IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 717/1996
 g.i.p. e n. 132/1996 p.m.
   Il  pubblico ministero chiedeva il rinvio a giudizio degli imputati
 indicati in epigrafe per i reati di cui agli  artt. 110, 323 c.p.  ed
 altro.
   Il g.u.p. fissava l'udienza preliminare.
   Cio'  premesso,  questo  giudice,  ripropone  anche  nel   presente
 procedimento   (tenuto  conto  dei  principi  fissati  dal  combinato
 disposto dagli artt.  23, legge 11 marzo 1953 n. 87 e  159  c.p.)  la
 questione  (gia'  sollevata  d'ufficio  nel  procedimento  penale  n.
 255/1995 g.i.p. e n. 625/1994 p.m. in data 16 aprile 1996  in  ordine
 all'art.  323,  secondo  comma,  c.p.) di legittimita' costituzionale
 dell'art. 323, primo comma, c.p.  perche' in contrasto con gli  artt.
 25, secondo comma e 97, primo comma Cost.
   Esaminando  innanzitutto  il primo profilo, l'art. 323, primo comma
 c.p. (ma un discorso analogo puo' farsi per l'art. 323, secondo comma
 c.p.   che   prevede,   secondo   l'orientamento    giurisprudenziale
 prevalente,  una  autonoma  ipotesi di reato) non pare rispettare uno
 degli aspetti  del  principio  di  legalita'  sancito  dall'art.  25,
 secondo  comma Cost.  e cioe' quello della tassativita' e sufficiente
 determinatezza della fattispecie  incriminatrice;  si  tratta  di  un
 aspetto  che,  come e' noto, tende a salvaguardare i cittadini contro
 eventuali abusi del potere giudiziario, a  restringere  i  poteri  di
 interpretazione del giudice.
   Non  si  intende  certo  mettere in discussione che nella redazione
 delle  fattispecie   incriminatrici   il   legislatore   possa   fare
 riferimento  ad  elementi  normativi e non solo descrittivi. Si vuole
 invece  evidenziare  che  l'art.  323  c.p.  incentra   la   condotta
 esclusivamente sull'abuso d'ufficio rinviando all'elemento soggettivo
 (dolo specifico) la rilevanza penale del fatto.
   Senonche',  come  autorevole  dottrina ha osservato, l'abuso e' una
 figura che non possiede, di per se stessa,  connotati  oggettivamente
 verificabili,  essendo  il risultato di un giudizio che si esprime su
 un comportamento spesso solo in ragione del fine che lo ha  ispirato;
 si  e' osservato che si tratta di un concetto abbastanza generico, di
 una locuzione indeterminata, di un termine neutro, incolore.
   La norma, allora, si presta a  facili  manipolazioni  e  ad  essere
 applicata   a   qualsiasi   forma   di  vizio-irregolarita'  di  tipo
 amministrativo (che possono essere legati alle ragioni piu'  varie  e
 differenti   dalla   commissione   di   un   reato);  ne  conseguono,
 inevitabilmente,    incertezze    interpretative,    indeterminatezza
 applicativa.
   Impostando correttamente il discorso in relazione all'attivita' del
 giudice  fin dall'inizio del procedimento (perche' sarebbe certamente
 riduttivo  prospettarsi  la  questione  guardando   all'epilogo   del
 processo)  ha  ancora    osservato autorevole dottrina che il giudice
 penale  puo'  dire  di  trovarsi  dinanzi  ad  una  notitia  criminis
 allorche'  e' posto alla sua attenzione un fatto che, ad una sommaria
 valutazione,  corrisponda  nella  sua materialita' ad  una ipotesi di
 reato.
   Orbene, in relazione all'art. 323 c.p., il carattere  neutro  della
 condotta  rende  poco  agevole la sussunzione nell'ambito della norma
 dei comportamenti piu' vari che possono essere sottoposti  al  vaglio
 del giudice.
   Ne  consegue  il  fondato  rischio  che,  in concreto, l'inizio del
 procedimento possa precedere l'accertamento di una  notitia  criminis
 ed  essere  diretto,  spesso  in  presenza  di  una  mera  ipotesi, a
 verificare se nella situazione in esame  ci  sia  effettivamente  una
 tale notitia.
   Va  poi  evidenziato  che,  come  emerge dai lavori preparatori, il
 legislatore del 1990 si era espressamente posto l'obiettivo di meglio
 tipicizzare i comportamenti lesivi dei beni da tutelare nella p.a.;
  senonche' in tema di abuso, gli stessi lavori rendono chiaro che  la
 formulazione   attuale   dell'art.   323  c.p.  fu  dettata  anche  e
 soprattutto da motivazioni non tecniche (incentrando la condotta solo
 sull'abuso e  non  inserendo  un  evento  di  tipo  naturalistico  si
 anticipava  la  soglia  di  punibilita'  "per  evitare  rimproveri di
 eccessiva indulgenza".
   L'insufficiente determinatezza dell'art. 323 c.p. appare piu' grave
 se si considera che la norma viene ad assumere  un  ruolo  cardine  e
 centrale  nel sistema penale della p.a.: essa non ha piu' la funzione
 sussidiaria dell'originario abuso innominato; ha inglobato (e  si  e'
 parlato  di  fattispecie  "onnivora")  il  peculato  per distrazione,
 l'interesse privato in atti d'ufficio, l'abuso  innominato;  e  tutto
 cio' con la previsione di pene certamente non lievi.
   Ad  avviso  di  questo  giudice,  inoltre, non si puo' ritenere che
 l'art. 323 c.p. sia sufficientemente determinato per la presenza  del
 dolo  specifico;  si  tratta,  come  e'  noto, di uno degli argomenti
 centrali con il quale nella ormai datata sentenza n. 7/1965 la  Corte
 costituzionale  dichiaro'  non  fondata  la  questione  sollevata  in
 relazione alla vecchia fattispecie di  abuso  innominato.  Senonche',
 come  pure  e'  stato  sostenuto  in  dottrina,  la  fattispecie  non
 acquisisce maggiore tassativita' attraverso il mero  dolo  specifico;
 in   proposito   non   va   trascurato   che   nella  interpretazione
 giurisprudenziale (anche se in verita' nelle pronunce piu' recenti la
 suprema Corte ha posto un freno a tale orientamento),  la  prova  del
 dolo   specifico   viene  tratta  spesso  dalla  mera  illegittimita'
 dell'atto e del comportamento:  l'elemento soggettivo diviene un mero
 corollario di quello oggettivo.
   Passando  all'esame  del  secondo  profilo  di  incostituzionalita'
 denunciato,   va  ribadito  che  sarebbe  riduttivo  prospettarsi  la
 questione  guardando  solo  al  risultato  finale  del   procedimento
 (l'applicazione  "discrezionale"  della norma di abuso ai fini di una
 eventuale condanna): nella realta' giudiziale, anzi, pare  prevalgano
 decisioni in senso assolutorio.
   Occorre  invece  considerare  quella che una autorevole dottrina ha
 definito una invadenza giudiziale "primaria" che si esprime,  di  per
 se', attraverso la sola attivazione dei meccanismi processuali.
   In   questo  senso  l'art.  323  c.p.,  con  la  sua  insufficiente
 determinatezza  costituisce  una   facile   chiave   di   accesso   a
 disposizione  del  giudice  penale per penetrare nel territorio della
 p.a. ed instaurare un processo penale: e gia' soltanto questo, si  e'
 giustamente  osservato,  e'  fonte  di  immediato  discredito  per  i
 pubblici amministratori e di riflesso per la p.a.
   L'art. 323 c.p. costituisce allora "una spada di Damocle" che grava
 sulla testa anche dell'amministratore  piu' onesto.
   Tutto cio' compromette seriamente "il buon  andamento  della  p.a."
 voluto  dall'art. 97 Cost.: da un lato perche' consente con facilita'
 incursioni  giudiziali  in  una  normativamente  riservata  sfera  di
 valutazione  discrezionale  della  p.a.; dall'altro perche' genera un
 clima non favorevole alla serenita' della attivita' amministrativa ed
 una  situazione  quindi,  come pure si e' detto in dottrina, che puo'
 stimolare l'immobilismo, favorire mancanza  di  iniziativa,  seminare
 preoccupazioni anche fra gli amministratori piu' onesti.
   Tutto cio' compromette seriamente, si ripete, lo svolgimento di una
 azione  amministrativa  in  modo  efficiente;  appropriato, adeguato,
 spedito.
   Paradossalmente l'art. 323 c.p. pare minare proprio quel  bene  che
 costituisce l'oggetto specifico della tutela penale.
   La   questione,   che   si   solleva  di  ufficio,  oltre  che  non
 manifestamente infondata, e' poi, di tutta evidenza rilevante per  la
 decisione, attesa la concreta incidenza sul corso del processo.