 del suddetto
 decreto legislativo, disposizioni reputate  viziate,  la  prima,  per
 eccesso  di  delega  e, la seconda, per violazione degli artt. 3, 24,
 113 e 53 della Costituzione stessa.
   4. - Di queste ultime censure l'Avvocatura dello  Stato  eccepisce,
 in  via  pregiudiziale, l'inammissibilita', riguardando norme che non
 trovano applicazione nel giudizio principale.
   L'eccezione e' fondata. L'art. 18, comma  3,  riserva,  per  l'anno
 1993,  all'Amministrazione finanziaria dello Stato i vari adempimenti
 relativi   alla   liquidazione,   rettifica   delle    dichiarazioni,
 accertamento,  irrogazione  delle sanzioni e degli interessi, nonche'
 alla riscossione delle somme dovute  per  ICI,  disponendo  che  essa
 operi  a  norma delle disposizioni che riguardano l'accertamento e la
 riscossione delle imposte erariali sui redditi nonche'  l'irrogazione
 delle relative sanzioni. Dal canto suo l'art. 12 conferisce al comune
 il  potere  di  procedere  alla  riscossione coattiva immediata delle
 somme liquidate per imposta, sanzioni ed interessi, anche in caso  di
 impugnazione  del  relativo  accertamento,  ove  le  somme stesse non
 vengano corrisposte nei modi previsti dall'art. 10, comma 3, e  cioe'
 tramite versamento diretto.
   Considerato  che,  nel  caso  oggetto di controversia, il pagamento
 dell'imposta e' avvenuto  per  versamento  diretto,  le  disposizioni
 denunciate  non  rientrano fra quelle di cui il giudice rimettente e'
 tenuto a  far  applicazione  nel  giudizio  a  quo,  con  conseguente
 inammissibilita'  delle  sollevate  questioni per irrilevanza ai fini
 della decisione.
   5. - Le altre censure, sono da ritenere in  parte  infondate  e  in
 parte inammissibili per quanto appresso si dira'.
   6.  -  La  prima doglianza concerne gli artt. 1 e 5, che, ad avviso
 del rimettente, colliderebbero con gli artt. 3, 42, terzo comma, e 53
 della Costituzione, per vari convergenti motivi. In primo  luogo,  si
 deduce  che  i  principi  di  uguaglianza e di capacita' contributiva
 risulterebbero lesi da una disposizione  quale  quella  dell'art.  1,
 istitutiva  di  un'imposta  patrimoniale  ordinaria  che concentra la
 pressione   fiscale   sui   soli   beni   immobili,   irrazionalmente
 discriminati   rispetto  agli  altri  cespiti  patrimoniali  di  pari
 entita', ma di diversa composizione qualitativa. In secondo luogo  si
 lamenta  che  l'art.   5 individui la base imponibile del tributo nel
 valore lordo dei beni, si' da colpire un indice  "meramente  fittizio
 ed  immaginario"  di  ricchezza,  senza  tenere,  invece, conto delle
 eventuali passivita' che il proprietario abbia dovuto  contrarre  per
 acquistare o costruire gli immobili tassati.
   L'uno  e  l'altro  ordine  di  considerazioni  non  possono essere,
 tuttavia, condivisi.
   La prima censura, investendo i criteri secondo  i  quali  risultano
 definite   dalla  legge  le  situazioni  significative  di  capacita'
 contributiva, induce a rammentare l'ampia discrezionalita'  riservata
 al  legislatore  in  relazione  alle varie finalita' cui, di volta in
 volta,   si   ispira   l'attivita'   di   imposizione  fiscale.  Tale
 discrezionalita', come la Corte ha costantemente affermato,  consente
 al   legislatore   stesso,   sia   pure   con  il  limite  della  non
 arbitrarieta',  di  determinare  i  singoli  fatti  espressivi  della
 capacita'    contributiva   che,   quale   idoneita'   del   soggetto
 all'obbligazione di imposta, puo' essere desunta da qualsiasi  indice
 rivelatore  di  ricchezza  (reddito,  consumo,  patrimonio  nella sua
 oggettivita' ovvero nel momento specifico del suo incremento, ecc.).
   Allo stesso modo  non  e'  di  per  se'  lesivo  del  principio  di
 uguaglianza  e  di capacita' contributiva il fatto che il legislatore
 individui, di volta in volta, quali indici  rivelatori  di  capacita'
 contributiva,  le  varie  specie  di  beni patrimoniali sia di natura
 mobiliare che immobiliare, come risulta dalla  legislazione  vigente,
 in  ordine  alla  quale  si  possono  esemplificativamente ricordare:
 l'imposta sul patrimonio netto delle imprese (legge 26 novembre 1992,
 n. 461), l'imposta sui fondi comuni di investimento mobiliare  (legge
 23  marzo  1983, n. 77), l'imposta sul valore globale netto dell'asse
 ereditario  (d.lgs.  31  ottobre  1990,  n.  346),  l'imposta   sulla
 proprieta'  di  autoveicoli  ed autoscafi (d.-l. 30 dicembre 1982, n.
 953, convertito nella legge 28 febbraio 1983, n. 53).
   Il fatto, dunque, che vengano colpiti dall'ICI solo cespiti  aventi
 natura   immobiliare   non   e',   di   per   se',  significativo  di
 illegittimita' della relativa disposizione.
   Quanto poi all'altro profilo  prospettato,  e  cioe'  quello  della
 mancata  deduzione  dalla  base imponibile delle passivita' contratte
 dal proprietario per acquistare o costruire il bene, va  considerato,
 anzitutto,   che  l'imposizione  ICI  non  tende  a  colpire  solo  i
 proprietari  ma,  piu'  in  generale,  i  titolari  delle  situazioni
 previste  dall'art.    3,  in  quanto idonee, nella loro varieta', ad
 individuare di norma coloro che, avendo il  godimento  del  bene,  si
 avvantaggiano,  con  immediatezza,  dei  servizi  e  delle  attivita'
 gestionali dei comuni, a beneficio dei  quali  il  gettito  viene,  a
 regime,  destinato,  in sostituzione di altri tributi contestualmente
 soppressi. In ogni caso non e' irrazionale la mancata  considerazione
 dei mezzi impiegati per acquisire o costruire l'immobile; mezzi che a
 ben  vedere  afferiscono quali passivita' non a questo ultimo, bensi'
 al patrimonio generale del soggetto che li assume in carico.
   7. - Il medesimo  art.  5  viene,  ulteriormente,  denunciato,  per
 violazione  degli  artt.  3  e  53  della Costituzione, con specifico
 riferimento alle disposizioni contenute nei commi 2 e 7. La prima  di
 esse fa rinvio, per la determinazione del valore dei fabbricati, alle
 risultanze  del  catasto,  stabilendo l'applicazione alle rendite ivi
 iscritte di moltiplicatori determinati con i criteri e  le  modalita'
 di  cui al primo periodo dell'ultimo comma dell'art. 52 del d.P.R. 26
 aprile  1986,  n.  131;  la   seconda   prevede,   invece,   per   la
 determinazione  del  valore  dei  terreni agricoli, l'applicazione al
 reddito dominicale di un moltiplicatore  pari  a  settantacinque.  Ad
 avviso  del  rimettente,  la  determinazione  della  base  imponibile
 secondo il metodo dei moltiplicatori fissi si porrebbe  in  contrasto
 con  il  principio di effettivita' della capacita' contributiva e con
 il  principio  di  ragionevolezza  a  causa  della   elevatezza   dei
 coefficienti,   della  vincolativita'  e/o  incontrovertibilita'  dei
 valori  ottenuti  attraverso  di   essi,   nonche',   infine,   della
 illogicita'  ed  irrazionalita'  insita  nella  mancata previsione di
 correttivi  idonei  a   tenere   conto   dell'esistenza   di   regimi
 vincolistici   di   determinazione   del   canone,   comportanti  una
 depressione sia del reddito sia del valore dell'immobile.
   Premesso che la questione  relativa  al  comma  7  e'  da  reputare
 inammissibile, non risultando dall'ordinanza che innanzi al giudice a
 quo  sia in discussione la tassazione di terreni agricoli, e' agevole
 osservare, quanto al comma 2, che l'adozione dei moltiplicatori fissi
 e la incontrovertibilita' della loro misura non  sono  altro  che  la
 logica  conseguenza dei dati utilizzati dal legislatore per pervenire
 alla determinazione del valore  del  bene.  Il  ricorso  ad  elementi
 desunti,  per  evidenti  ragioni  di  uniformita'  e  semplificazione
 dell'accertamento, dal catasto fabbricati,  e  in  particolare  dalle
 rendite   ivi   iscritte,   comporta,   infatti,   l'adozione  di  un
 procedimento esattamente inverso  a  quello  che  fu,  a  suo  tempo,
 recepito  dal d.-l. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito nella legge 24
 marzo 1993, n. 75, per determinare la redditivita' media delle unita'
 immobiliari urbane.  Secondo  detta  disciplina  alla  determinazione
 delle    rendite   catastali   si   perviene,   infatti,   attraverso
 l'applicazione, ai valori di mercato degli immobili, di  coefficienti
 di  redditivita'  o  (se si vuole) di saggi di interesse sul capitale
 fondiario, fissati, come e' noto, nella misura dell'1, del 2 e del 3%
 (rispettivamente per le abitazioni, per gli studi professionali e per
 i negozi), si' da essere esattamente speculari ai moltiplicatori.
   La giustificazione dell'entita' dei moltiplicatori  risiede  dunque
 nella   logica  ispiratrice  del  sistema  sopra  delineato  e  nella
 correlazione sussistente fra  i  vari  elementi  che  lo  compongono;
 sistema dotato, oltretutto, di una sua flessibilita', dovuta alla non
 invariabilita'  sia  delle  rendite  sia dei moltiplicatori, i quali,
 benche' fissati, per l'anno in contestazione innanzi al giudice a quo
 e cioe' il 1993, direttamente dal legislatore, sono  suscettibili  di
 periodiche  revisioni  in  caso di sensibili divergenze dai valori di
 mercato (art. 5, comma 2, del decreto legislativo n.  504  del  1992,
 che  fa  rinvio  all'art.    52,  ultimo comma, del d.P.R. n. 131 del
 1986).
   Sotto l'altro profilo dedotto non sembra poi a questa Corte  che  a
 mettere  in dubbio la legittimita' dei risultati cosi' ottenuti possa
 valere,  come  ipotizza  l'ordinanza,  la   mancata   previsione   di
 correttivi  volti  a tener conto di fattori decrementativi legati, in
 specifiche  situazioni,  al  regime  vincolistico  delle   locazioni.
 Infatti  la  disciplina  stabilita  nel citato comma 2 dell'art. 5 e'
 coerente, da un lato, con una scelta legislativa che,  prevedendo  un
 computo  la  cui  base e' rappresentata dai dati catastali, si rifa',
 per l'accertamento della base imponibile, a criteri di determinazione
 legale di valori tipo, e cioe' a metodi che non possono  di  per  se'
 reputarsi  contrari a Costituzione; e, dall'altro, con una situazione
 legislativa  volta,  da  qualche  tempo,   a   superare   il   regime
 vincolistico delle locazioni.
   8.   -  Resta,  infine,  da  esaminare  la  doglianza  che  investe
 contestualmente gli artt. 6 e 17,  comma  1;  quest'ultimo  posto  in
 relazione,  dall'ordinanza,  con  gli  artt.  22-38 e 129 del t.u. 22
 dicembre 1986, n. 917 e con gli artt. 1 e 3 del  d.-l.  30  settembre
 1992,  n. 394, convertito, con modificazioni, nella legge 26 novembre
 1992, n. 461.
   Si  lamenta  in particolare la violazione degli artt. 42 e 53 della
 Costituzione per l'effetto espropriativo  e  lesivo  della  capacita'
 contributiva, derivante dalla elevata entita' dell'aliquota dell'ICI,
 assommata    all'indeducibilita'    del    tributo    dall'imponibile
 dell'imposta  personale  sul  reddito,   nonche'   all'esistenza   di
 ulteriori   imposizioni   fiscali   che,   secondo   il   rimettente,
 colpirebbero pesantemente il reddito ed il patrimonio immobilare.
   La prima delle disposizioni censurate e cioe' l'art. 6 prevede  che
 l'aliquota  dell'ICI  sia  stabilita,  con deliberazione della giunta
 comunale,  in  misura  unica  e  in  una   percentuale   del   valore
 dell'immobile  compresa  fra  il  4 e il 6 per mille, con facolta' di
 elevazione al 7 per straordinarie esigenze di  bilancio;  la  seconda
 disposizione   e  cioe'  l'art.  17,  comma  1,  stabilisce,  invece,
 l'indeducibilita' dell'ICI agli effetti delle  imposte  erariali  sui
 redditi.
   Le doglianze, nell'evocare congiuntamente i parametri dell'art.  42
 e   dell'art.   53   della   Costituzione,   sottolineano   l'effetto
 espropriativo  ed,  al   tempo   stesso,   lesivo   della   capacita'
 contributiva  che,  ad  avviso dell'ordinanza, deriverebbe, oltre che
 dall'elevatezza  dell'aliquota,  dagli  altri   concorrenti   fattori
 indicati.
   Dette  considerazioni  inducono  la  Corte  a  richiamare, in linea
 generale, il principio,  peraltro  non  del  tutto  nuovo  nella  sua
 giurisprudenza,   secondo  il  quale  dalla  legge  tributaria  nasce
 soltanto una obbligazione pecuniaria verso lo Stato ovvero gli  altri
 enti pubblici (sentenza n. 9 del 1959). Che il prelievo tributario si
 realizzi  dunque  attraverso  la  mera  costituzione  di  un  vincolo
 obbligatorio, alla cui osservanza il soggetto passivo e'  tenuto  con
 tutto  il  suo patrimonio, e non soltanto con il bene colpito, e' del
 resto  confermato  dal  fatto  che   sarebbe   certamente   riduttivo
 identificare  la  capacita'  contributiva,  che  e' alla base di tale
 vincolo, con la proprieta' di uno specifico bene patrimoniale  ovvero
 con  quella  di  un  reddito,  esprimendo,  invece,  essa l'idoneita'
 generale del singolo a concorrere alle spese pubbliche, in  relazione
 alla  molteplicita'  degli  obiettivi  di  politica  fiscale  che  il
 legislatore puo' perseguire, con  l'imposizione  tributaria,  e  che,
 talora,  vanno  anche al di la' della mera esigenza dell'acquisizione
 di entrate al bilancio dello Stato.
   Non e' privo di significato, da questo punto di vista, il fatto che
 la Costituzione repubblicana, diversamente  dalla  formula  dell'art.
 25  dello  Statuto Albertino (che prevedeva il contributo ai "carichi
 dello Stato" in proporzione degli  "averi"),  faccia  riferimento  al
 piu'   ampio   concetto   di   "capacita'   contributiva"  e,  cioe',
 all'attitudine economica del singolo;  capacita'  contributiva  della
 quale,   secondo  quanto  risulta  anche  dagli  atti  dell'Assemblea
 Costituente, costituiscono corollari, da un canto, la  strutturazione
 del  sistema fiscale secondo criteri di progressivita' e, dall'altro,
 l'esenzione dall'imposizione dei c.d. minimi vitali.
   Cio' se, da un canto, consente di ribadire quanto gia'  piu'  volte
 affermato  da  questa  Corte,  e  cioe'  l'estraneita'  della materia
 espropriativa all'ambito dell'art. 53  della  Costituzione  (sentenze
 nn.  283  del  1993, 22 del 1965 e 9 del 1959), induce, dall'altro, a
 constatare come sia proprio l'art. 53 la corretta  prospettiva  nella
 quale  va ricondotto il giudizio sull'uso ragionevole, o meno, che il
 legislatore  stesso  abbia  fatto  dei  suoi  poteri discrezionali in
 materia tributaria, al fine di verificare la coerenza  interna  della
 struttura dell'imposta con il suo presupposto economico, come pure la
 non    arbitrarieta'    dell'entita'   dell'imposizione.   Ovviamente
 l'esigenza   che   si   pone   di   riferire   le   valutazioni    di
 costituzionalita',  in  via  prioritaria,  al  fondamentale parametro
 dell'art. 53, non esclude che, in occasione di tale  giudizio,  possa
 emergere   anche   la   coesistente   lesione   di   altri  interessi
 costituzionalmente protetti, tra i quali quello oggetto dell'art.  42
 evocato  dal rimettente, ma certamente non solo esso.  E' sufficiente
 por mente  al  tema  del  favor  per  la  proprieta'  della  casa  di
 abitazione   (art.  47  della  Costituzione),  argomento  che  esula,
 tuttavia, dalla problematica posta  dal  giudice  rimettente,  e  sul
 quale,  pertanto,  la  Corte  non  ha  in  questa occasione motivo di
 pronunciarsi.
   Cosi' stabiliti i limiti del controllo che compete al giudice delle
 leggi, questa Corte ritiene che le doglianze del  giudice  rimettente
 circa  l'elevatezza in se' dell'aliquota ICI quale prevista dall'art.
 6 non siano sorrette da elementi che possano portare a  considerarla,
 nel  rapporto  che  e'  dato ragionevolmente stabilire fra l'aliquota
 stessa e il valore del bene in se',  frutto  di  un  arbitrio  lesivo
 della   capacita'   contributiva,   ai   sensi   dell'art.  53  della
 Costituzione.   Cio'  escluso,  non  v'e',  di  conseguenza,  nessuna
 ricaduta nemmeno sull'art. 42 della Costituzione.
   Quanto  agli  altri  argomenti addotti a sostegno dell'eccessivita'
 del livello della tassazione, la menzione fatta dall'ordinanza  delle
 ulteriori   imposizioni  fiscali  che  colpirebbero  pesantemente  il
 reddito ed il patrimonio immobiliare e' di per  se'  troppo  generica
 per poter essere presa in considerazione in una materia, quale quella
 tributaria,  contrassegnata,  proprio  per  i  delicati  fini  cui si
 ispira, da ampia discrezionalita' del legislatore e nell'ambito della
 quale  non  spettano  al  giudice  della  legittimita'  delle   leggi
 valutazioni di opportunita' o di convenienza riferite all'ordinamento
 generale  dei tributi ovvero all'entita' del carico fiscale, salvo il
 controllo sotto  il  profilo  dell'arbitrarieta'  o  irragionevolezza
 delle norme. Circa poi il piu' puntuale richiamo fatto dall'ordinanza
 all'art.  17, comma 1, in tema di indeducibilita' dell'ICI, si rileva
 che la questione - benche' prospettata con  testuale  richiamo  della
 disciplina  della imposizione sui redditi fondiari (artt. 22-38 e 129
 del t.u. n.  917  del  1986),  nonche'  di  quella  dell'imposta  sul
 patrimonio  netto delle imprese (artt. 1 e 3 del decreto-legge n. 394
 del 1992) - viene focalizzata sul punto specifico della deducibilita'
 dell'imposta di cui si tratta dall'imponibile IRPEF. In ogni caso e a
 tacer d'altro, puo'  obiettarsi  che  trattandosi  di  questione  che
 attiene  al  regime  giuridico  e  alla  fase  applicativa di imposte
 diverse da quella oggetto del giudizio  principale,  essa  non  puo',
 come  gia'  altra  volta osservato (sentenza n. 21 del 1996), trovare
 ingresso in questa sede e va, pertanto, dichiarata inammissibile.
   9. -  Le  questioni  portate  all'esame  della  Corte  con  le  due
 ordinanze  del  TAR dell'Abruzzo riguardano, invece, gli artt. 6 e 18
 del d.lgs.  30 dicembre 1992, n.  504,  denunciati,  rispettivamente,
 per  violazione  degli  artt.  23,  76,  77  e 128 della Costituzione
 (ordinanza emessa l'11 gennaio 1996, di cui al r.o. n. 460 del  1996)
 e  per  violazione  degli  artt.  23,  76 e 77 (ordinanza emessa il 9
 novembre 1995, di cui al r.o. n. 461 del 1996).
   10. - L'Avvocatura dello Stato, assumendo che, nei giudizi proposti
 innanzi  al  giudice  a  quo,  non  vi  e',  fra i motivi dedotti dai
 ricorrenti,  quello  della  incompetenza   della   giunta   comunale,
 eccepisce l'inammissibilita' delle questioni sollevate da entrambe le
 ordinanze.
   Tale  inammissibilita',  sia  pure  per  motivi  diversi  da quelli
 prospettati dall'Avvocatura, sussiste solo per la prima ordinanza. Da
 questa si rileva, infatti, che  la  determinazione  dell'aliquota  e'
 avvenuta, nella specie, ad opera del commissario prefettizio, sicche'
 non  puo'  reputarsi rilevante ai fini del decidere una questione che
 non concerne i poteri di quest'ultimo, bensi'  quelli  della  giunta.
 L'eccezione stessa va, invece, disattesa per la seconda ordinanza dal
 cui  contesto  risulta  che  il  prospettato  difetto  di  competenza
 dell'organo  forma  oggetto  di  specifica  censura  da   parte   del
 ricorrente.
   11.  -  Tuttavia,  la  questione, ancorche' ammissibile in rito, e'
 infondata nel merito.
   12. - Assume il rimettente che gli artt.  6  e  18  del  d.lgs.  30
 dicembre  1992,  n.  504, nella parte in cui prevedono che l'aliquota
 ICI sia fissata con "deliberazione della  giunta  comunale",  abbiano
 inciso  -  pur  in  assenza  di  specifica  delega in tal senso - sul
 riparto di  competenze  tra  consiglio  e  giunta,  quale  si  desume
 dall'art.  32  della  legge  8  giugno  1990,  n. 142, che, dopo aver
 introdotto il  principio  generale  sulla  competenza  specifica  del
 consiglio   e   residuale   della   giunta,  annovera  fra  gli  atti
 fondamentali di competenza del primo, "l'istituzione e  l'ordinamento
 dei tributi" (comma 2, lettera g dello stesso articolo). L'ordinanza,
 nel  rilevare, inoltre, che la competenza teste' ricordata si pone in
 connessione  con  altre  due  attribuzioni  del  consiglio,  e  cioe'
 l'esercizio  del  potere regolamentare e l'approvazione del bilancio,
 ritiene che "la potesta' degli enti locali di integrare la disciplina
 legislativa con disposizioni che la  completano  appare  conforme  al
 disposto  dell'art.  23"  solo  ove  esplicata  con  atti generali ed
 astratti.
   13. - Quanto alla denunciata violazione dell'art. 23 e' il caso  di
 ricordare  immediatamente che il principio della riserva di legge, in
 materia di prestazioni imposte, va  inteso  in  senso  relativo  come
 obbligo   per   il   legislatore  di  determinare  preventivamente  e
 sufficientemente criteri  direttivi  di  base  e  linee  generali  di
 disciplina  dell'attivita' amministrativa (sentenza n. 157 del 1996).
 Non   ha   percio'   fondamento   l'assunto   dell'ordinanza,   volto
 sostanzialmente  a prefigurare una sorta di proiezione del vincolo di
 cui all'art. 23 anche sugli  atti  di  competenza  dell'ente  locale,
 ipotizzando,  in sostanza, in aggiunta alla riserva di legge, e quasi
 ad ulteriore  sviluppo  di  essa,  anche  una  sorta  di  riserva  di
 regolamento.
   14.  - Neppure fondata e' l'altra doglianza proposta dal rimettente
 e cioe' quella riguardante l'eccesso di delega in cui le disposizioni
 censurate sarebbero incorse rispetto a quanto stabilito dall'art.  4,
 comma 1, lettera a), numero 6, della  legge  n.  421  del  1992,  che
 autorizzava  l'emanazione di disposizioni dirette "all'istituzione, a
 decorrere dall'anno 1993, dell'imposta comunale immobiliare (ICI)".
   La  tesi  che  il Governo, nell'emanare le disposizioni di cui agli
 artt. 6 e 18, non avrebbe potuto prescindere  dalla  ripartizione  di
 competenza  fra  giunta e consiglio, fissata nell'art. 32 della legge
 n. 142 del 1990, viene a riproporre il tema generale dei criteri  che
 il  legislatore  delegato  e'  tenuto ad osservare nell'esercizio del
 compito al medesimo affidato, in relazione a quelli che se ne possano
 considerare i limiti espliciti od impliciti. Tema sul quale la  Corte
 ha   avuto   occasione   di   evidenziare  il  naturale  rapporto  di
 "riempimento" che lega la norma delegata  a  quella  delegante,  alla
 luce  della ratio che ispira quest'ultima. Pertanto il silenzio della
 legge  di  delegazione  non  osta   all'emanazione   di   norme   che
 rappresentino  un  coerente  sviluppo  e  completamento  della scelta
 espressa dal legislatore delegante e delle ragioni  ad  essa  sottese
 (sentenza  n.  141  del  1993),  ancorche'  il  potere  debba  essere
 esercitato in modo non  solo  conforme  alle  finalita'  che  l'hanno
 determinato,   ma   anche   aderente   al   sistema  delineato  nella
 legislazione precedente (sentenza n. 28 del 1970).
   Tale giurisprudenza non vale, tuttavia, a dar fondamento alla  tesi
 prospettata  dall'ordinanza,  proprio  alla  luce  dei dati normativi
 offerti dalla legge n. 142 del 1990,  fra  i  quali  assume  primario
 rilievo  l'art.  1,  il  quale stabilisce che "ai sensi dell'art. 128
 della Costituzione, le leggi della Repubblica non possono  introdurre
 deroghe  ai  principi  della  presente legge se non mediante espressa
 modificazione delle sue disposizioni"; formula  che,  secondo  quanto
 comunemente  si  ritiene,  vale  quale  criterio interpretativo per i
 futuri successivi interventi legislativi in materia, nel senso che  i
 principi  della legge n. 142 restano operanti di fronte ad ogni altra
 legge che non ne disponga ex professo la deroga o l'abrogazione.   Ma
 anche  a  ritenere  che  il  predetto  art.  1 sia canone ermeneutico
 utilizzabile per definire, nel caso qui in esame, portata e contenuto
 della delega apprestata dalla legge n. 421 del 1992, e' da  escludere
 che  possa  parlarsi di violazione della delega stessa, in ragione di
 deroghe apportate, nel suo silenzio, ai principi della legge n.   142
 del  1990.  Nell'ambito dell'art. 32, occorre, anzitutto, distinguere
 fra i principi che si desumono dal comma 1, a  mente  del  quale  "il
 consiglio  comunale  e' l'organo di indirizzo e di controllo politico
 amministrativo", e le disposizioni  che  puntualmente  indicano,  nel
 successivo comma 2, gli atti fondamentali rientranti nella competenza
 del  consiglio,  tra  i  quali  "l'istituzione  e  l'ordinamento  dei
 tributi".   Escluso dunque che  si  possa  parlare  di  modifica  dei
 principi   sopra   ricordati,   quel   che   ulteriormente   convince
 dell'assenza  del  lamentato  vizio  di  eccesso  di  delega  e'   la
 circostanza che, a ben vedere, le disposizioni denunciate si limitano
 a  specificare  uno  degli  elementi  costitutivi  di una fattispecie
 normativa che di per se' non e' riconducibile al paradigma  dell'art.
 32, comma 2.
   Infatti,  diversamente  da  quest'ultima disposizione, nel caso qui
 considerato, secondo le specifiche indicazioni  in  tal  senso  della
 legge   n.   421  del  1992,  e'  il  legislatore  stesso,  in  parte
 direttamente e in parte  attraverso    lo  svolgimento  della  delega
 conferita al Governo, a prevedere e a disciplinare il tributo, mentre
 all'ente  locale  non e' data la possibilita' ne' di istituire ne' di
 dettare l'ordinamento dell'imposta, bensi' soltanto  di  determinarne
 l'aliquota  entro  limiti predeterminati, fermo restando che, in caso
 di mancata delibera, vale  comunque  il  minimo  fissato  per  legge,
 secondo quanto espressamente prevede l'art. 6 del decreto legislativo
 n.  504  del  1992.  Anche  per questa ragione e' da escludere che si
 tratti di una  disposizione  esorbitante  dai  limiti  della  delega;
 mentre restano fuori dalla considerazione della Corte, trattandosi di
 disposizioni  intervenute in epoca successiva, da un canto la riforma
 del sistema di governo comunale realizzato dalla legge 25 marzo 1993,
 n. 81, alla quale si richiama   la parte privata  e,  dall'altro,  la
 recente  nuova  disciplina  dell'ICI contenuta nell'art. 3, comma 53,
 della legge  23 dicembre 1996, n. 662.