IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 101/1995
 e n. 547/1994 p.m. a carico di:
    1) Alseno Valter;
    2) Montanari Carlo;
    3) Cagnani Vittoria;
    4) Bongiorno Carlo;
    5) Zuffada Gaetana;
    6) Bianchi Giulio;
    7) Boselli Roberto.
   Il pubblico ministero chiedeva il rinvio a giudizio degli  imputati
 specificati  in  epigrafe per i reati di cui agli artt. 110, 81 cpv.,
 323, secondo comma, c.p., ed altro.
   Il g.u.p. fissava l'udienza preliminare.
   Cio'  premesso,  questo  giudice  ripropone  anche   nel   presente
 procedimento   (tenuto  conto  dei  principi  fissati  dal  combinato
 disposto dagli artt.  23 legge 11 marzo 1953 n. 87  e  159  c.p.)  la
 questione  (gia'  sollevata  d'ufficio  nel  procedimento  penale  n.
 255/1995 g.u.p. e n.  625/1994  p.m.  in  data  16  aprile  1996)  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.    323,  secondo  comma  c.p.
 perche' in contrasto con gli artt. 25, secondo  comma,  e  97,  primo
 comma della Costituzione.
   Esaminando innanzitutto il primo profilo, l'art. 323, secondo comma
 c.p.  (ma  un discorso analogo puo' farsi per l'art. 323, primo comma
 c.p.   che   prevede,   secondo   l'orientamento    giurisprudenziale
 prevalente,  una  autonoma  ipotesi di reato) non pare rispettare uno
 degli aspetti  del  principio  di  legalita'  sancito  dall'art.  25,
 secondo  comma della Costituzione e cioe' quello della tassativita' e
 sufficiente  determinatezza  della  fattispecie  incriminatrice;   si
 tratta  di  un  aspetto  che,  come  e' noto, tende a salvaguardare i
 cittadini  contro  eventuali  abusi   del   potere   giudiziario,   a
 restringere i poteri di interpretazione del giudice.
   Non  si  intende  certo  mettere in discussione che nella redazione
 delle  fattispecie   incriminatrici   il   legislatore   possa   fare
 riferimento  ad  elementi  normativi e non solo descrittivi. Si vuole
 invece  evidenziare  che  l'art.  323  c.p.  incentra   la   condotta
 esclusivamente sull'abuso d'ufficio rinviando all'elemento soggettivo
 (dolo specifico) la rilevanza penale del fatto.
   Senonche',  come  autorevole  dottrina ha osservato, l'abuso e' una
 figura che non possiede, di per se stessa,  connotati  oggettivamente
 verificabili,  essendo  il risultato di un giudizio che si esprime su
 un comportamento spesso solo in ragione del fine che lo ha  ispirato;
 si  e' osservato che si tratta di un concetto abbastanza generico, di
 una locuzione indeterminata, di un termine neutro, incolore.
   La norma, allora, si presta a  facili  manipolazioni  e  ad  essere
 applicata   a   qualsiasi   forma   di  vizio-irregolarita'  di  tipo
 amministrativo (che possono essere legati alle ragioni piu'  varie  e
 differenti   dalla   commissione   di   un   reato);  ne  conseguono,
 inevitabilmente,    incertezze    interpretative,    indeterminatezza
 applicativa.
   Impostando correttamente il discorso in relazione all'attivita' del
 giudice  fin dall'inizio del procedimento (perche' sarebbe certamente
 riduttivo  prospettarsi  la  questione  guardando,  all'epilogo   del
 processo)  ha  ancora  osservato  autorevole  dottrina che il giudice
 penale  puo'  dire  di  trovarsi  dinanzi  ad  una  notizia  criminis
 allorche'  e' posto alla sua attenzione un fatto che, ad una sommaria
 valutazione, corrisponda nella sua materialita'  ad  una  ipotesi  di
 reato.
   Orbene,  in  relazione all'art. 323 c.p., il carattere neutro della
 condotta rende poco agevole la sussunzione  nell'ambito  della  norma
 dei  comportamenti  piu' vari che possono essere sottoposti al vaglio
 del giudice.
   Ne consegue il fondato  rischio  che,  in  concreto,  l'inizio  del
 procedimento  possa  precedere l'accertamento di una notitia criminis
 ed essere  diretto,  spesso  in  presenza  di  una  mera  ipotesi,  a
 verificare  se  nella  situazione  in esame ci sia effettivamente una
 tale notitia.
   Va poi evidenziato che, come  emerge  dai  lavori  preparatori,  il
 legislatore  del  1990  si  era  espressamente  posto l'obbiettivo di
 meglio tipicizzare i comportamenti lesivi dei beni da tutelare  nella
 p.a.;  senonche'  in  tema di abuso, gli stessi lavori rendono chiaro
 che la formulazione attuale dell'art. 323 c.p.  fu  dettata  anche  e
 soprattutto da motivazioni non tecniche (incentrando la condotta solo
 sull'abuso  e  non  inserendo  un  evento  di  tipo  naturalistico si
 anticipava la  soglia  di  punibilita'  "per  evitare  rimproveri  di
 eccessiva indulgenza").
   L'insufficiente determinatezza dell'art. 323 c.p. appare piu' grave
 se  si  considera  che  la norma viene ad assumere un ruolo cardine e
 centrale nel sistema penale della p.a.: essa non ha piu' la  funzione
 sussidiaria  dell'originario  abuso innominato; ha inglobato (e si e'
 parlato di  fattispecie  "onnivora")  il  peculato  per  distrazione,
 l'interesse  privato  in  atti d'ufficio, l'abuso innominato; e tutto
 cio' con la previsione di pene certamente non lievi.
   Ad avviso di questo giudice,  inoltre  non  si  puo'  ritenere  che
 l'art.  323 c.p. sia sufficientemente determinato per la presenza del
 dolo  specifico;  si  tratta,  come  e'  noto, di uno degli argonenti
 centrali con il quale nella ormai datata sentenza n.  7/65  la  Corte
 costituzionale  dichiaro'  non  fondata  la  questione  sollevata  in
 relazione alla vecchia fattispecie di  abuso  innominato.  Senonche',
 come  pure  e'  stato  sostenuto  in  dottrina,  la  fattispecie  non
 acquisisce maggiore tassativita' attraverso il mero  dolo  specifico;
 in   proposito   non   va   trascurato   che   nella  interpretazione
 giurisprudenziale (anche se in verita' nelle pronunce piu' recenti la
 suprema Corte ha posto un freno a tale orientamento),  la  prova  del
 dolo   specifico   viene  tratta  spesso  dalla  mera  illegittimita'
 dell'atto del comportamento: l'elemento soggettivo  diviene  un  mero
 corollario di quello oggettivo.
   Passando  all'esame  del  secondo  profilo  di  incostituzionalita'
 denunciato,  va  ribadito  che  sarebbe  riduttivo  prospettarsi   la
 questione   guardando  solo  al  risultato  finale  del  procedimento
 (l'applicazione "discrezionale" della norma di abuso ai fini  di  una
 eventuale  condanna): nella realta' giudiziale, anzi, pare prevalgano
 decisioni in senso assolutorio.
   Occorre invece considerare quella che una  autorevole  dottrina  ha
 definito  una  invadenza giudiziale "primaria" che si esprime, di per
 se', attraverso la sola attivazione dei meccanismi processuali.
   In  questo  senso  l'art.  323  c.p.,  con  la  sua   insufficiente
 determinatezza   costituisce   una   facile   chiave   di  accesso  a
 disposizione del giudice penale per penetrare  nel  territorio  della
 p.a.  ed instaurare un processo penale: e gia' soltanto questo, si e'
 giustamente  osservato,  e'  fonte  di  immediato  discredito  per  i
 pubblici amministratori e di riflesso per la p.a.
   L'art. 323 c.p. costituisce allora "una spada di Damocle" che grava
 sulla testa anche dell'amminisiratore piu' onesto.
   Tutto  cio'  compromette  seriamente "il buon andamento della p.a."
 voluto dall'art. 97 della Costituzione: da un lato  perche'  consente
 con  facilita'  incursioni giudiziali in una normativamente riservata
 sfera di valutazione discrezionale  della  p.a.;  dall'altro  perche'
 genera  un  clima  non  favorevole  alla  serenita'  della  attivita'
 amministrativa ed una situazione quindi, come pure  si  e'  detto  in
 dottrina,  che  puo'  stimolare  l'immobilismo,  favorire mancanza di
 iniziativa, seminare preoccupazioni anche fra gli amministratori piu'
 onesti.
   Tutto cio' compromette seriamente, si ripete, lo svolgimento di una
 azione amministrativa  in  modo  efficiente;  appropriato,  adeguato,
 spedito.
   Paradossalmente   l'art.  323  c.p.  pare  proprio  quel  bene  che
 costituisce l'oggetto specifico della tutela penale.
   La  questione,  che  si  solleva  di   ufficio,   oltre   che   non
 manifestamente  infondata, e' poi, di tutta evidenza rilevante per la
 decisione, attesa la concreta incidenza sul corso del processo.