Ricorso per conflitto di  attribuzione  della  regione  Puglia,  in
 persona  del vice presidente pro-tempore della Giunta, dott. Raffaele
 Fitto, ai sensi della delibera di Giunta n. 1368 dell'8 aprile  1997,
 rappresentato  e  difeso  dagli  avv.ti  prof.  Beniamino Caravita di
 Toritto  e  prof.  Aldo  Loiodice,  e  presso  lo  studio  del  primo
 elettivamente domiciliato, in Roma, via Torquato Taramelli 22, contro
 il  Presidente  del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente
 del Consiglio pro-tempore, per l'annullamento della  decisione  della
 Corte  costituzionale  n.  20  del 30 gennaio/10 febbraio 1997 che ha
 dichiarato  inammissibile  la  proposta  di  referendum  popolare  in
 materia  di  partecipazione  delle regioni alle attivita' dell'Unione
 europea.
                               F a t t o
   I Consigli regionali della Calabria, della Lombardia, del Piemonte,
 della Puglia, della Valle  d'Aosta  e  del  Veneto  hanno  presentato
 richiesta  di  referendum  popolare  abrogativo  -  pubblicata  nella
 Gazzetta Ufficiale, serie generale, n. 230 del 1 ottobre 1996  -  sul
 seguente  quesito:    "Volete voi che siano abrogati: l'art. 4, primo
 comma, limitatamente alle  parole  ''e  con  la  Comunita'  economica
 europea''  e  l'art.  6  del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 (Attuazione
 della delega di cui all'art.
  1 della legge 22 luglio 1975, n. 382); gli artt. 9 e 11 della  legge
 9  marzo  1989, n. 86 norme generali sulla partecipazione dell'Italia
 al processo normativo comunitario e  sulle  procedure  di  esecuzione
 degli obblighi comunitari)?"
   Con  ordinanza  del  26-27  novembre 1996 l'Ufficio centrale per il
 referendum, costituito presso la Corte di cassazione,  ha  dichiarato
 tale richiesta legittima.
   Successivamente,  in  seguito  alla  comunicazione  della  suddetta
 ordinanza, il presidente della Corte costituzionale ha fissato per la
 deliberazione la camera di consiglio dell'8 gennaio 1997.
   Ai sensi dell'art. 33, terzo comma della legge n. 352 del  1970,  i
 delegati  dei  Consigli  regionali  si sono avvalsi della facolta' di
 presentare memorie.
   La Corte costituzionale, con  decisione  n.  20,  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale, 1 serie speciale, n. 7 del  12 febbraio 1997, ha
 dichiarato l'inammissibilita' della richiesta.
   La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile  il  referendum
 vertente  sugli artt. 4, primo comma, e 6  del d.P.R. 24 luglio 1977,
 n. 616, e gli artt. 9 e 11 della legge 9 marzo  1989,  n.  86,  sulla
 base della seguente motivazione:
   "L'operazione  manipolativa  condotta sull'art. 4, primo comma, del
 d.P.R. n.616 del 1977, consente di cogliere con la  stessa  chiarezza
 la  ratio obiettiva della richiesta di abrogazione totale delle altre
 disposizioni sopra richiamate. E' del tutto estraneo alla complessiva
 proposta promuovere,  per  mezzo  dell'abrogazione  referendaria,  la
 definizione  di una nuova disciplina delle funzioni statali enumerate
 e regolate in quelle disposizioni (artt. 6  del  d.P.R.  n.  616  del
 1977,  e  9  e  11 della legge n. 86 del 1989), ed e' invece evidente
 l'intendimento, che si fa dunque oggettivo  nell'intero  quesito,  di
 eliminare   con  referendum  autoapplicativo,  insieme  al  principio
 dell'esistenza di funzioni statali nei rapporti comunitari  (art.  4,
 primo  comma,  del  d.P.R.  n.  616 del 1977), la positiva disciplina
 delle funzioni stesse, in modo  che  ogni  potere  e  ogni  funzione,
 compresi  quelli  che  attengono a istanze unitarie e infrazionabili,
 siano rimessi alle  regioni.  Tale  essendo  l'oggettiva  consistenza
 della richiesta referendaria, essa e' da dichiarare inammissibile.
   Anche  se  nell'attuale stadio del processo di integrazione europea
 si assiste ad una crescente espansione del ruolo delle autonomie  nel
 contesto  del  diritto  comunitario,  l'insieme delle funzioni che lo
 Stato e' chiamato ad esercitare nei rapporti con la comunita' europea
 non  puo'  essere  rimosso  e  globalmente  assunto  dalle   regioni,
 ostandovi il principio di unita' ed indivisibilita' della Repubblica,
 sancito  nell  'art.  5  della  Costituzione.  E'  infatti  su questo
 principio che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (da  ultimo,
 sentenza  n.  126  del  1996)  si  fonda  la  spettanza allo Stato di
 funzioni (che si concretano in atti di indirizzo e di coordinamento e
 nell'esercizio di  poteri  sostitutivi  e  suppletivi),  che  possono
 essere  bensi'  diversamente  disciplinate  in  direzione di una piu'
 consistente valorizzazione del principio autonomistico,  ma  che  non
 possono  essere  fatte  definitivamente  tacere,  secondo l'obiettivo
 intendimento che si appalesa nella richiesta referendaria".
   Tale   decisione   risulta   essere   lesiva   della   collocazione
 costituzionale delle regioni per i seguenti motivi di
                             D i r i t t o
   1. - Circa la posizione della Corte costituzionale nel conflitto di
 attribuzione  tra  Stato  e regioni originato da un atto lesivo della
 stessa Corte costituzionale.
   Il principio di legittimita' costituzionale  che  regge  il  nostro
 ordinamento,  siccome  ordinamento dotato di Costituzione rigida e di
 controllo di costituzionalita', impone che contro ogni atto posto  in
 essere da un organo facente riferimento all'ordinamento statuale, che
 leda   presuntivamente   la  sfera  di  attribuzione  regionale,  sia
 ammissibile il rimedio  del  conflitto  di  attribuzione.  Mentre  la
 legittimazione  processuale attiva, per lo Stato, spetta per legge al
 Presidente del Consiglio dei Ministri, ed al presidente della  Giunta
 regionale per la regione (v. art. 39, comma 1, legge n. 87 del 1953),
 nulla   e'   disposto  dalla  legge  in  ordine  all'esercizio  della
 legittimazione  passiva:  rimane  cosi'  affidato  alla  sensibilita'
 istituzionale  del  Governo  decidere  se  costituirsi  in  giudizio,
 assumendo il ruolo di resistente e facendosi cosi' carico degli  atti
 di un potere statuale pur disomogeneo.
   Nel  caso  in  questione, trattandosi di atto lesivo della sfera di
 attribuzioni garantita alle  regioni  posto  in  essere  dalla  Corte
 costituzionale nell'esercizio della sua funzione statale di controllo
 di   ammissibilita'   della   richiesta  referendaria  di  iniziativa
 regionale, il conflitto proposto dalla regione avverso  l'atto  della
 Corte   costituzionale,  quale  organo  appartenente  all'ordinamento
 statuale, risulta chiaramente ammissibile.
   La Corte costituzionale ha gia' espressamente riconosciuto  la  sua
 appartenenza  alla categoria degli organi legittimati ad essere parti
 nei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato (v.  C.  cost.
 n. 77/1981).
   Contro  tale  riconoscimento  non  varrebbe  opporre quelle vetuste
 obiezioni,  connesse  a  superate  interpretazioni  del  concetto  di
 "potere  dello  Stato",  che  non  hanno  mai  trovato  e non trovano
 riscontro ne' nella giurisprudenza costituzionale, ne' nella dottrina
 piu'  autorevole.    In  particolare,  a  chi  volesse  continuare  a
 sostenere che il concetto di "potere dello Stato" e' riferibile da un
 lato   alla   tradizionale  tripartizione  dei  poteri  dello  Stato,
 dall'altro  lato  alla  ristretta  sfera  dello  "Stato-persona"   va
 risposto, in primo luogo, che "l'organizzazione dello Stato appare in
 realta'  articolata  secondo esigenze di collegamento e coordinamento
 nonche' di bilanciamento  e  contrappeso,  assai  piu'  complesse  di
 quelle  individuate  dai  padri del costituzionalismo", e che da cio'
 discende che la "presenza di poteri incardinati  in  organi  come  la
 Corte  costituzionale,  che non fa parte del potere giudiziario; come
 il Presidente della Repubblica, che oggi non puo'  piu'  considerarsi
 parte  del  potere  esecutivo,  ecc.:  organi che godono di posizione
 costituzionale analoga a quella che  spetta  ai  titolari  delle  tre
 classiche  funzioni  pubbliche  e pertanto da considerare certamente,
 alla  pari  di  questi  ultimi,  poteri  dello  Stato"   (cosi',   G.
 Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, 368).
   Dunque,  anche  a voler concordare con quelle posizioni secondo cui
 la Corte costituzionale e' estranea al "potere giudiziario" (cosi' C.
 cost. n. 13/1960), cio' non toglie  che  la  Corte,  proprio  per  le
 funzioni  esercitate  sia come giudice di legittimita' costituzionale
 delle leggi e degli atti aventi forza  di  legge,  sia  come  giudice
 delle  accuse  contro il Capo dello Stato, sia in sede di valutazione
 dell'ammissibilita' delle richieste  di  referendum  abrogativo,  sia
 come  giudice  dei conflitti di attribuzione, rivesta la posizione di
 supremo organo costituzionale dell'ordinamento statuale.
   La qualita' di "potere  dello  Stato"  implica,  all'evidenza,  che
 dello Stato si faccia parte o che, comunque, a tale persona giuridica
 si   faccia   riferimento:   di   talche'  la  Corte  costituzionale,
 sicuramente  facente  parte  dello  Stato  nel  caso   di   conflitti
 infrasoggettivi,  non  potrebbe poi paradossalmente negare la propria
 appartenenza - o comunque  la  propria  riferibilita'  allo  Stato  -
 nell'ambito dei conflitti intersoggettivi.
   In   questo   quadro  non  sono  sicuramente  condivisibili  quelle
 obiezioni talvolta mosse in passato alla configurazione  della  Corte
 costituzionale  come organo costituzionale dello Stato, fondate sulla
 considerazione che la Corte sia un potere di particolare rango  posto
 "al  di  fuori  e  al  sopra" degli altri poteri dello Stato (Cheli),
 ovvero, che essa vada considerata  come  un  "interpotere"  destinato
 all'esecuzione  in  via giurisdizionale della Costituzione, concepita
 come ordinamento superiore, comprendente  in  se'  quello  statale  e
 quelli regionali (Pergolesi). Infatti, e' evidente che la titolarita'
 di  decisive  funzioni  di  controllo in via definitiva nei confronti
 delle leggi e delle attivita' di  organi  statuali  e  regionali  non
 implica  che  la  Corte  vada  isolata  dall'ordinamento  statuale  e
 collocata in un immaginario luogo extra-statuale, ma,  al  contrario,
 che la Corte sia considerata titolare di funzioni pubbliche statuali,
 le  quali, proprio per la loro rilevanza ed esclusivita', sono per un
 verso   costituzionalmente   garantite   e   protette   dalle   norme
 costituzionali,  per  altro  verso  da  queste  stesse  determinate e
 delimitate.
   Ne'  sarebbe  scientificamente  sostenibile  la  tesi  che  volesse
 ritenere  che  gli  atti  della Corte non possono essere impugnati in
 sede di conflitto di attribuzione tra Stato e  regioni,  giacche'  la
 Corte  costituzionale  e' organo non gia' dello Stato-persona, bensi'
 dello Stato-comunita': allo Stato-comunita' fa riferimento - cosi' si
 afferma   -   anche  la  giurisdizione  ordinaria,  amministrativa  e
 contabile; eppure, mai si e' negato che atti giurisdizionali  possano
 essere  impugnati  dalle  regioni  con  il  rimedio  del conflitto di
 attribuzione.
   D'altra parte, e' noto che,  in  via  generalissima,  la  Corte  ha
 ricompreso  tra i "poteri dello Stato", ai sensi dell'art. 134 Cost.,
 anche "figure soggettive esterne  allo  Stato-apparato,  quanto  meno
 allorche'   ad   esse   l'ordinamento  conferisca  la  titolarita'  e
 l'esercizio di  funzioni  pubbliche  costituzionalmente  rilevanti  e
 garantite,  concorrenti  con  quelle  attribuite  a  poteri ed organi
 statuali in senso  proprio"  (v.    Corte  cost.  n.  69/1978,  e  la
 successiva  giurisprudenza confermativa).   Anche a volere ammettere,
 allora, che la Corte costituzionale  possa  ritenersi  un  centro  di
 imputazione  di  poteri  dello Stato-comunita', l'impostazione citata
 non puo' essere limitata ai soli conflitti tra poteri dello Stato, ma
 deve essere  necessariamente  estesa  ai  conflitti  intersoggettivi:
 anche  gli  atti di soggetti comunque titolari di funzioni riferibili
 allo Stato-comunita', possono essere impugnati  con  il  rimedio  del
 conflitto  di  attribuzione  qualora vi sia una lesione di competenze
 costituzionalmente garantite alle regioni.
   2. - Circa  la  menomazione  determinata  dalla  motivazione  della
 sentenza di inammissibilita' della richiesta referendaria.
   La   motivazione   della  sentenza  n.  20  del  1997  della  Corte
 costituzionale, nella parte in cui afferma "la spettanza  allo  Stato
 di   funzioni   (che   si  concretano  in  atti  di  indirizzo  e  di
 coordinamento e nell'esercizio di poteri sostitutivi  o  suppletivi),
 che  possono  essere bensi' diversamente disciplinate in direzione di
 una piu' consistente valorizzazione del principio  autonomistico,  ma
 che   non   possono  essere  fatte  definitivamente  tacere,  secondo
 l'obiettivo   intendimento   che   si   appalesa   nella    richiesta
 referendaria"  delle regioni, comporta il disconoscimento della sfera
 di attribuzioni che  la  Costituzione  riconosce  e  garantisce  alle
 regioni  ai  sensi  degli  artt.  5,  71,  75, 121 e 128 Cost., nella
 partecipazione  delle  regioni  alla  determinazione  della  volonta'
 normativa   statuale,  non  solo  nella  forma  referendaria,  quanto
 soprattutto in quella legislativa,  ordinaria  e  costituzionale:  ne
 deriva  una  contrazione  ed  una  menomazione della posizione che la
 Costituzione garantisce alle regioni nei confronti dello Stato.
   La lesione dell'autonomia  regionale  costituzionalmente  garantita
 dalle  disposizioni  adesso  citate si e' determinata a seguito della
 valutazione - contenuta nella sentenza di inammissibilita' in oggetto
 - che la Corte ha espresso circa l'iniziativa regionale di  richiesta
 referendaria,  giudicata equivalente al fare "definitivamente tacere"
 funzioni  statali  che  la  Corte   considera   incontrovertibilmente
 connesse,  quali  corollari  impliciti,  al  principio  di  unita' ed
 indivisibilita'  della   Repubblica   sancito   nell'art.   5   della
 Costituzione.
   La Corte costituzionale, esorbitando dall'ambito dell'esercizio del
 potere  attribuitole  di controllare l'ammissibilita' della richiesta
 referendaria di  iniziativa  regionale,  ha  manifestato  -  in  nome
 dell'ordinamento  statuale  -  un  intenzione  lesiva,  attuale e non
 meramente congetturale, volta al disconoscimento ed alla  conseguente
 compressione    delle   attribuzioni   regionali   costituzionalmente
 garantite  circa  il  potere   di   partecipazione   regionale   alla
 determinazione della volonta' statuale.
   Tale  potere  e'  costituzionalmente  garantito  entro  i limiti di
 legittimita' costituzionalmente previsti,  e  si  fonda  sulla  piena
 liberta' regionale di determinare nella propria autonomia politica il
 contenuto   della   "ipotesi"  normativa  che  si  voglia  introdurre
 nell'ordinamento giuridico statuale.
   E' noto che la Corte costituzionale richiede, per  l'ammissibilita'
 del  conflitto  tra  Stato  e regioni, che l'attivita' statuale abbia
 prodotto  una   lesione   della   sfera   di   competenza   regionale
 costituzionalmente  garantita in una delle seguenti forme: invasione,
 compressione o disconoscimento. Dunque anche il solo  disconoscimento
 delle   attribuzioni   costituzionalmente   garantite,   puo'  essere
 impugnato in sede di conflitto qualora si traduca  in  un'illegittima
 interferenza  nella  sfera  regionale  (v.  sent.  n.  153 del 1986).
 Perche' vi sia l'illegittima interferenza nella sfera  regionale,  la
 stessa  giurisprudenza  costituzionale  richiede  una "manifestazione
 chiara di volonta'" da parte  dell'organo  statuale  che  "neghi  (la
 competenza)  regionale  ovvero  sia  intesa a sottrarre alle  regioni
 competenze ad esse costituzionalmente garantite" (v.  da ultimo sent.
 n. 174 del 1996): non si tratta dunque  di  un  cosiddetto  conflitto
 virtuale,  in  quanto la sola affermazione della valutazione negativa
 implica  di  per  se'  la  volonta'  di  disconoscere  la  sfera   di
 attribuzioni regionali costituzionalmente garantite.
   In una recente pronuncia della Corte in tema di conflitti tra Stato
 e  regioni,  si  e' ben precisato che la stessa fondatezza - e quindi
 non soltanto l'ammissibilita' - delle censure avanzate dalla  regione
 ricorrente  si  puo'  accertare  anche  "con riferimento agli effetti
 riflessi" che l'atto statale presuntivamente lesivo "e' in  grado  di
 determinare   (...)  ai  fini  dell'esercizio  dei  poteri  regionali
 connessi" alla materia oggetto del conflitto  (sentenza  n.  534  del
 1995).    In altri termini, il conflitto tra Stato e regione puo' ben
 sorgere in relazione ad un atto statale  in  cui  il  disconoscimento
 manifestato   esplicitamente   circa   le   specifiche   attribuzioni
 costituzionalmente garantite alle regioni, sia anche soltanto  idoneo
 a   produrre   "effetti  riflessi"  sull'esistenza  delle  competenze
 costituzionali  delle  regioni,   implichi   cioe'   un   inevitabile
 impedimento  ad  un  loro  esercizio, in senso difforme rispetto alla
 volonta' dichiarata nella Costituzione.
   Non e' il caso in questa sede di ripercorrere le valutazioni che la
 dottrina   costituzionalistica   italiana   ha   svolto   sul    tema
 dell'attuazione  in  sede  regionale delle normative europee, e delle
 limitazioni che da queste ultime discenderebbero in ordine al  quadro
 delle competenze costituzionalmente garantite alle regioni; ne' e' il
 caso  di  tornare  sulle linee di evoluzione dell'ordinamento che, da
 posizioni iniziali certamente restrittive  dell'autonomia  regionale,
 e'  giunto  a  consentire  una piu' ampia, seppure ancora incompleta,
 partecipazione regionale  alla  cosidetta  "fase  discendente"  della
 normativa  proveniente dagli organismi comunitari. Roma locuta, causa
 finita.
   Cio' che viene in considerazione nel presente conflitto e'  che  la
 Corte    costituzionale,   dichiarando   inammissibile   il   quesito
 referendario in questione in ragione del fatto  che  l'insieme  delle
 predette  funzioni  statali (che si concretano in atti di indirizzo e
 di  coordinamento  e   nell'esercizio   di   poteri   sostitutivi   o
 suppletivi),  indicate nell'art.  4, comma 1, del d.P.R. n. 616, "non
 puo' essere rimosso e globalmente assunto  dalle  regioni,  ostandovi
 principio  di  unita'  ed  indivisibilita'  della Repubblica, sancito
 nell'art.  5  della  Costituzione"  e'  giunta   a   configurare   un
 inammissibile  irrigidimento  dell'assetto  costituzionale  italiano,
 individuando limiti in via preventiva e qualificatoria, in forma tale
 da impedire lo stesso avverarsi di una leale cooperazione nell'ambito
 dell'unita' ed  indivisibilita'  della  Repubblica,  limiti  che  non
 potrebbero essere oltrepassati, non solo dall'iniziativa referendaria
 o  legislativa  regionale,  bensi'  anche  dallo  stesso  legislatore
 statale ordinario e costituzionale.
   Con  siffatta  decisione  la   Corte   costituzionale   -   sviando
 dall'ambito  di controllo dell'ammissibilita' del referendum, ad essa
 commesso non gia' dalla Costituzione, ma dalla legge cost. n.  1  del
 1953   -  rischia  di  impedire  la  stessa  attivita'  di  revisione
 costituzionale in corso di svolgimento  da  parte  della  Commissione
 parlamentare  per  le  riforme  costituzionali,  la  quale,  ai sensi
 dell'art. 1, comma 4, della legge 24 gennaio  1997,  n.  1,  "elabora
 progetti   di   revisione  della  parte  II  della  Costituzione,  in
 particolare in  materia  di  forma  di  Stato,  forma  di  governo  e
 bicameralismo, sistema delle garanzie".
   In  occasione  di  un  processo  riformatore,  che - per scelta del
 legislatore costituzionale della legge cost. n. 1 del 1997 - incontra
 come  limite  operativo  il  rispetto  dei  principi   costituzionali
 fondamentali  e  dei  loro corollari impliciti, la Corte, promuovendo
 una scelta discrezionale del legislatore delegato del 1977  al  rango
 di  principio  costituzionale fondamentale, irrigidisce in modo e con
 strumenti  inammissibili  il  modello  del   regionalismo   italiano,
 vincolando ad esso lo stesso legislatore costituzionale.
   A  tal  proposito,  occorre  ricordare che in una delle proposte di
 legge costituzionale  presentate  dai  Consigli  regionali,  volte  a
 conferire  al  nostro ordinamento un assetto federale, ed attualmente
 all'esame della predetta Commissione bicamerale, viene stabilito  che
 lo  Stato (divenuto Federazione) e le Regioni "ciascuno nelle proprie
 competenze legislative e esecutive, sono egualmente responsabili  per
 l'attuazione  degli  impegni assunti nell'ambito dell'Unione europea"
 (v. l'art.  119 Cost. come modificato dall'art. 32 della proposta  di
 legge  costituzionale del Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, in
 Atti Camera n. 2900), senza fare cenno alcuno in  ordine  a  funzioni
 statali   di   indirizzo,  coordinamento,  sostitutive  o  suppletive
 rispetto all'esercizio delle competenze regionali. In definitiva,  la
 decisione della Corte rende oramai immodificabile, anche con legge di
 rango costituzionale di iniziativa regionale, una scelta che e' stata
 dettata dal solo legislatore delegato con il d.P.R. n. 616 del 1977.
   Si obiettera' che tra i compiti della Corte rientra anche quello di
 individuare  i principi costituzionali immodificabili e si citera' al
 proposito la notissima sentenza n. 1146 del 1988.
   Non dopo aver ricordato che parti autorevoli della  dottrina  hanno
 contestato    che    alla    Corte    spetti   la   declaratoria   di
 incostituzionalita'  di  verfassungswidrige   Verfassungsnormen,   va
 comunque  sottolineato  come  la  sede  in  cui  e'  stata operata la
 contestata lesione della collocazione  costituzionale  della  regione
 appaia affatto impropria.
   L'individuazione di principi costituzionali e di loro corollari nel
 giudizio   di   ammissibilita'  del  referendum  rischia  infatti  di
 trasformare  quello  che   dovrebbe   essere   nient'altro   che   un
 subprocedimento   di   controllo   tutto   interno   al  procedimento
 referendario  -  la  cui  attribuzione  o  sottrazione   alla   Corte
 costituzionale certo non modificherebbe la natura della giurisdizione
 costituzionale  -  in  un  autonomo procedimento dichiarativo, in via
 generale  ed  astratta,  dell'esistenza  di  principi  costituzionali
 impliciti, inespressi o reperibili in fonti legislative ordinarie.
   Il  rischio  e'  che la Corte la' dove giudichi dell'ammissibilita'
 delle richieste referendarie, finisca in tal modo -  qualora  non  si
 attenga  al piu' rigoroso self restraint - non piu' per dichiarare la
 conformita'/non conformita' dell'iniziativa referendaria  alle  fonti
 di  rango  costituzionale,  nei limiti dei parametri ivi indicati, ma
 per  dichiarare  l'esistenza/non  esistenza  di  norme   e   principi
 costituzionali  impliciti  da  ricercare  a tutto campo, senza alcuna
 preventiva delimitazione dei parametri del giudizio.
   Invero, se l'oggetto del giudizio di ammissibilita' e'  predefinito
 dall'atto  di  iniziativa  referendaria, il parametro del giudizio e'
 delimitato dalla legge costituzionale n.  1  del  1953  nell'art.  75
 Cost.;  e'  noto  che  tale  limitazione  si  sia  rivelata del tutto
 insufficiente e sia saltata, rendendo  la  stessa  Corte  libera  nel
 cercare,  nel  complesso  sistematico  della  costituzione e dei suoi
 principi, il parametro di volta in volta piu' adeguato. Cosi' facendo
 tuttavia, essa, non  piu'  strettamente  tenuta  dall'oggetto  e  dai
 parametri  del caso di specie, corre il rischio di abbandonare il suo
 ruolo di giudice, ancorche'  costituzionale,  e  di  trasformarsi  da
 organo  iuris-dicente  (da mihi factum dabo tibi ius) in incarnazione
 vivente della  costituzione:    il  sovrano  tecnocratico  o,  se  si
 preferisce,   l'antisovrano   (quod   principi  placuit  legis  habet
 vigorem).
   Nel campo piu' tradizionale della garanzia dei diritti, il  rischio
 di sconfinamento e' tuttavia bilanciato da un sistema di contropoteri
 politici  e istituzionali, nonche' da una ormai diffusa adesione allo
 spirito  democratico   del   sistema   costituzionale   che   rendono
 improponibile  un siffatto rischio. Nel rapporto tra Stato e regioni,
 invece, la tradizione centralistica del  nostro  sistema  politico  e
 amministrativo,  appena  scalfita  dalla  regionalizzazione  avvenuta
 negli anni  settanta,  e  le  fortissime  resistenze  burocratiche  e
 localistiche  ad ogni serio processo di piu' forte regionalizzazione,
 rendono assai piu' probabile il rischio di  questo  sconfinamento  in
 mancanza   di   adeguati  "contrappesi  regionali".  Significativo  a
 riguardo e' il fatto che i referendum di  iniziativa  regionale  -  a
 prescindere   dalla  loro  effettiva  ammissibilita'  -  siano  stati
 definiti  da  taluni  addirittura  come  "eversivi   dell'ordinamento
 costituzionale".