IL PRETORE
   Letti  gli atti relativi al procedimento di esecuzione mobiliare n.
 86 del 1980, ha emesso la seguente ordinanza.
   Rilevato che nei confronti di Presciutti Luigi, Presciutti Romano e
 Presciutti Enrico era  stata  iniziato  procedimento  esecutivo,  con
 pignoramento,  ex  art.  543  c.p.c., delle quote di capitale sociale
 conferite nella S.p.a. Agricola Valdegiano  dai  predetti  Presciutti
 Luigi, Enrico e Romano;
     che non essendo comparsi all'udienza fissata per la dichiarazione
 del  terzo  ne'  i  debitori esecutati ne' il terzo pignorato, veniva
 iniziato presso il tribunale  di  Ancona  il  giudizio  ex  art.  649
 c.p.c.;
     che  il  tribunale  di  Ancona,  premessa  la  correttezza  della
 procedura esecutiva effettuata nelle forme  del  pignoramento  presso
 terzi, dichiarava la sussistenza del credito;
     che  dopo  la  predetta  sentenza  del  tribunale, il pretore del
 tempo, giudice dell'esecuzione, disattendeva, con provvedimento del 3
 aprile 1992, la richiesta  di  prosecuzione  del  processo  esecutivo
 avanzata  dalla Banca Agricola e Commerciale di Reggio Emilia S.p.a.,
 osservando che "l'art. 549 c.p.c.  dispone  come  detta  prosecuzione
 debba  avvenire  nel termine concesso dal giudice con la sentenza che
 definisce il giudizio, intendendosi con tale termine  la  statuizione
 definitiva, o quanto meno esecutiva";
     che  con  successiva  istanza, depositata il 5 settembre 1996, la
 Banca Agricola e  Commerciale  di  Reggio  Emilia  S.p.a.  tornava  a
 chiedere  la riassunzione dell'esecuzione forzata, sottolineando come
 la Corte d'appello di Ancona aveva respinto  i  contrapposti  appelli
 proposti dalle parti contro la sentenza del tribunale;
     che,  dopo  che  il  pretore aveva fissato udienza per sentire le
 parti sul punto, Presciutti Luigi  eccepiva,  fra  l'altro,  di  aver
 proposto  ricorso  per  Cassazione  contro  la  sentenza  della Corte
 d'appello, mentre parte istante  per  la  riassunzione  del  processo
 esecutivo  contestava  l'indirizzo assunto da questo pretore, secondo
 il quale la "sentenza che definisce il giudizio" di cui all'art.  549
 c.p.c.  era  da  considerarsi  la  sentenza  passata  in giudicato, e
 contestava altresi' che vi fosse la  prova  idonea  del  ricorso  per
 Cassazione presentato da controparte.
   Tanto  premesso,  ritiene  innanzitutto questo pretore, in punto di
 rilevanza della  questione  di  legittimita'  costituzionale  che  si
 intende  prospettare,  che  la  circostanza  che sia stato presentato
 ricorso per cassazione non doveva essere  dimostrato  dal  Presciutti
 Luigi:   se si accede alla tesi secondo la quale la norma dispone che
 la riassunzione e' possibile solo a seguito di  sentenza  passata  in
 giudicato,  e' all'istante in riassunzione del processo esecutivo che
 compete l'onere probatorio che  vi  siano  tutti  i  presupposti  per
 l'accoglimento, in rito, della sua istanza, ivi compreso il passaggio
 in  giudicato  della  sentenza  stessa.  Ed anche a voler essere meno
 rigorosi, va osservato che nella fattispecie la difesa del Presciutti
 Luigi ha prodotto nota del 19 febbraio 1997 di un legale patrocinante
 in Cassazione, suo corrispondente, con la quale viene  dichiarato  di
 aver   provveduto   all'iscrizione   a  ruolo  del  ricorso,  cui  la
 Cancelleria della cassazione ha assegnato il n. 1932/1997.  A  fronte
 di  tale  produzione, va detto che l'onere di provare il contrario si
 sposta sull'istante in riassunzione.
   Cio' posto, ritiene questo pretore rilevante e  non  manifestamente
 infondata  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 549
 c.p.c.,  laddove  richiede,  al  fine  di  riassumere   il   processo
 esecutivo,  la  sentenza  che  "definisce  il  giudizio". Non si puo'
 aderire all'interpretazione che dell'art. 549 c.p.c. da', sul  punto,
 l'istante  in  riassunzione.    Infatti, pur in assenza di precedenti
 giurisprudenziali editi, sopratutto della Corte  di  cassazione,  non
 appare  possibile  tale interpretazione, che pure sarebbe aderente ai
 principi costituzionali.  Ma  l'interpretazione  secondo  il  dettato
 costituzionale  e'  pur sempre possibile laddove la portata letterale
 della norma lo permetta, e questo non e' il caso. Quando si parla  di
 sentenza  che  definisce  il giudizio, non puo' che intendersi quella
 non piu' soggetta a mezzi di impugnazione ordinaria. Che  l'art.  549
 c.p.c. vada interpretato nel senso appena predetto lo hanno affermato
 i  due maggiori processualisti che si sono occupati ex professo della
 materia, sebbene una parte minoritaria degli interpreti  ammetta  che
 sia  sufficiente  la  sola  sentenza  di primo grado. In ogni caso, a
 parere di questo pretore, il dato letterale non lascia alternative.
   Se  cosi'  e',  deve  tuttavia  affermarsi  che  la  norma   appare
 incostituzionale sotto diversi aspetti.
   In  primo  luogo,  v'e'  contrasto  con  l'art.  3 Cost., essendovi
 diversita' di trattamento, nella tutela esecutiva dei diritti, tra  i
 casi in cui viene introdotto il giudizio di accertamento dell'obbligo
 del  terzo  ed  i  casi  in  cui  tale giudizio non viene introdotto.
 Sebbene sia evidente che si tratta di due situazioni  differenti,  la
 diversita' di trattamento viene amplificata a dismisura ed in maniera
 abnorme dalla necessita' di attendere, eventualmente, anche tre gradi
 di   giudizio   (ed  eventuali  giudizi  di  rinvio)  laddove  invece
 l'accertamento raggiunto con la sentenza di primo grado  ha  gia'  un
 sufficiente   grado   di  certezza.  L'ingiustificata  disparita'  di
 trattamento viene in rilievo anche nel confronto tra l'esecuzione  su
 crediti del debitore e tutti gli altri tipi di esecuzione.
   In  secondo  luogo,  con  tale irragionevole allungamento dei tempi
 processuali, viene compresso in maniera inaccettabili il  diritto  di
 agire  per  la  difesa  del  proprio  diritto  in sede esecutiva, con
 violazione dell'art. 24 della Cost.: cio' appare tanto piu'  evidente
 nella  presente  fattispecie,  ove  il processo esecutivo e' iniziato
 nell'anno 1980, e dalla sentenza di  primo  grado  che  accertava  il
 diritto sono passati ormai sei anni.
   In   terzo   luogo  appare  teso  l'art.  97,  primo  comma,  della
 Costituzione, il quale sancisce il buon  andamento  della  p.a.,  con
 principio  applicabile  anche  all'amministrazione della giustizia. E
 sebbene  si  tratti  di  situazioni  che  non  appartengono  ad   una
 giurisdizione   di  diritto  obiettivo,  e'  indubbio  che  anche  la
 inadeguata o inidonea tutela dei diritti soggettivi dei singoli  puo'
 provocare   intollerabili   disfunzioni   nell'amministrazione  della
 giustizia, con negative ripercussioni di carattere generale (sfiducia
 degli utenti, obbligo di gestione  di  fascicoli  che  appesantiscono
 inutilmente i ruoli, ecc).