Ricorso per conflitto di  attribuzione  della  regione  Puglia,  in
 persona  del vice presidente pro-tempore della Giunta, dott. Raffaele
 Fitto, ai sensi della delibera di Giunta n. 1368 dell'8 aprile  1997,
 rappresentato  e  difeso  dagli  avv.ti  prof.  Beniamino Caravita di
 Toritto  e  prof.  Aldo  Loiodice,  e  presso  lo  studio  del  primo
 elettivamente  domiciliato,  in  Roma,  via  Torquato  Taramelli, 22,
 contro il Presidente del  Consiglio  dei  Ministri,  in  persona  del
 Presidente   del  Consiglio  pro-tempore,  per  l'annullamento  della
 decisione della Corte costituzionale n. 17 del 30 gennaio/10 febbraio
 1997 che  ha  dichiarato  inammissibile  la  proposta  di  referendum
 popolare  in  materia  di  istituzione  e riordinamento del Ministero
 della sanita'.
                               F a t t o
   I Consigli regionali della Calabria, della Lombardia, del Piemonte,
 della Puglia, della Toscana, della Valle d'Aosta e del  Veneto  hanno
 presentato  richiesta  di referendum popolare abrogativo - pubblicata
 nella Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 230 del 1 ottobre 1996
 - sul seguente quesito: "Volete voi che siano abrogati: la  legge  13
 marzo  1958,  n.  296, (Costituzione del Ministero della sanita'); il
 d.lgs. 30 giugno 1993, n. 266,  (Riordinamento  del  Ministero  della
 sanita', a norma dell'art. 1, primo comma, lettera h), della legge 23
 ottobre 1992, n. 421)?".
   Con  ordinanza  del  26-27  novembre 1996 l'Ufficio centrale per il
 referendum, costituito presso la Corte di cassazione,  ha  dichiarato
 tale richiesta legittima.
   Successivamente,  in  seguito  alla  comunicazione  della  suddetta
 ordinanza, il presidente della Corte costituzionale ha fissato per la
 deliberazione la camera di consiglio dell'8 gennaio 1997.
   Ai sensi dell'articolo 33, terzo comma della legge n. 352 del 1970,
 i delegati dei Consigli regionali si sono avvalsi della  facolta'  di
 presentare memorie.
   La  Corte  costituzionale,  con  decisione  n. 17, pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale del 12 febbraio 1997, 1 serie speciale, n.  7,  ha
 dichiarato l'inammissibilita' della richiesta.
   Tale   decisione   risulta   essere   lesiva   della   collocazione
 costituzionale delle regioni per i seguenti motivi di
                             D i r i t t o
   1. - Circa la posizione della Corte costituzionale nel conflitto di
 attribuzione tra Stato e Regioni originato da un  atto  lesivo  della
 stessa Corte costituzionale.
   Il  principio  di  legittimita'  costituzionale che regge il nostro
 ordinamento, siccome ordinamento dotato di Costituzione rigida  e  di
 controllo  di costituzionalita', impone che contro ogni atto posto in
 essere da un organo facente riferimento all'ordinamento statuale, che
 leda  presuntivamente  la  sfera  di  attribuzione   regionale,   sia
 ammissibile il rimedio del conflitto di attribuzione.
   Mentre  la  legittimazione processuale attiva, per lo Stato, spetta
 per legge al Presidente del Consiglio dei Ministri, ed al  Presidente
 della  Giunta regionale per la regione (v. art.39, comma primo, legge
 n.  87  del  1953),  nulla  e'  disposto  dalla   legge   in   ordine
 all'esercizio  della  legittimazione  passiva:  rimane cosi' affidato
 alla sensibilita' istituzionale del Governo decidere  se  costituirsi
 in  giudizio,  assumendo  il  ruolo  di  resistente e facendosi cosi'
 carico degli atti di un potere statuale pur disomogeneo.
   Nel caso in questione, trattandosi di atto lesivo  della  sfera  di
 attribuzioni  garantita  alle  Regioni  posto  in  essere dalla Corte
 costituzionale nell'esercizio della sua funzione statale di controllo
 di  ammissibilita'  della  richiesta   referendaria   di   iniziativa
 regionale,  il  conflitto proposto dalla regione avverso l'atto della
 Corte  costituzionale,  quale  organo  appartenente   all'ordinamento
 statuale, risulta chiaramente ammissibile.
   La  Corte  costituzionale ha gia' espressamente riconosciuto la sua
 appartenenza alla categoria degli organi legittimati ad essere  parti
 nei  conflitti  di  attribuzione  tra  i poteri dello Stato (v. Corte
 costituzionale n. 77/1981).
   Contro tale riconoscimento  non  varrebbe  opporre  quelle  vetuste
 obiezioni,  connesse  a  superate  interpretazioni  del  concetto  di
 "potere dello Stato",  che  non  hanno  mai  trovato  e  non  trovano
 riscontro ne' nella giurisprudenza costituzionale, ne' nella dottrina
 piu'  autorevole.    In  particolare,  a  chi  volesse  continuare  a
 sostenere che il concetto di "potere dello Stato" e' riferibile da un
 lato  alla  tradizionale  tripartizione  dei  poteri   dello   Stato,
 dall'altro  lato  alla  ristretta  sfera  dello  "Stato-persona",  va
 risposto, in primo luogo, che "l'organizzazione dello Stato appare in
 realta' articolata secondo esigenze di collegamento  e  coordinamento
 nonche'  di  bilanciamento  e  contrappeso,  assai  piu' complesse di
 quelle individuate dai padri del costituzionalismo", e  che  da  cio'
 discende  che  la  "presenza  di poteri incardinati in organi come la
 Corte costituzionale, che non fa parte del potere  giudiziario;  come
 il  Presidente  della Repubblica, che oggi non puo' piu' considerarsi
 parte del potere esecutivo, ecc.:  organi  che  godono  di  posizione
 costituzionale  analoga  a  quella  che  spetta ai titolari delle tre
 classiche funzioni pubbliche e pertanto  da  considerare  certamente,
 alla   pari   di  questi  ultimi,  poteri  dello  Stato"  (cosi',  G.
 Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, 368).
   Dunque, anche a voler concordare con quelle posizioni  secondo  cui
 la  Corte  costituzionale  e' estranea al "potere giudiziario" (cosi'
 Corte costituzionale n. 13/1960),  cio'  non  toglie  che  la  Corte,
 proprio  per  le funzioni esercitate sia come giudice di legittimita'
 costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza  di  legge,  sia
 come  giudice delle accuse contro il Capo dello Stato, sia in sede di
 valutazione  dell'ammissibilita'  delle   richieste   di   referendum
 abrogativo,  sia  come giudice dei conflitti di attribuzione, rivesta
 la  posizione  di  supremo  organo  costituzionale   dell'ordinamento
 statuale.
   La  qualita'  di  "potere  dello  Stato" implica, all'evidenza, che
 dello Stato si faccia parte o che, comunque, a tale persona giuridica
 si  faccia  riferimento:  di   talche'   la   Corte   costituzionale,
 sicuramente   facente   parte  dello  Stato  nel  caso  di  conflitti
 infrasoggettivi, non potrebbe poi paradossalmente negare  la  propria
 appartenenza  -  o  comunque  la  propria  riferibilita' allo Stato -
 nell'ambito dei conflitti intersoggettivi.
   In  questo  quadro  non  sono  sicuramente   condivisibili   quelle
 obiezioni  talvolta  mosse in passato alla configurazione della Corte
 costituzionale come organo costituzionale dello Stato, fondate  sulla
 considerazione  che la Corte sia un potere di particolare rango posto
 "al di fuori e al sopra" degli  altri  poteri  dello  Stato  (Cheli),
 ovvero,  che  essa  vada  considerata come un "interpotere" destinato
 all'esecuzione in via giurisdizionale della  Costituzione,  concepita
 come  ordinamento  superiore,  comprendente  in  se' quello statale e
 quelli regionali (Pergolesi). Infatti, e' evidente che la titolarita'
 di decisive funzioni di controllo in  via  definitiva  nei  confronti
 delle  leggi  e  delle  attivita'  di organi statuali e regionali non
 implica  che  la  Corte  vada  isolata  dall'ordinamento  statuale  e
 collocata  in  un immaginario luogo extra-statuale, ma, al contrario,
 che la Corte sia considerata titolare di funzioni pubbliche statuali,
 le quali, proprio per la loro rilevanza ed esclusivita', sono per  un
 verso   costituzionalmente   garantite   e   protette   dalle   norme
 costituzionali, per  altro  verso  da  queste  stesse  determinate  e
 delimitate.
   Ne'  sarebbe  scientificamente  sostenibile  la  tesi  che  volesse
 ritenere che gli atti della Corte non  possono  essere  impugnati  in
 sede  di  conflitto  di attribuzione tra Stato e regioni, giacche' la
 Corte costituzionale e' organo non gia' dello  Stato-persona,  bensi'
 dello Stato-comunita': allo Stato-comunita' fa riferimento - cosi' si
 afferma   -   anche  la  giurisdizione  ordinaria,  amministrativa  e
 contabile; eppure, mai si e' negato che atti giurisdizionali  possano
 essere  impugnati  dalle  Regioni  con  il  rimedio  del conflitto di
 attribuzione.
   D'altra parte, e' noto che,  in  via  generalissima,  la  Corte  ha
 ricompreso  tra  i "poteri dello Stato", ai sensi dell'art. 134 della
 Costituzione, anche "figure soggettive esterne  allo  Stato-apparato,
 quanto meno allorche' ad esse l'ordinamento conferisca la titolarita'
 e  l'esercizio  di  funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e
 garantite, concorrenti con  quelle  attribuite  a  poteri  ed  organi
 statuali  in senso proprio" (v. Corte costituzionale n. 69/1978, e la
 successiva giurisprudenza confermativa).  Anche  a  voler  ammettere,
 allora,  che  la  Corte  costituzionale  possa ritenersi un centro di
 imputazione di poteri dello  Stato-comunita',  l'impostazione  citata
 non puo' essere limitata ai soli conflitti tra poteri dello Stato, ma
 deve  essere  necessariamente  estesa  ai  conflitti intersoggettivi:
 anche gli atti di soggetti comunque titolari di  funzioni  riferibili
 allo  Stato-comunita',  possono  essere  impugnati con il rimedio del
 conflitto di attribuzione qualora vi sia una  lesione  di  competenze
 costituzionalmente garantite alle regioni.
   2.  -  Circa  la  menomazione  determinata  dalla motivazione della
 sentenza di inammissibilita' della richiesta referendaria.
   La   motivazione   della  sentenza  n.  17  del  1997  della  Corte
 costituzionale, nella parte in cui si  afferma  che  "il  quesito  in
 esame,  coinvolgendo  sia  la  legge  istitutiva  del Ministero della
 sanita', che ne definiva le  attribuzioni  nell'ambito  dell'apparato
 amministrativo  centrale  all  stregua  dell'assetto  che  la materia
 sanitaria aveva all'epoca di tale istituzione, sia  il  provvedimento
 legislativo  che  ha  riordinato di recente il Ministero, confermando
 l'attribuzione ad esso di tutte le funzioni in  atto  spettanti  allo
 Stato   in   materia,   ha   l'univoco   significato  di  una  totale
 estromissione dell'amministrazione statale dalla materia  sanitaria",
 comporta  il  disconoscimento  della  sfera  di  attribuzioni  che la
 Costituzione riconosce e garantisce alle regioni ai sensi degli artt.
 5, 71, 75, 121, 134 e 138 della  Costituzione,  nella  partecipazione
 delle  Regioni alla determinazione della volonta' normativa statuale,
 non solo nella  forma  referendaria,  quanto  soprattutto  in  quella
 legislativa, ordinaria e costituzionale: ne deriva una contrazione ed
 una  menomazione  della posizione che la Costituzione garantisce alle
 regioni nei confronti dello Stato.
   La lesione dell'autonomia  regionale  costituzionalmente  garantita
 dalle  disposizioni  adesso  citate si e' determinata a seguito della
 valutazione - contenuta nella sentenza di inammissibilita' in oggetto
 - che la Corte ha espresso circa l'iniziativa regionale di  richiesta
 referendaria,   giudicata   equivalente  alla  "totale  estromissione
 dell'amministrazione statale dalla materia sanitaria".
   La Corte costituzionale, esorbitando dall'ambito dell'esercizio del
 potere attribuitole di controllare l'ammissibilita'  della  richiesta
 referendaria  di  iniziativa  regionale,  ha  manifestato  -  in nome
 dell'ordinamento statuale -  un  intenzione  lesiva,  attuale  e  non
 meramente  congetturale, volta al disconoscimento ed alla conseguente
 compressione   delle   attribuzioni   regionali    costituzionalmente
 garantite   circa   il   potere   di  partecipazione  regionale  alla
 determinazione della volonta' statuale.
   Tale potere e'  costituzionalmente  garantito  entro  i  limiti  di
 legittimita'  costituzionalmente  previsti,  e  si  fonda sulla piena
 liberta' regionale di determinare nella propria autonomia politica il
 contenuto  della  proposta  normativa  che   si   voglia   introdurre
 nell'ordinamento giuridico statuale.
   E'  noto che la Corte costituzionale richiede, per l'ammissibilita'
 del conflitto tra Stato e regioni,  che  l'attivita'  statuale  abbia
 prodotto   una   lesione   della   sfera   di   competenza  regionale
 costituzionalmente garantita in una delle seguenti forme:  invasione,
 compressione  o disconoscimento. Dunque anche il solo disconoscimento
 delle  attribuzioni   costituzionalmente   garantite,   puo'   essere
 impugnato  in  sede di conflitto qualora si traduca in un'illegittima
 interferenza nella sfera regionale (v. sentenza  n.  153  del  1986).
 Perche'  vi  sia l'illegittima interferenza nella sfera regionale, la
 stessa giurisprudenza  costituzionale  richiede  una  "manifestazione
 chiara  di  volonta'"  da  parte  dell'organo statuale che "neghi (la
 competenza) regionale ovvero sia  intesa  a  sottrarre  alle  Regioni
 competenze ad esse costituzionalmente garantite" (v.  da ultimo sent.
 n.  174  del  1996):  la sola affermazione della valutazione negativa
 implica di per se' la  volonta'  di  disconoscere  l'esistenza  della
 sfera di attribuzioni regionali costituzionalmente garantite.
   In una recente pronuncia della Corte in tema di conflitti tra Stato
 e  regioni,  si  e' ben precisato che la stessa fondatezza - e quindi
 non soltanto l'ammissibilita' - delle censure avanzate dalla  regione
 ricorrente  si  puo'  accertare  anche  "con riferimento agli effetti
 riflessi" che l'atto statale presuntivamente lesivo "e' in  grado  di
 determinare   (...)  ai  fini  dell'esercizio  dei  poteri  regionali
 connessi" alla materia oggetto del conflitto (sent. n. 534 del 1995).
 In altri termini, il conflitto tra Stato e regione puo'  ben  sorgere
 in  relazione  ad  un  atto  statale  in cui la negazione manifestata
 esplicitamente circa le  specifiche  attribuzioni  costituzionalmente
 garantite  alle  Regioni,  risulti  anche  idonea a produrre "effetti
 riflessi"  sull'esistenza  delle  competenze   costituzionali   delle
 regioni, implichi cioe' un inevitabile impedimento al loro esercizio,
 in   senso   difforme   rispetto   alla   volonta'  dichiarata  nella
 Costituzione.
   Non e' il caso in questa sede di ripercorrere le valutazioni che la
 dottrina  costituzionalistica  italiana  ha  svolto  sul  tema  della
 competenza  regionale  in  materia  di  sanita'  ex  art.  117  della
 Costituzione; ne' e' il caso di tornare  sulle  linee  di  evoluzione
 dell'ordinamento,  nel  cui  ambito  l'autonomia  regionale  in  tale
 materia e' stata oggetto di menomazioni e limitazioni provenienti  da
 diversi fronti. Roma locuta, causa finita.
   Cio'  che  viene in considerazione nel presente conflitto e' che la
 Corte   costituzionale,   dichiarando   inammissibile   il    quesito
 referendario  in  questione  in  ragione  del  fatto  che la proposta
 regionale  coinvolge  "funzioni   amministrative   costituzionalmente
 necessarie",  la cui necessaria persistenza nell'ordinamento e' stata
 dedotta, quale inevitabile seppure  implicito  corollario,  dall'art.
 32,  primo  comma  della  Costituzione,  e'  giunta  a configurare un
 inammissibile  irrigidimento  dell'assetto  costituzionale  italiano,
 individuando limiti in via preventiva e qualificatoria, in forma tale
 da  impedire  lo  stesso  avverarsi della leale cooperazione che e' a
 fondamento della  partecipazione  regionale  alle  attivita'  stauali
 mediante  l'iniziativa referendaria, limiti che potrebbero non essere
 oltrepassati, non solo  dall'iniziativa  referendaria  o  legislativa
 regionale,  bensi' anche dallo stesso legislatore statale ordinario e
 costituzionale.
   Con  siffatta  decisione  la   Corte   costituzionale   -   sviando
 dall'ambito  di controllo dell'ammissibilita' del referendum, ad essa
 commesso non gia' dalla Costituzione, ma dalla  legge  costituzionale
 n. 1 del 1953 - rischia di vincolare la stessa attivita' di revisione
 costituzionale  in  corso  di  svolgimento da parte della Commissione
 parlamentare per  le  riforme  costituzionali,  la  quale,  ai  sensi
 dell'art.  1,  comma  4,  della  legge 24 gennaio 1997, n. 1 "elabora
 progetti  di  revisione  della  parte  II  della   Costituzione,   in
 particolare  in  materia  di  forma  di  Stato,  forma  di  governo e
 bicameralismo, sistema delle garanzie".
   In occasione di un processo  riformatore,  che  -  per  scelta  del
 legislatore costituzionale della legge costituzionale n. 1 del 1997 -
 incontra   come   limite   operativo   il   rispetto   dei   principi
 costituzionali fondamentali e dei loro corollari impliciti, la Corte,
 promuovendo una scelta discrezionale  del  legislatore  al  rango  di
 principio  costituzionale  fondamentale,  irrigidisce  in  modo e con
 strumenti  inammissibili  il  modello  del   regionalismo   italiano,
 vincolando  ad  esso  lo  stesso  legislatore  costituzionale.  A tal
 proposito,  occorre  ricordare  che  in  una  delle proposte di legge
 costituzionale presentate dai Consigli regionali, volte  a  conferire
 al  nostro  ordinamento un assetto federale, ed attualmente all'esame
 della predetta Commissione  bicamerale,  non  viene  attribuita  allo
 Stato  (ora  Federazione)  alcuna  specifica competenza ne' di ordine
 legislativo, ne' soprattutto  di  ordine  amministrativo  in  materia
 sanitaria  (v. gli artt. 117 e 118 della Costituzione come modificati
 dagli artt. 30 e  31  della  proposta  di  legge  costituzionale  del
 Consiglio  regionale dell'Emilia-Romagna, in Atti Camera n. 2900). In
 definitiva, la decisione della  Corte  rende  oramai  irrealizzabile,
 anche  con legge di rango costituzionale di iniziativa regionale, una
 nuova configurazione dei rapporti Stato-regioni in materia  sanitaria
 che escluda dirette competenze amministrative statali.
   Si obiettera' che tra i compiti della Corte rientra anche quello di
 individuare  i principi costituzionali immodificabili e si citera' al
 proposito la notissima sentenza n. 1146 del 1988.
   Non dopo aver ricordato che parti autorevoli della  dottrina  hanno
 contestato    che    alla    Corte    spetti   la   declaratoria   di
 incostituzionalita'  di  verfassungswidrige   Verfassungsnormen,   va
 comunque  sottolineato  come  la  sede  in  cui  e'  stata operata la
 contestata lesione della collocazione  costituzionale  della  Regione
 appaia affatto impropria.
   L'individuazione di principi costituzionali e di loro corollari nel
 giudizio   di   ammissibilita'  del  referendum  rischia  infatti  di
 trasformare  quello  che   dovrebbe   essere   nient'altro   che   un
 subprocedimento   di   controllo   tutto   interno   al  procedimento
 referendario  -  la  cui  attribuzione  o  sottrazione   alla   Corte
 costituzionale certo non modificherebbe la natura della giurisdizione
 costituzionale  -  in  un  autonomo procedimento dichiarativo, in via
 generale  ed  astratta,  dell'esistenza  di  principi  costituzionali
 impliciti, inespressi o reperibili in fonti legislative ordinarie.
   Il  rischio  e'  che la Corte la' dove giudichi dell'ammissibilita'
 delle richieste referendarie, finisca in tal modo -  qualora  non  si
 attenga  al piu' rigoroso seif restraint - non piu' per dichiarare la
 conformita'/non conformita' dell'iniziativa referendaria  alle  fonti
 di  rango  costituzionale,  nei limiti dei parametri ivi indicati, ma
 per  dichiarare  l'esistenza/non  esistenza  di  norme   e   principi
 costituzionali  impliciti  da  ricercare  a tutto campo, senza alcuna
 preventiva delimitazione dei parametri del giudizio.
   Invero, se l'oggetto del giudizio di ammissibilita' e'  predefinito
 dall'atto  di  iniziativa  referendaria, il parametro del giudizio e'
 delimitato dalla legge costituzionale n.  1  del  1953  nell'art.  75
 della  Costituzione; e' noto che tale limitazione si sia rivelata del
 tutto insufficiente e sia stata superata, rendendo  la  stessa  Corte
 libera  nel  cercare,  nel complesso sistematico della Costituzione e
 dei suoi principi, il parametro di  volta  in  volta  piu'  adeguato.
 Cosi'   facendo   tuttavia,   essa,   non  piu'  strettamente  tenuta
 dall'oggetto e dai parametri del caso di specie, corre il rischio  di
 abbandonare  il  suo ruolo di giudice, ancorche' costituzionale, e di
 trasformarsi da organo iuris-dicente (da mihi factum dabo  tibi  ius)
 in  incarnazione  vivente della Costituzione: il sovrano tecnocratico
 o, se si preferisce, l'antisovrano (quod principi placuit legis habet
 vigorem).
   Nel  campo piu' tradizionale della garanzia dei diritti, il rischio
 di sconfinamento e' tuttavia bilanciato da un sistema di contropoteri
 politici e istituzionali. Nonche' da una ormai diffusa adesione  allo
 spirito   democratico   del   sistema   costituzionale   che  rendono
 improponibile un siffatto rischio. Nel rapporto tra Stato e  regioni,
 invece,  la  tradizione  centralistica  del nostro sistema politico e
 amministrativo,  appena  scalfita  dalla  regionalizzazione  avvenuta
 negli  anni  settanta,  e  le  fortissime  resistenze  burocratiche e
 localistiche ad ogni serio processo di piu' forte  regionalizzazione,
 rendono  assai  piu'  probabile il rischio di questo sconfinamento in
 mancanza  di  adeguati  "contrappesi  regionali".   Significativo   a
 riguardo  e'  il  fatto  che i referendum di iniziativa regionale - a
 prescindere  dalla  loro  effettiva  ammissibilita'  -  siano   stati
 definiti   da  taluni  addirittura  come  "eversivi  dell'ordinamento
 costituzionale".