Il  giudice  per  le  indagini  preliminari  dott.  Alberto Macchia
 all'udienza del 16 maggio 1997 ha pronunziato la seguente ordinanza.
   1. - Questo giudice procede nei confronti di Boso Erminio Enzo nato
 a Pieve Tesino (Trento) il 9 luglio 1945, quale imputato del reato di
 cui agli articoli 595 c.p. e 13 della legge 8 febbraio 1948,  n.  47,
 per  aver  offeso  la reputazione di Cioffredi Giampiero, rilasciando
 all'agenzia di stampa AGI una dichiarazione, diffusa da tale  agenzia
 in  data  15  gennaio  1996  e  ripresa  e  pubblicata in sintesi dal
 quotidiano "La Nazione" in data 16 gennaio 1996, dal seguente tenore:
 "Cioffredi chi e'? Sicuramente un fannullone della burocrazia  romana
 e   di  sinistra.     Gente  che  non  ha  il  concetto  del  lavoro,
 responsabilita' sociale e del denaro altrui. Questi sono  i  negrieri
 che insieme con la Caritas, i comunisti ed i sindacati hanno derubato
 i  lavoratori  italiani  promettendo  l'Eldorado alla gente del terzo
 mondo. Sono pifferai da banda di quartiere, veri  nemici  dei  nostri
 connazionali  che sopravvivono con 300 mila lire di pensione al mese.
 Io  non  faccio  folklore  e  dico  a  questa  marionetta   che   per
 regolarizzare un extracomunitario, secondo l'eta', ci vogliono da 400
 ai  600  milioni.  La  solidarieta'  si  fa  con i soldi e non con le
 chiacchiere e le balle di questi negrieri che si vogliono spartire  i
 3 mila miliardi dei contribuenti, fuori bilancio dello Stato, e messi
 nelle mani della Caritas".
   Con   ordinanza   del   27  novembre  1996  e'  stata  disposta  la
 trasmissione di copia degli atti al Senato della  Repubblica  per  la
 deliberazione  in  ordine alla questione relativa alla applicabilita'
 dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, a norma  dell'art.  2,
 comma 4, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 555, all'epoca vigente.
   Con nota dell'8 maggio 1997, il Presidente del Senato ha comunicato
 che,  "relativamente  alla  richiesta  di deliberazione in materia di
 insindacabilita',  ai  sensi  dell'art.  68,   primo   comma,   della
 Costituzione,  nell'ambito  del procedimento penale nei confronti del
 signor Erminio Boso, senatore all'epoca dei fatti, per  il  reato  di
 cui  all'art.    595  del  codice  penale,  trasmessa con nota del 28
 novembre 1996, il Senato della Repubblica, nella seduta del 7  maggio
 1997,  ha  deliberato  di  ritenere che il fatto attribuito al signor
 Boso  concerne  opinioni  espresse  da  un  membro   del   Parlamento
 nell'esercizio delle sue funzioni e ricade, pertanto, nell'ipotesi di
 cui all'art. 68, comma primo, della Costituzione".
   La  giurisprudenza  della Corte costituzionale e', come e' noto, da
 tempo consolidata nell'interpretare l'art. 68,  primo  comma,  Cost.,
 nel  senso che esso attribuisce alla Camera di appartenenza il potere
 di  valutare  la  condotta  addebitata  a  un  proprio  membro,   con
 l'effetto,    qualora   sia   ritenuta   esercizio   delle   funzioni
 parlamentari,  di  inibire  in  ordine ad essa una difforme pronuncia
 giudiziale, sempre che il potere sia stato correttamente  esercitato.
 Qualora  reputi che la delibera favorevole all'applicazione dell'art.
 68, primo comma, sia il risultato di un esercizio  non  corretto  del
 potere  -  per  vizi  in  procedendo  oppure  per  omessa  o  erronea
 valutazione  dei  suoi  presupposti,  in  particolare  per  manifesta
 estraneita' della condotta del parlamentare al concetto di "opinione"
 o  di "esercizio delle funzioni" - il giudice, al quale si e' rivolta
 la persona lesa dalle  dichiarazioni  diffamatorie  contestate,  puo'
 soprassedere   dalla   dichiarazione   immediata   di  applicabilita'
 dell'art. 68 sollevando conflitto di attribuzione davanti alla stessa
 Corte, con effetto sospensivo del giudizio pendente davanti a lui (v.
 sentenze nn. 1150 del 1988, 443 del 1993 e 129 del 1996).  La  stessa
 Corte costituzionale, d'altra parte, non ha mancato di osservare come
 sul  tema  delle  immunita'  parlamentari  si  registrino due opposte
 tendenze: da un lato, una rilevante accentuazione  del  principio  di
 eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge conduce a ritenere, in
 linea  di  principio,  inammissibile  la  sottrazione  dei membri del
 Parlamento  alle  regole  del  diritto  comune  e  a   postulare   la
 sottoposizione alla giurisdizione di ogni loro comportamento.
   Sull'opposto  versante,  una  configurazione  della autonomia delle
 Assemblee  rappresentative  in  termini   di   assolutezza   vorrebbe
 sottratti  a  qualsiasi forma di sindacato esterno, in primo luogo al
 sindacato del giudice penale, tutti i comportamenti dei membri  delle
 Camere  dovunque  tenuti  e in qualunque modo collegati all'esercizio
 delle loro funzioni, ritenendosi tale prerogativa  coessenziale  alla
 sovranita'  del  Parlamento.  A  fronte  delle accennate, antagoniste
 tendenze, pero',  -  ha  osservato  la  Corte  -  stanno  i  principi
 costituzionali  dai  quali  invece  risulta un equilibrio razionale e
 misurato tra le istanze  dello  stato  di  diritto,  che  tendono  ad
 esaltare  i  valori  connessi all'esercizio della giurisdizione, e la
 salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare sottratti al diritto
 comune, che valgono a conservare alla rappresentanza politica un  suo
 indefettibile  spazio di liberta'. "Sono infatti coperti da immunita'
 non tutti i comportamenti dei membri delle  Camere,  ma  solo  quelli
 strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni
 proprie  del  potere  legislativo,  mentre  ricadono sotto il dominio
 delle regole di diritto comune i comportamenti  estranei  alla  ratio
 giustificativa  dell'autonomia  costituzionale  delle Camere". E' ben
 vero, ha ancora puntualizzato la Corte, che la  individuazione  della
 linea  di  confine  tra  i  due distinti valori della autonomia della
 Camera, da un lato, e della legalita'-giurisdizione,  dall'altro,  si
 fa  problematica  nelle  ipotesi  in cui - come nella specie - alcuni
 beni  morali  della  persona,  che  e'  la  Costituzione   stessa   a
 qualificare  inviolabili (onore, reputazione, pari dignita'), vengono
 a  collidere  con  l'insindacabilita'  dell'opinione   espressa   dal
 parlamentare,  che  e'  momento  insopprimibile  (e,  ben puo' dirsi,
 anch'esso inviolabile), della liberta' della funzione.
   Ma e' altrettanto vero - ha concluso la Corte - che la "fisiologica
 interferenza tra due situazioni di liberta' genera  in  tal  caso  un
 conflitto  tra  valori dotati entrambi di cogenza costituzionale", in
 relazione al quale la composizione non puo' che  avvenire  attraverso
 il  modulo  procedimentale  che  la  richiamata  giurisprudenza della
 stessa Corte ha avuto modo di  delineare  (v.  sentenza  n.  379  del
 1996).
   3.  -  Da  tutto  cio'  possono  dunque  trarsi alcuni fondamentali
 corollari.  La condotta del parlamentare, per essere assistita  dalla
 garanzia costituzionale della irresponsabilita', a sua volta - e come
 si  e'  visto  -  fondamentale ed ineludibile strumento per il libero
 esercizio  degli  alti  compiti  riservati  a  ciascun   membro   del
 Parlamento,  deve  esprimersi  attraverso  "opinioni":  in piu', deve
 trattarsi   di   opinioni   che   risultino   intimamente   correlate
 all'esercizio  della  funzione  parlamentare,  giacche',  altrimenti,
 l'unica garanzia correttamente evocabile e' quella della liberta'  di
 manifestare  il  proprio  pensiero  con  la parola, lo scritto e ogni
 altro mezzo di diffusione che l'art.   21  della  Carta  fondamentale
 assicura  a tutte le persone. Risultera' subito evidente, quindi, che
 potendosi a qualsiasi argomento annettere, o pretendere di annettere,
 riflessi di portata generale  e,  dunque,  un  interesse  lato  sensu
 "politico",  ove si ritenesse di far coincidere con l'esercizio della
 funzione   parlamentare   qualsiasi   opinione   non   esclusivamente
 "privata",  l'area  della  immunita'  risulterebbe  di fatto priva di
 qualsiasi confine,  con  evidente  vanificazione  della  ratio  della
 garanzia  costituzionale  e  della interpretazione ad essa data dalla
 Corte costituzionale. Non e', pertanto, il maggiore o minor tasso  di
 "politicita'"   a   rendere   l'opinione   espressa   ontologicamente
 riconducibile all'esercizio del munus che viene qui in  discorso,  ma
 e'  soltanto  la  necessaria  strumentalita' che quella opinione deve
 obiettivamente  presentare  rispetto  alla  funzione   a   costituire
 l'elemento  che  "qualifica"  l'espressione  del  pensiero, facendola
 assurgere al rango di "atto" che il parlamentare  liberamente  compie
 avvalendosi  delle  proprie  prerogative, a prescindere dalla sede in
 cui viene adottato e dalla forma che  lo  stesso  assume.  Accanto  a
 cio',   per   potersi   correttamente  fare  appello  all'equilibrato
 componimento tra il valore  della  autonomia  parlamentare  e  quello
 della  legalita'-giurisdizione  e dissolvere, quindi, la "fisiologica
 interferenza" che, come si  e'  detto,  la  Corte  costituzionale  ha
 affermato  sussistere  tra valori costituzionalmente pariordinati, e'
 pur sempre necessario che il sacrificio dell'un  valore  -  quale  e'
 quello   dell'onore   e   della   reputazione   -  sia  razionalmente
 contemperato dall'essere lo stesso indispensabile per  conseguire  il
 pieno  soddisfacimento  del valore antagonista, vale a dire il libero
 esercizio della funzione parlamentare. Un bilanciamento, dunque, che,
 per essere realmente tale, postula, a  sua  volta,  non  soltanto  il
 necessario    requisito    dalla    essenzialita'    della   condotta
 "sacrificante" ai fini dell'esercizio di quella funzione, ma,  anche,
 quella  indispensabile  contenutezza  e  misura  che  valga a rendere
 minima, a quei fini, l'offesa del bene "sacrificato".
   Alla luce delle esposte considerazioni  emerge,  pertanto,  che  il
 fatto  attribuito  all'imputato  non  puo' in alcun modo qualificarsi
 come opinione espressa da un  membro  del  Parlamento  nell'esercizio
 delle proprie funzioni agli effetti di quanto previsto dall'art.  68,
 primo comma, della Costituzione. Tale non puo' configurarsi, infatti,
 il  comportamento  di  chi,  pur  assumendo di non sapere chi sia una
 determinata persona,  con  sicumera  e  del  tutto  gratuitamente  si
 affretti  a  definirlo  come "un fannullone della burocrazia romana",
 "negriero",  "pifferaio  da  banda   di   quartiere",   "marionetta".
 L'assenza,  in  cio',  delle connotazioni proprie di una "opinione" e
 l'impossibilita'  di  ricondurre  quelle  espressioni  a qualsivoglia
 "atto" che il parlamentare e' libero  di  compiere  nell'espletamento
 delle  proprie  attribuzioni,  esclude,  quindi,  a  parere di questo
 giudice, la legittimita' del  sindacato  ad  opera  della  Camera  di
 appartenenza  in  ordine  al  fatto  per il quale si procede. D'altra
 parte, va sottolineato  che  nel  caso  di  specie  la  giunta  delle
 elezioni  e  delle  immunita'  parlamentari  (v.  Doc. IV-Ter n. 7-A)
 delibero' di  proporre  alla  Assemblea  di  ritenere  che  il  fatto
 attribuito  al Boso non conernesse opinioni espresse da un membro del
 Parlamento  dell'esercizio   delle   sue   funzioni;   proposta   che
 l'Assemblea  non  approvo'  per considerazioni a dir poco sfuggenti e
 malgrado efficaci interventi di opposto segno (v. Resoconto  sommario
 della seduta del 7 maggio 1997 del Senato della Repubblica).
   Deve quindi essere sollevato conflitto di attribuzione davanti alla
 Corte  costituzionale,  perche'  questa  dichiari  che  non spetta al
 Senato della Repubblica deliberare che il fatto attribuito al  signor
 Boso,  e  precisato  in  premessa,  concerne  opinioni espresse da un
 membro del Parlamento nell'esercizio delle  sue  funzioni  e  ricade,
 pertanto,  nell'ipotesi  prevista  dall'art.  68,  primo comma, della
 Costituzione.