IL TRIBUNALE Ha emanato la seguente ordinanza sulla istanza di fallimento proposta da dott. proc. Gabriele Perdomi, elettivamente domiciliato in Bologna, presso e nello studio dell'avv. Sandro Callegaro, in via Morandi n. 4, il 16 febbraio 1996, al n. 160/1996 a carico di Nuova Blitz S.a.s. e dell'accomandataria Maria Giuseppina Piazzi; Visto il verbale dell'udienza del 28 ottobre 1996 e dato atto della successiva memoria difensiva della accomandataria Piazzi dep. il 6 novembre 1996; Visti gli atti della istruttoria prefallimentare e ritenuta acquisita la prova dell'avvenuta cancellazione (il 31 dicembre 1994) della societa' debitrice dal registro delle imprese (v. cert. Canc. comm. del 22 gennaio 1996), come confermato all'udienza dall'ex socia accomandataria, senza che altri indizi, forniti dall'istante o sollecitati all'acquisizione officiosa, siano stati indotti a smentita della circostanza; Dato atto che il credito azionato dall'istante, originariamente sorto da una prestazione professionale impagata pari a poco piu' di 630 mila lire e di altre 510 mila lire circa per il rimborso delle spese di legale domiciliatario, deriva da un decreto ingiuntivo emesso il 9 febbraio 1995 e non seguito, nonostante la sua successiva esecutorieta', da alcun atto adempitivo; la procedura esecutiva mobiliare intentata a carico della Blitz S.a.s. e' invero risultata infruttuosa (per chiusura dei locali, v. all. del 6 settembre 1995) e parimenti priva di capienza e' stata anche l'espropriazione promossa direttamente a carico della socia illimitatamente responsabile; In esito all'istruttoria e' peraltro emerso che una residua titolarita' di diritti espropriabili permane in capo alla sola Piazzi, attualmente occupata con modesto reddito mensile (circa 800 mila lire) non assoggettato a pignoramento e marginale capacita' di saldo, enunciata in lire 100 mila mensili; altri beni, ad eccezione di un'automobile personale del 1980, non sono stati riscontrati; Nonostante la modestia del credito esposto, pur contestato per la parte concernente il computo finale comprensivo delle spese e dunque maturato sino a quasi 5 milioni, appare difficile una comparazione con la residua suscettibilita' di garanzia patrimoniale invocata dalla socia, essendo del tutta esclusa la solvibilita' del soggetto societario: a) Osserva tuttavia questo Collegio che, secondo l'orientamento di c.d. diritto vivente seguito in sede di legittimita' (v. da ult. Cass. 19 giugno 1996, n. 5679), i menzionati presupposti di fatto dovrebbero condurre in ogni caso alla dichiarazione di fallimento senza alcuna valorizzazione della portata precettiva, pur formalmente enunciata anche per le societa', dell'art. 10 l. fall.; l'insolvenza, certamente acclarata, della societa' Blitz S.a.s. costituisce invece un requisito che non puo' essere reso coincidente, sia pur sotto il limitato profilo della permanenza di un rapporto passivo da estinguere, con la "vita" ovvero "non estinzione sostanziale" della societa' stessa, quasi in termini abroganti della possibilita' di applicare, appunto anche alle societa' (e come mai escluso dalla stessa giurisprudenza di legittimita'), la citata norma di chiusura di cui all'art. 10 1.fall.; tale convincimento, tuttavia, non trova spazio applicativo se la decorrenza del termine dell'anno promana da un evento (la liquidazione, anche dal lato passivo, di tutti i rapporti giuridici) non invece richiesto per l'imprenditore individuale. La relativa ultrattivita' (cioe' dopo la cessazione dell'impresa) delle norme fallimentari rinviene infatti nel limite temporale un elemento che si aggiunge alla cesura gia' immanente alla unitaria concezione "economica" dell'imprenditore commerciale offerta dall'art. 2082 c.c.: l'accesso alla procedura concorsuale, con le conseguenze anche sanzionatorie affliggenti il titolare, non sopravvive, di regola, alla scomparsa dell'identita' funzionale dei beni costituiti in azienda. Il limite dell'anno di cui all'art. 10 1.fall. assolve, per converso, alla concorrente funzione di evitare che, in frode ai creditori, il patrimonio di garanzia si sottragga alla responsabilita' per debiti in virtu' di un'iniziativa volontaria di liquidazione, libera nel nostro ordinamento; b) La maggiore vivacita' interpretativa si appunta sul significato da attribuire alla nozione di "cessazione dell'impresa" per sfociare, come noto, in autentica contrapposizione ricostruttiva in ordine all'estensione del concetto nel campo degli imprenditori collettivi. Pur dunque subendo l'influenza della tipologia di insolvente fallibile la predetta condizione oscilla tra l'effettiva interruzione del processo produttivo ed anche la dissoluzione in se' del suo titolare colto nella sua veste di imprenditore commerciale: le due nozioni infatti, ancorche' non coincidenti in ambito societario, possono essere partitamente espresse anche con riguardo al singolo, quando si ravvisi il materiale esaurimento dell'esercizio di un'attivita' e l'inizio di un'altra ovvero l'acquisizione di una condizione economico-professionale estranea all'ambito dell'art. 2082 c.c. Si puo' tuttavia rilevare che il saldo legame con l'insolvenza postulato dalla norma accentua, nell'interpretazione criticata, la cennata difficolta' di censimento: la distinzione delle varie attivita' d'impresa proprie, anche per sequenza temporale diacronica, del medesimo soggetto puo' inerire a diversi regimi delle rispettive iniziative ma non vulnera l'unicita' della figura di imprenditore, essendo sufficiente che la dichiarazione di fallimento avvenga entro l'anno dalla cessazione dell'esercizio di una delle attivita' di impresa, perche' egli risponda in forma concorsuale di tutte le obbligazioni assunte sia in attivita' non imprenditoriali, sia in attivita' imprenditoriali precedentemente esercitate ed in ipotesi esaurite. A cio' non puo' non pervenirsi dato che la norma non fissa una nozione di insolvenza diversa da quella di cui all'art. 5 1.fall.: il fallimento appartiene alle reazioni ordinamentali verso l'imprenditore incapace di fronteggiare i suoi debiti, qualunque ne sia la natura. Per l'imprenditore individuale, dunque, la fine dell'impresa procede da una ricognizione in fatto dell'arresto di ogni attivita' tipizzante quella o altre attivita' economiche comunque riconducibili all'art. 2082 c.c.: se e' riconosciuto non essere di ostacolo all'applicazione della norma l'omessa denunzia di cessazione al registro (un tempo) ditte della camera di commercio (Trib. Cagliari 18 maggio 1992, Giur.it 1992,I,2,524) il carattere intrinsecamente "commerciale" degli atti e' rivelato dalla obbiettiva connotazione speculativa contraddistinguente le singole operazioni, siano esse della stessa natura di quelle della gestione caratteristica (Trib. MiIano 12 marzo 1992, Fallimento 1992,645) ovvero di mera liquidazione (Trib. Civitavecchia 27 gennaio 1989, Dir.fall. 1990,II,254, piu' cambiali ed assegni) e, nella stessa ipotesi ma, con risalto al carattere equivoco del titolo astratto e, dunque, per l'esonero dal fallimento, Trib. Roma 22 luglio 1981, ivi 1982,II,166), anche compiute allorche' nel patrimonio dell'imprenditore non vi siano piu' beni idonei ad assicurare il funzionamento della relativa impresa (Trib. Udine 21 giugno 1984, Dir.fall. 1985,II,216). La cessazione opera in termini oggettivi, vale a dire "per qualunque causa": cio' ha spiegato l'equiparazione, negli effetti di certezza che la norma mira a garantire, del sequestro preventivo penale d'azienda (decidente non in se' ma in quanto non seguito da atti d'impresa: Trib. Orvieto 30 maggio 1994, Fallimento 1995,306) alla alienazione a terzi del nucleo costitutivo dei beni gia' tipizzanti l'attivita' (Trib. Cosenza 28 luglio 1982, Fallimento 1983,685). La materialita' dell'arresto dell'esercizio d'impresa, piuttosto che la dissoluzione del bene-azienda, sorregge altresi' la casistica in cui il requisito negativo e' dimostrato quale effetto raggiunto in concreto anche al di la' della previsione contrattuale dismissiva e della astratta opponibilita' ai terzi; c) Tale ultima considerazione reintroduce la problematicita' del quadro probatorio: non vigono in materia regimi di opponibilita' legale connessa alla pubblicita', ne' puo' ascriversi significato confessorio alle dichiarazioni rese dall'imprenditore, ben potendo, tuttavia, essere dichiarato il fallimento se, maturata in sede istuttoria (anche a seguito di informazioni acquisite ex officio) una articolazione indiziaria normalmente connotante l'attualita' dell'esercizio (es. il mantenimento della partita I.V.A., la iscrizione al registro delle imprese, la pendenza dei contratti di servizio, la mancanza di altra occupazione reddituale, l'intestazione della licenza o concessione abilitante, la sussistenza delle insegne e dei mezzi pubblicitari statici) il fallendo non riesca a fornire la prova positiva della effettiva cessazione postulata dall'art. 10 1.fall. I creditori istanti e l'ufficio procedente, invero, possono dire assolta l'iniziativa a sostegno della indicazione necessaria del legittimato passivo all'azione fallimentare una volta instaurata una presunzione semplice che, ex art. 2729 c.c., integri i dati di tipicita' sociale immanenti all'attualita' dell'impresa individuale; d) L'art. 10 1.fall. esige, per l'insolvenza dell'impresa cessata, che la relativa crisi di liquidita' o produttiva si sia manifestata anteriormente alla menzionata cessazione o, comunque, entro l'anno successivo. La chiara riproposizione del lessico introdotto all'art. 5 1.fall. e la mancata instaurazione (anche rispetto al previgente codice di commercio) di un nesso di inerenza dei debiti all'esercizio dell'impresa circoscrive l'indice di riconoscibilita' del requisito: l'accertamento del Tribunale si fonda sulle obbligazioni scadute e non pagate emergenti sia prima che dopo il ritiro dell'attivita', proprie dell'impresa o non, relative a debiti anteriori o successivi, con l'unico limite dell'anno; oltre tale scadenza prevale un interesse pubblico a non vincolare ulteriormente alla garanzia collettiva il patrimonio del debitore, potendo i singoli riprendere iniziative individuali ovvero chiedere l'affermazione di altre, concorrenti, responsabilita' (ad es. penali o, nel caso di specie, dei singoli soci ex artt. 2312/2315 c.c.); e) La pronuncia di fallimento deve intervenire entro il citato anno: nessuna sospensione o interruzione puo' incrinare l'oggettiva decorrenza del termine che, dunque, si palesa coincidente, quale dies ad quem, con lo stesso deposito della sentenza. Esso opera quale onere indiretto gravante sulla parte istante ed altresi' come limite obbiettivo al potere del giudice. Per gli imprenditori collettivi l'orientamento seguito dalla prevalente giurisprudenza assume, come premesso, che solo con l'effettivo esaurimento della liquidazione puo' dirsi avvenuta l'estinzione della societa', cosi' che, permanendo taluni debiti, non puo' cominciare a decorrere il termine dell'anno (cfr. per tutte Cass. 24 luglio 1992, n. 8924, Fallimento 1993,48,ID. 20 dicembre 1988, n. 6953, ivi 1989,510, Trib. Torino 15 aprile 1994, ivi 1994,1297); la cancellazione dal registro delle imprese, evento formale, in se' non potrebbe coincidere con il dies a quo di cui all'art. 10 1.fall., secondo un parallelismo esplicitamente suggerito rispetto all'imprenditore individuale, la liquidazione della cui azienda si differenzia solo per l'assenza di una specifica fase codicisticamente tipizzata. Corollario inevitabile e' (come avvenuto) la pratica inapplicabilita' della stessa preclusione temporale non potendosi mai ipotizzare per le societa', comprese quelle di fatto (Trib. Milano 29 ottobre 1994, Giuri.it. 1995,I,2,160), un evento costitutivo del termine iniziale, la cui decorrenza verrebbe differita all'esaurimento dell'ultimo rapporto passivo (Trib. Milano 3 ottobre 1986, Dir.fall. 1987,II,731), con scomparsa allora dell'insolvenza. L'ingresso alle diverse tesi dottrinali rivolte a restituire immaginabile percorribilita' circolare all'art. 10 1.fall., evitandone un'interpretazione abrogativa de jure condito, ha peraltro trovato solo occasionali recezioni nella giurisprudenza di merito: il dies ad quem e' stato in genere rinvenuto nella cancellazione dal registro delle imprese (App. Milano 29 settembre 1977, Giur.comm. 1978,II,88 in cui si contesta che, ex artt. 2312 e 2456 c.c., possa avere rilevanza la distinzione tra estinzione formale (o presuntiva) e reale; conf. Trib. Varese 21 maggio 1990, Foro Pad. 1991,I,198) non sembrando invece accolto lo stimolo ad approfondire unitariamente la nozione di cessazione dell'impresa nei suoi profili distintivi rispetto alla scomparsa del suo titolare (ente o persona fisica). Le maggiori suggestioni interpretative unitarie peraltro procedono dalla linea di coerenza che, facendo leva sulla formale assenza di una restrizione soggettiva espressamente posta dall'art. 10 1.fall., vieterebbe di aderire ad un'ipotesi di estinzione inidonea a rendere applicabile l'istituto del fallimento, pur volendo accogliere, quale termine iniziale, la chiusura delle operazioni di liquidazione (coincida o meno con la cancellazione). A tale esito si puo' tuttavia pervenire, per superare un'ingiustificata disparita' di trattamento, solo a patto di un chiarimento del giudice delle leggi che sussuma la considerazione "reale" dell'impresa societaria che non dovrebbe fallire per il solo "avere ad oggetto attivita' commerciale", occorrendo "l'esercizio effettivo di una tale attivita'", dunque escludendosi che una societa' (ancora) inattiva possa fallire, ne' potendosi sempre affermare che la cessazione dell'impresa coincida con la liquidazione. D'altronde lo stesso art. 10 1.fall. (e pure il successivo) trova il suo presupposto di applicazione nella "persistenza di debiti di chi non e' piu' imprenditore". All'interno della disciplina societaria appare inoltre persuasivamente ricordato, dalla stessa dottrina, che la ratio della responsabilita' sussidiaria limitata dei soci ed eventualmente dei liquidatori ex art. 2456 o 2312 c.c. in caso di sopravvenienze passive, precludendo ai creditori della societa' di potersi soddisfare sul patrimonio dell'ente, suona conferma che la societa' piu' non esiste; la cancellazione dal registro delle imprese toglie dunque azione ai creditori sociali, circoscrive quantitativamente l'ipotesi del loro concorso con i creditori particolari, allarga la responsabilita' ai liquidatori. Proprio il sistema degli artt. 2312 e 2456 c.c. confligge con il postulato di una societa' che non si estingue mai se non ha adempiuto (o comunque fatto cessare) tutti i suoi rapporti passivi. Nella fattispecie la mancanza di sintomi infirmanti l'apparente chiusura dell'attivita', anche al vecchio registro delle ditte cessata al 31 dicembre 1994, pur aggiornata con l'ultimo atto pubblicitario e successivo all'estinzione, cioe' la denuncia di fine attivita' presso la CCIAA (al 4 gennaio 1995), non sposta l'estraneita' oggettiva del riferimento temporale: l'anno di cui all'art. 10 1.fall. era trascorso da oltre un mese con riguardo al deposito gia' dell'istanza di fallimento (16 febbraio 1996) ed a maggior ragione esso ora individua un conflitto di disparita' di trattamento che una pronuncia di accoglimento in esito alla presente istruttoria inevitabilmente recherebbe; f) Cosi' definiti i margini di rilevanza della questione, i profili di non manifesta infondatezza procedono - sulla traccia della altrimenti vincolante interpretazione della giurisprudenza di legittimita' - dall'apparente contrasto con lo statuto vivente dell'imprenditore commerciale singolo, riguardato nel suo momento estintivo reale e nella sua eguale natura speculativa: la denunciata, priva di giustificazione razionale, diversita' di trattamento non puo' invero riposare sulla presunta speculativita' immanente alla sola impresa collettiva (argomento d'altronde ancora utilizzato in materia di presupposti soggettivi di fallibilita' con riguardo alla piccola societa' commerciale) poiche' la norma censurata (l'art. 10 1.fall.) palesemente attiene al regime temporale della pronuncia nel presupposto, comune ai due tipi di soggetto, della ammissibilita' di un accesso alle procedure concorsuali; se, conclusivamente, l'art. 10 1.fall. viene ribadito quale esistente per ogni figura di imprenditore che, per definizione, e' insolvente (altrimenti nemmeno sarebbe portato all'attenzione istruttoria del Tribunale fallimentare) contrasta allora sia con l'art. 3 della Costituzione che con l'art. 24 della Costituzione un regime interpretativo cogente per il giudice di merito e volto ad esigere, con la fine della liquidazione e nonostante la cancellazione dal registro delle imprese, l'esaurimento anche dei rapporti passivi della societa', cioe' la rimozione - in pratica - dell'elemento oggettivo della fallibilita'; gli elementi di contraddizione con i citati parametri costituzionali non sono peraltro estranei alla giurisprudenza dell'Alta Corte adita che, in materia, gia' ha espunto dall'ordinamento il limite presuntivo assoluto dell'investimento di capitale attorno alla figura del piccolo imprenditore commerciale (con riguardo all'art. 3: v. sent. 22 dicembre 1989, n. 570) ed il vincolo alla declaratoria per debito fiscale (con riguardo all'art. 24: v. sent. 9 marzo 1992, n. 89); la caratterizzazione di un regime unitario, con accenti di omologia interpretativa oggi non rinvenibili sul piano dell'art. 10 1.fall., ben dunque si espone ad un intervento di chiarificazione restrittiva della norma o di rimozione dall'ordinamento di essa se, de jure condito, intesa in chiave confliggente con tali valori costituzionali; essi sono infatti vulnerati processualmente, dal punto di vista dell'imprenditore collettivo, anche per la presunzione assoluta, non vincibile con prova contraria, di essere ancora un soggetto non "cessato" pur dopo ogni espletamento delle formalita' (cancellazione dal registro delle imprese) richieste dallo stesso codice civile per fondare uno spostamento delle responsabilita' non piu' riferibili ad un ente ancora giuridicamente attivo o sussistente;