IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha   emesso  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale  n.
 1030/1995 g.i.p. e n. 126/1995 p.m. a carico di Filippini Roberto.
   Il pubblico ministero chiedeva il rinvio a  giudizio  dell'imputato
 indicato  in  epigrafe  per  il reato di cui agli artt. 81 cpv., 323,
 comma 2, c.p.
   Il g.u.p. fissava l'udienza preliminare.
   Cio'  premesso,  questo  giudice,  ripropone  anche  nel   presente
 procedimento   (tenuto  conto  dei  principi  fissati  dal  combinato
 disposto dagli artt.  23 legge 11 marzo 1953 n. 87  e  159  c.p.)  la
 questione  (gia'  sollevata  d'ufficio  nel  procedimento  penale  n.
 255/1995 r.g. g.i.p. e n. 625/1994 p.m. in data  16  aprile  1996  in
 ordine  all'art.  323, comma 2, c.p.)  di legittimita' costituzionale
 dell'art. 323, comma 2, c.p. perche' in contrasto con gli  artt.  25,
 secondo comma, e 97, primo comma Cost.
   Esaminando  innanzitutto il primo profilo, l'art. 323, comma 2 c.p.
 (ma un discorso analogo puo' farsi per l'art. 323, comma 1  c.p.  che
 prevede,  secondo  l'orientamento  giurisprudenziale  prevalente, una
 autonoma ipotesi di reato) non pare rispettare uno degli aspetti  del
 principio  di legalita' sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.  e
 cioe' quello della tassativita' e  sufficiente  determinatezza  della
 fattispecie  incriminatrice;  si  tratta  di  un aspetto che, come e'
 noto, tende a salvaguardare i cittadini contro  eventuali  abusi  del
 potere  giudiziario,  a  restringere  i poteri di interpretazione del
 giudice.
   Non si intende certo mettere in  discussione  che  nella  redazione
 delle   fattispecie   incriminatrici   il   legislatore   possa  fare
 riferimento ad elementi normativi e non solo  descrittivi.  Si  vuole
 invece   evidenziare   che  l'art.  323  c.p.  incentra  la  condotta
 esclusivamente sull'abuso d'ufficio rinviando all'elemento soggettivo
 (dolo specifico) la rilevanza penale del fatto.
   Senonche', come autorevole dottrina ha osservato,  l'abuso  e'  una
 figura  che  non possiede, di per se stessa, connotati oggettivamente
 verificabili, essendo il risultato di un giudizio che si  esprime  su
 un  comportamento spesso solo in ragione del fine che lo ha ispirato;
 si e' osservato che si tratta di un concetto abbastanza generico,  di
 una locuzione indeterminata, di un termine neutro, incolore.
   La  norma,  allora,  si  presta  a facili manipolazioni e ad essere
 applicata  a  qualsiasi  forma   di   vizio-irregolarita'   di   tipo
 amministrativo  (che  possono essere legati alle ragioni piu' varie e
 differenti  dalla  commissione   di   un   reato);   ne   conseguono,
 inevitabilmente,    incertezze    interpretative,    indeterminatezza
 applicativa.
   Impostando correttamente il discorso in relazione all'attivita' del
 giudice  fin dall'inizio del procedimento (perche' sarebbe certamente
 riduttivo  prospettarsi  la  questione  guardando   all'epilogo   del
 processo)  ha  ancora  osservato  autorevole  dottrina che il giudice
 penale  puo'  dire  di  trovarsi  dinanzi  ad  una  notitia  criminis
 allorche'  e' posto alla sua attenzione un fatto che, ad una sommaria
 valutazione, corrisponda nella sua materialita'  ad  una  ipotesi  di
 reato.
   Orbene,  in  relazione all'art. 323 c.p., il carattere neutro della
 condotta rende poco agevole la sussunzione  nell'ambito  della  norma
 dei  comportamenti  piu' vari che possono essere sottoposti al vaglio
 del giudice.
   Ne consegue il fondato  rischio  che,  in  concreto,  l'inizio  del
 procedimento  possa  precedere l'accertamento di una notitia criminis
 ed essere  diretto,  spesso  in  presenza  di  una  mera  ipotesi,  a
 verificare  se  nella  situazione  in esame ci sia effettivamente una
 tale notitia.
   Va poi evidenziato che,  come  emerge  dai  lavori  preparatori  il
 legislatore del 1990 si era espressamente posto l'obiettivo di meglio
 tipicizzare  i  comportamenti lesivi dei beni da tutelare nella p.a.;
 senonche' in tema di abuso, gli stessi lavori rendono chiaro  che  la
 formulazione   attuale   dell'art.   323  c.p.  fu  dettata  anche  e
 soprattutto da motivazioni non tecniche (incentrando la condotta solo
 sull'abuso e  non  inserendo  un  evento  di  tipo  naturalistico  si
 anticipava  la  soglia  di  punibilita'  "per  evitare  rimproveri di
 eccessiva indulgenza").
   L'insufficiente determinatezza dell'art. 323 c.p. appare piu' grave
 se si considera che la norma viene ad assumere  un  ruolo  cardine  e
 centrale  nel sistema penale della p.a.: essa non ha piu' la funzione
 sussidiaria dell'originario abuso innominato; ha inglobato (e  si  e'
 parlato  di  fattispecie  "onnivora")  il  peculato  per distrazione,
 l'interesse privato in atti d'ufficio, l'abuso  innominato;  e  tutto
 cio' con la previsione di pene certamente non lievi.
   Ad  avviso  di  questo  giudice,  inoltre, non si puo' ritenere che
 l'art.323 c.p. sia sufficientemente determinato per la  presenza  del
 dolo  specifico;  si  tratta,  come  e'  noto, di uno degli argomenti
 centrali con il quale nella ormai datata sentenza n. 7/1965 la  Corte
 costituzionale  dichiaro'  non  fondata  la  questione  sollevata  in
 relazione alla vecchia fattispecie di  abuso  innominato.  Senonche',
 come  pure  e'  stato  sostenuto  in  dottrina,  la  fattispecie  non
 acquisisce maggiore tassativita' attraverso il mero  dolo  specifico;
 in   proposito   non   va   trascurato   che   nella  interpretazione
 giurisprudenziale (anche se in verita' nelle pronunce piu' recenti la
 suprema Corte ha posto un freno a tale orientamento),  la  prova  del
 dolo   specifico   viene  tratta  spesso  dalla  mera  illegittimita'
 dell'atto e del comportamento: l'elemento soggettivo diviene un  mero
 corollario di quello oggettivo.
   Passando  all'esame  del  secondo  profilo  di  incostituzionalita'
 denunciato,  va  ribadito  che  sarebbe  riduttivo  prospettarsi   la
 questione   guardardo  solo  al  risultato  finale  del  procedimento
 (l'applicazione "discrezionale" della norma di abuso ai fini  di  una
 eventuale  condanna): nella realta' giudiziale, anzi, pare prevalgano
 decisioni in senso assolutorio.
   Occorre  invece  considerare  quella che una autorevole dottrina ha
 definito una invadenza giudiziale "primaria", che si esprime, di  per
 se', attraverso la sola attivazione dei meccanismi processuali.
   In   questo  senso  l'art.  323  c.p.,  con  la  sua  insufficiente
 determinatezza  costituisce  una   facile   chiave   di   accesso   a
 disposizione  del  giudice  penale per penetrare nel territorio della
 p.a. ed instaurare un processo penale: e  gia'  soltanto  questo,  e'
 giustamente  osservato,  e'  fonte  di  immediato  discredito  per  i
 pubblici amministratori e di riflesso per la p.a.
   L'art. 323 c.p. costituisce allora "una spada di Damocle" che grava
 sulla testa anche dell'amministratore piu' onesto.
   Tutto cio' compromette seriamente "il buon  andamento  della  p.a."
 voluto  dall'art. 97 Cost.: da un lato perche' consente con facilita'
 incursioni  giudiziali  in  una  normativamente  riservata  sfera  di
 valutazione  discrezionale  della  p.a.; dall'altro perche' genera un
 clima non favorevole alla serenita' della attivita' amministrativa ed
 una situazione quindi, come pure si e' detto in  dottrina,  che  puo'
 stimolare  l'immobilismo,  favorire  mancanza di iniziativa, seminare
 preoccupazioni anche fra gli amministratori piu' onesti.
   Tutto cio' compromette seriamente, si ripete, lo svolgimento di una
 azione amministrativa  in  modo  efficiente;  appropriato,  adeguato,
 spedito.
   Paradossalmente  l'art.  323 c.p. pare minare proprio quel bene che
 costituisce l'oggetto specifico della tutela penale.
    La  questione,  che  si  solleva  di  ufficio,   oltre   che   non
 manifestamente  infondata, e' poi, di tutta evidenza rilevante per la
 decisione, attesa la concreta incidenza sul corso del processo.