ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 2, comma 1,
 della legge regionale dell'Emilia-Romagna  8  novembre  1988,  n.  46
 (Disposizioni    integrative    in   materia   di   controllo   delle
 trasformazioni edilizie  ed  urbanistiche),  promosso  con  ordinanza
 emessa  il 3 novembre 1995 dal Tribunale amministrativo regionale per
 l'Emilia-Romagna,  sul ricorso proposto da Mezzetti Antonio contro il
 comune di San Lazzaro di Savena, iscritta al  n.  1178  del  registro
 ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1996;
   Visto  l'atto di costituzione di Mezzetti Antonio nonche' l'atto di
 intervento della Regione Emilia-Romagna;
   Udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 1997 il giudice  relatore
 Valerio Onida;
   Uditi  l'avvocato  Francesco  Paolucci  per  Mezzetti Antonio e gli
 avvocati  Giandomenico  Falcon  e  Luigi   Manzi   per   la   Regione
 Emilia-Romagna.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -    Nel  corso  di  un giudizio promosso per l'annullamento di
 un'ordinanza del Sindaco di un comune, che ingiungeva  al  ricorrente
 il  ripristino  dell'originario  uso  abitativo di un immobile di sua
 proprieta', adibito ad ufficio,  senza  realizzazione  di  opere,  in
 assenza   di   concessione   edilizia,  il  Tribunale  amministrativo
 regionale per l'Emilia-Romagna, con ordinanza emessa  il  3  novembre
 1995,  pervenuta  a  questa  Corte il 19 settembre 1996, ha sollevato
 questione di legittimita' costituzionale, per  contrasto  con  l'art.
 117 della Costituzione, in relazione all'art.  25 della legge statale
 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attivita'
 urbanistico-edilizia,  sanzioni,  recupero  e  sanatoria  delle opere
 edilizie),   dell'art.   2,   comma   1,   della   legge    regionale
 dell'Emilia-Romagna  8 novembre 1988, n. 46 (Disposizioni integrative
 in  materia   di   controllo   delle   trasformazioni   edilizie   ed
 urbanistiche)  - nel testo anteriore alle modifiche ad esso apportate
 dall'art. 16, comma 2, della legge regionale 30 gennaio 1995, n.    6
 (Norme in materia di programmazione e pianificazione territoriale, in
 attuazione  della  legge  8  giugno  1990,  n.  142,  e  modifiche  e
 integrazioni alla legislazione  urbanistica  ed  edilizia)  -  "nella
 parte   in   cui  impone  ai  comuni  l'individuazione,  in  sede  di
 pianificazione urbanistica, dei mutamenti di  destinazione  d'uso  da
 assoggettare    a   concessione   nonche'   l'obbligatorieta'   della
 concessione per taluni casi, anche  se  non  connessi  ad  interventi
 edilizi,  laddove  la  norma  statale  prevede  come  facoltativi gli
 interventi pianificatori dei comuni, li consente con  riferimento  ad
 ambiti  determinati  e  non  con  portata  generale  e,  soprattutto,
 attribuisce ai comuni la potesta'  di  assoggettare  tali  variazioni
 solamente ad autorizzazione".
   La  norma  statale  indicata come parametro interposto, vale a dire
 l'art. 25 della legge n. 47 del 1985, nel testo, oggi sostituito, cui
 fa  riferimento  il  remittente,  demanda  alla  legge  regionale  di
 stabilire  "criteri  e  modalita'  cui  dovranno  attenersi i comuni,
 all'atto  della  predisposizione  di   strumenti   urbanistici,   per
 l'eventuale  regolamentazione,  in  ambiti  determinati  del  proprio
 territorio, delle destinazioni d'uso degli immobili nonche' dei  casi
 in  cui  per  la  variazione  di  essa  sia  richiesta  la preventiva
 autorizzazione del Sindaco"; e  dispone  che  "la  mancanza  di  tale
 autorizzazione comporta l'applicazione delle sanzioni di cui all'art.
 10"  - relativo alle norme sanzionatorie per i casi di opere eseguite
 senza  autorizzazione  -  "ed  il  conguaglio   del   contributo   di
 costruzione se dovuto".
   La  disposizione  regionale  impugnata  prevede  che  "in  sede  di
 predisposizione degli strumenti urbanistici i comuni sono  tenuti  ad
 individuare  le  destinazioni  d'uso  degli immobili i cui mutamenti,
 anche non connessi  a  trasformazioni  fisiche,  sono  subordinati  a
 concessione  fermo  restando  che la concessione e' dovuta qualora il
 mutamento  comporti  il  passaggio  dall'uno  all'altro"  dei  cinque
 raggruppamenti  di categorie di funzioni indicati dalla stessa norma.
 Tali ultimi mutamenti di  destinazione  sono  compresi  dall'art.  1,
 comma  1,  lettera a) della stessa legge regionale - non impugnato in
 questa sede - tra le "variazioni essenziali rispetto alla concessione
 per gli effetti di cui alla legge 28 febbraio 1985,  n.  47";  a  sua
 volta l'art. 6, comma 3, della legge, pure non impugnato, prevede che
 "ai  fini sanzionatori di cui al capo I della legge 28 febbraio 1985,
 n. 47, nel caso di mutamenti dell'uso non connessi  a  trasformazioni
 fisiche,  la  demolizione e ripristino deve intendersi esclusivamente
 come rimozione dell'uso abusivamente posto  in  essere  e  ripristino
 dell'uso precedente, ovvero dell'uso stabilito od ammesso".
   2. - Il TAR remittente premette che la medesima questione era stata
 sollevata  con  ordinanza del 21 dicembre 1993 della stessa autorita'
 (r.o. n. 458 del 1994), a seguito della quale questa  Corte  dispose,
 con  l'ordinanza  n.  182  del  1995,  la  restituzione degli atti al
 giudice a quo. Successivamente alla ordinanza di rimessione del 1993,
 erano  infatti  intervenuti,  da  un   lato,   la   legge   regionale
 dell'Emilia-Romagna  30 gennaio 1995, n. 6, che all'art. 16, comma 2,
 aveva sostituito l'impugnato art. 2 della legge regionale n.  46  del
 1988,  dall'altro  lato  il  decreto-legge 27 marzo 1995, n. 88, che,
 all'art. 8, comma 12, aveva sostituito l'ultimo  comma  dell'art.  25
 della legge statale n. 47 del 1985, indicata come norma interposta ai
 fini  del  giudizio  di costituzionalita': onde si ritenne necessaria
 una nuova valutazione della rilevanza da parte del giudice a quo alla
 luce dello jus superveniens.
   Secondo il remittente, poiche'  il  provvedimento  impugnato  venne
 emanato  nel  vigore  del primitivo testo della legge regionale n. 46
 del 1988, alla cui stregua va valutata la sua legittimita', e poiche'
 ne' la legge regionale  n.  6  del  1995,  modificativa  della  norma
 denunciata,  ne'  le modifiche apportate alla legge statale n. 47 del
 1985 dai decreti-egge n. 88, n. 193, n. 310 e n. 400  del  1995,  non
 convertiti  in  legge,  operano  retroattivamente, la questione a suo
 tempo sollevata deve ritenersi ancora rilevante.
   Confermate le valutazioni di  non  manifesta  infondatezza  esposte
 nella  precedente  ordinanza (r.o. n. 458 del 1994), il giudice a quo
 ha disposto pertanto nuovamente la rimessione  degli  atti  a  questa
 Corte.
   3.   -  Nel  precedente  atto  introduttivo,  che  piu'  ampiamente
 argomentava le censure di incostituzionalita' sinteticamente  riprese
 nell'ordinanza  di rimessione in esame, si rilevava che, imponendo ai
 comuni di individuare,  in  sede  di  pianificazione  urbanistica,  i
 mutamenti  di  destinazione d'uso da assoggettare a concessione anche
 se non connessi  ad  interventi  edilizi  comportanti  trasformazioni
 fisiche dell'ambiente, si veniva a concretare una triplice violazione
 della  norma  statale di principio:  in quanto quest'ultima prevedeva
 come facoltativi, e non obbligatori, gli interventi pianificatori del
 comune in materia; in quanto li consentiva  limitatamente  ad  ambiti
 determinati  del  territorio comunale, e non con portata generale; e,
 soprattutto,  in  quanto  attribuiva  al  comune   la   potesta'   di
 assoggettare   le   variazioni   di   destinazione   d'uso,  in  casi
 determinati, ad autorizzazione e non gia'  a  concessione.    Inoltre
 sarebbe  stata  in contrasto con la legge statale anche la previsione
 diretta di fattispecie per le quali  si  imponeva  la  necessita'  di
 concessione,   cosi'   comportando   sostituzione  e  superamento  di
 qualsivoglia valutazione del comune.
   4.  -  Si  e'  costituito  il  Presidente  della  Giunta  regionale
 dell'Emilia-Romagna, chiedendo sia dichiarata la inammissibilita' per
 irrilevanza e l'infondatezza della questione.
   In  una  memoria successivamente depositata la difesa della Regione
 eccepisce in primo luogo la inammissibilita' della questione sotto il
 profilo della rilevanza, in ordine alla quale il  remittente  avrebbe
 motivato  in  modo sbrigativo e lacunoso. Secondo l'interveniente, la
 nuova legge regionale n. 6 del 1995, che ha mutato  la  denominazione
 dell'atto  permissivo  del  comune in quella di "autorizzazione" e ha
 reso    piu'    esplicita    la    responsabilita'     del     comune
 nell'individuazione, in sede di pianificazione, delle zone soggette a
 vincolo specifico quanto ai mutamenti di destinazione d'uso, varrebbe
 come elemento interpretativo della legge impugnata.
   In ogni caso, poiche' il giudizio a quo verte sulla legittimita' di
 un  ordine  di  ripristino  dell'uso  originario dell'immobile, a suo
 tempo ineseguito, e suscettibile  di  operare  solo  prescrivendo  un
 futuro  comportamento, dopo l'abrogazione della disposizione di legge
 regionale  che  prevedeva  tale  comportamento   dovrebbe   ritenersi
 inoperante  anche  il  provvedimento  che  in  essa  trovava  il  suo
 presupposto legale:  onde la questione di costituzionalita'  dovrebbe
 ritenersi ormai irrilevante nel giudizio a quo.
   In secondo luogo, il nuovo testo dell'art. 25 della legge n. 47 del
 1985, ora sostituito stabilmente dall'art. 2, comma 60, ultima parte,
 della legge n. 662 del 1996, e che lascia al legislatore regionale la
 piu'   ampia   autonomia   nella   disciplina   dei  mutamenti  delle
 destinazioni d'uso, sopprimendo i limiti precedentemente  posti,  non
 consentirebbe   piu'   di   pervenire   ad   una   dichiarazione   di
 illegittimita' della legge regionale  per  una  presunta  "precedente
 incostituzionalita'".  Il  vincolo  derivante  dalla  legge statale a
 carico   di   quella   regionale   non   attiene   infatti,   secondo
 l'interveniente,  ai  diritti  costituzionali  dei cittadini, ma solo
 alla necessaria prevalenza dell'indirizzo politico statale rispetto a
 quello regionale, onde il mutamento del primo, nel  senso  "fatto  in
 anticipo    proprio"    dalla   legge   regionale,   avrebbe   sanato
 definitivamente ogni presunto vizio della legge regionale medesima.
   5. - In subordine  l'interveniente  ripropone  gli  argomenti  gia'
 svolti  in  relazione  alla  precedente  ordinanza di rimessione, che
 dimostrerebbero l'infondatezza della questione.
   La "concessione" di cui era parola nella legge  regionale  abrogata
 non  si  identificherebbe  con la concessione edilizia prevista dalla
 legislazione statale, ma indicherebbe semplicemente il  provvedimento
 comunale  permissivo  richiesto,  e in relazione alla cui mancanza il
 cambiamento di destinazione d'uso senza opere era sanzionato solo con
 l'ordine di rimozione dell'uso abusivo,  al  di  fuori  di  qualsiasi
 sanzionabilita'  in  sede  penale,  che  sarebbe riservata ai casi di
 esecuzione di lavori. Sotto questo profilo dunque la legge  regionale
 impugnata  non sarebbe stata in contrasto con i principi fondamentali
 della legislazione statale.
   Per   quanto   riguarda  il  carattere  doveroso  e  non  meramente
 facoltativo della disciplina comunale del mutamento di  destinazione,
 postulato  dalla  legge  impugnata,  l'interveniente argomenta che la
 legge statale consentiva alla Regione di fissare i criteri in base ai
 quali tale disciplina dovesse ritenersi o meno necessaria.
   In ordine poi all'estensione della disciplina imposta  dalla  legge
 regionale  all'intero territorio del comune, l'interveniente sostiene
 che essa non puo' dirsi arbitraria, in relazione alla  situazione  di
 una  Regione dal territorio fittamente urbanizzato, e che comunque la
 legge regionale lasciava  i  comuni  totalmente  liberi  quanto  alla
 sostanza della normativa.
   L'interveniente   sviluppa   infine   alcune  considerazioni  sulla
 insufficienza e l'incongruita'  della  disciplina  recata  dal  testo
 originario  dell'art.  25 della legge statale n. 47 del 1985, che non
 distingueva  fra  mutamento  della  destinazione  determinata   dalla
 concessione  -  il  quale  richiederebbe comunque un atto ricognitivo
 dell'amministrazione - e uso di fatto difforme da  quello  ufficiale,
 che  puo'  essere  a seconda dei casi lecito o illecito. Il nuovo uso
 lecito porrebbe da un lato un problema di ordine economico, apparendo
 incongruo che esso, se diviene stabile, non comporti  il  conguaglio,
 ove  dovuto,  dei  contributi  corrisposti  in sede di rilascio della
 concessione; dall'altro  lato,  problemi  di  carattere  conoscitivo,
 dovendosi  consentire  all'amministrazione  di  conoscere  gli usi di
 fatto difformi da quelli ufficiali. Sul terreno sanzionatorio, mentre
 la legge statale si riferiva  incongruamente  alle  sanzioni  di  cui
 all'art.   10   della  stessa  legge,  concepite  essenzialmente  per
 l'esecuzione  di   opere,   la   legge   regionale   avrebbe   invece
 legittimamente   prescelto   la  sanzione  della  rimozione  dell'uso
 difforme, che costituisce il solo modo di  dare  efficace  tutela  al
 bene protetto.
   Anche  per  queste  considerazioni, secondo l'interveniente, non si
 poteva ridurre il  problema  della  disciplina  amministrativa  delle
 destinazioni  d'uso  ad una semplice "applicazione" del vecchio testo
 dell'art. 25 della legge statale n. 47 del 1985.
   6. - Si  e'  costituito  il  ricorrente  nel  giudizio  principale,
 chiedendo la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art.
 2  della legge regionale n. 46 del 1988, "in relazione all'articolo 1
 della stessa legge", per contrasto con l'art. 117 della  Costituzione
 in relazione all'art. 25 della legge n. 47 del 1985.
   Dopo aver ricordato le deduzioni svolte davanti al giudice a quo la
 parte  richiama  le  argomentazioni  esposte  nel precedente giudizio
 davanti alla  Corte.  In  particolare  rileva  che  il  provvedimento
 impugnato  davanti al TAR ha fatto applicazione della legge regionale
 n. 46 del 1988, onde solo  rimuovendo  la  norma  applicata  si  puo'
 giungere ad una pronunzia di annullamento del provvedimento medesimo;
 e  che  le  ragioni  che  militano  a  sostegno  della illegittimita'
 costituzionale della legge regionale sono le stesse che condussero la
 Corte a dichiarare costituzionalmente illegittima la legge  regionale
 del Veneto n. 61 del 1985, con la sentenza n. 73 del 1991.
   La  parte  privata  critica  poi  le  tesi  sostenute dalla regione
 nell'atto di intervento avanti alla Corte nel giudizio  concluso  con
 l'ordinanza  n.  182  del  1995 (e riprese dalla difesa della regione
 medesima nella memoria sopra richiamata al punto 5).  In  particolare
 nega che la "concessione" di cui parla l'art. 2 della legge regionale
 n.  46  del 1988 (nel testo originario) sia qualcosa di diverso dalla
 concessione edilizia vera e propria, come confermerebbe del resto  il
 collegamento  fra  detto  art.  2  e l'art. 1 della stessa legge, che
 considera "variante essenziale" la  modifica  di  destinazione  d'uso
 senza   trasformazioni  fisiche,  quando  si  realizzi  un  passaggio
 dall'uno all'altro dei  raggruppamenti  di  categorie  fissati  dallo
 stesso  art.  2,  comma 1. Ne' potrebbe deporre in senso contrario la
 previsione, nell'art. 6, comma 3, della legge regionale,  della  sola
 sanzione dell'ordine di ripristino dell'uso originario dell'immobile,
 trattandosi  dell'unica  sanzione  ipotizzabile, in mancanza di opere
 edilizie. Poiche' nel caso di specie si e'  ritenuto  illegittimo  il
 cambiamento  di destinazione d'uso in assenza di concessione, e si e'
 fatta applicazione dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985,  inteso  a
 reprimere   appunto   gli   abusi  posti  in  essere  in  assenza  di
 concessione, tanto basterebbe per giungere  ad  una  declaratoria  di
 illegittimita' costituzionale della legge regionale.
   Deduce  la difesa della parte che, discostandosi da quanto previsto
 dall'art. 25 della legge statale  n.  47  del  1985,  il  legislatore
 regionale,  con  la  norma impugnata, ha dato prescrizioni dirette ed
 immediatamente  operative  in   alcune   ipotesi,   sottoponendo   ad
 autorizzazione  o  a concessione il cambio d'uso senza necessita' del
 filtro dello strumento urbanistico.  Si sarebbe fatto ricorso  ad  un
 meccanismo  in  forza  del  quale si determina un obbligo generale di
 ottenere una autorizzazione o una concessione per potere  operare  un
 cambio  d'uso senza trasformazioni fisiche, imponendo una valutazione
 indifferenziata dell'intero territorio comunale,  e  non  di  singoli
 ambiti  territoriali. La norma statale interposta circoscriverebbe ad
 un ristretto quadro i limiti apponibili alla  liberta'  di  fruizione
 degli immobili, in conformita' all'art.  42 della Costituzione.
   La  difesa  del  Mezzetti si sofferma quindi sulle modifiche recate
 alla legge impugnata dalla nuova normativa dettata dalla regione  con
 la  legge  30  gennaio 1995, n. 6, che, in particolare, ha sostituito
 integralmente l'art. 2, eliminando ogni riferimento alle  concessioni
 edilizie,  ed ha evitato di porre delle prescrizioni dirette, facendo
 invece rinvio alle previsioni urbanistiche dei comuni, divenuti unici
 soggetti destinatari della legge.
   La nuova legge, prosegue, non ha tuttavia  regolato  le  situazioni
 pregresse,  rivolgendosi  solo  al futuro, sicche' la rilevanza della
 questione resta  immutata:  solo  con  la  caducazione  della  norma,
 infatti,  si puo' giungere all'annullamento dell'ordine di ripristino
 dell'uso abitativo (vengono richiamate, in proposito, l'ordinanza  n.
 583  del  1988  e la sentenza n. 260 del 1986, relative ad ipotesi di
 ius superveniens che ha tuttavia lasciato nei  termini  originari  la
 situazione del rapporto all'esame del giudice a quo).
                        Considerato in diritto
   1.  -   La censura di illegittimita' costituzionale, riproposta dal
 giudice  remittente  a  cui  gli  atti  erano  stati  restituiti  con
 l'ordinanza  n. 182 del 1995 di questa Corte, ha per oggetto il testo
 originario   dell'art.   2,   comma   1,   della   legge    regionale
 dell'Emilia-Romagna  8  novembre  1988,  n.  46,  per contrasto con i
 principi espressi nel testo a sua volta originario dell'art. 25 della
 legge statale 28 febbraio 1985, n. 47, e conseguentemente con  l'art.
 117 della Costituzione.
   Sia  la  disposizione impugnata, sia la norma statale indicata come
 parametro interposto, non sono oggi piu' in vigore.  In  particolare,
 l'art.  2  della  legge  regionale n. 46 del 1988 e' stato sostituito
 dall'art. 16, comma 2, della legge regionale 30 gennaio 1995, n.   6;
 e  l'art.  25, ultimo comma, della legge statale n. 47 del 1985, gia'
 sostituito - con testi non uniformi - da una serie  di  decreti-legge
 reiterati,  a  partire  dal  decreto-legge  n.  88 del 1995 e fino al
 decreto-legge n. 495 del 1996, tutti decaduti per mancata conversione
 in legge, e' stato infine sostituito - con un testo ancora diverso  -
 dall'art.   2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure
 di razionalizzazione della finanza pubblica),  contenente  una  nuova
 formulazione  dell'art.    4  del  d.-l.  5  ottobre  1993,  n.  398,
 convertito con modificazioni dalla legge 4 dicembre 1993, n. 493:  il
 comma  20  di  tale ultimo articolo reca un nuovo testo di detto art.
 25, ultimo comma, della legge  n.    47  del  1985.  In  quest'ultima
 formulazione   si   demanda   interamente  alla  legge  regionale  la
 possibilita' di stabilire  quali  mutamenti  di  destinazione  d'uso,
 connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, siano subordinati a
 concessione,  e  quali  ad autorizzazione: cosi' rimuovendo i vincoli
 alla  legislazione  regionale  che  discendevano,  in  materia,   dal
 precedente  testo,  e rispetto ai quali si e' posto il problema della
 conformita' o meno della legge regionale impugnata.  Il comma 61  del
 citato  art.  2 della legge n. 662 del 1996, a sua volta, ha disposto
 la salvezza degli effetti di tutti  i  decreti-legge  precedentemente
 succedutisi, e sopra ricordati.
   2.  -  L'eccezione sollevata dalla Regione intervenuta, secondo cui
 la  questione   dovrebbe   ritenersi   irrilevante   per   l'avvenuta
 abrogazione  e  sostituzione  della  disposizione  impugnata ad opera
 della legge regionale n. 6 del 1995, non puo' essere accolta.
   Tale sopravvenienza normativa e' stata infatti valutata dal giudice
 a quo a cui questa Corte  aveva  all'uopo  restituito  gli  atti  con
 l'ordinanza  n. 182 del 1995: ed esso ha ritenuto tuttora sussistente
 la rilevanza  della  questione,  con  motivazione  non  implausibile,
 riferita  alla  necessita'  di  valutare  la  legittimita'  dell'atto
 amministrativo impugnato alla  luce  della  disciplina  regionale  in
 vigore   all'epoca   della   sua   emanazione,   ancorche'  poi  (non
 retroattivamente) modificata.
   3. - Del pari non puo' accogliersi l'ulteriore prospettazione della
 regione intervenuta, secondo cui l'avvenuta sostituzione della  norma
 statale  di  principio  -  invocata come parametro interposto ai fini
 della valutazione di legittimita' costituzionale  della  disposizione
 regionale impugnata - con una norma che ha fatto venir meno i vincoli
 preesistenti,   che   si  sostiene  fossero  violati  dalla  medesima
 disposizione  impugnata,  ne  precluderebbe   la   dichiarazione   di
 illegittimita' costituzionale.
   A  tal  fine non e' necessario risolvere il delicato problema degli
 effetti che produrrebbe, in ordine  alla  validita'  e  all'efficacia
 della  legge  regionale  preesistente, in ipotesi contrastante con un
 principio fondamentale della legislazione statale, ad essa anteriore,
 la sopravvenienza di una legge statale recante nuovi principi, con  i
 quali la legge regionale risulti invece compatibile.
   Nella  specie  e'  decisivo  il  rilievo  che  la  norma statale di
 principio, con la quale si sostiene contrastasse la  disposizione  di
 legge  regionale  impugnata,  e'  rimasta in vigore per l'intero arco
 temporale di vigenza di quest'ultima. Quando e' sopravvenuta la nuova
 norma  statale  (la  prima  volta con l'art. 8, comma 4, del d.-l. 27
 marzo  1995,  n.  88,  a  voler  tenere  conto  della   "catena"   di
 decreti-legge  reiterati  e  non  convertiti,  e  della  clausola  di
 sanatoria dei loro effetti successivamente inclusa nell'art. 2, comma
 61, della legge n. 662 del 1996), la disposizione regionale impugnata
 era gia' stata abrogata  e  sostituita  dall'art.    16  della  legge
 regionale  30  gennaio  1995,  n.  6.  Onde la norma regionale che il
 giudice a quo afferma di  dover  applicare  e'  sempre  rimasta,  per
 l'intero  arco  della  sua  vigenza,  nei  medesimi  rapporti  con la
 normativa statale di principio, rispetto  alla  quale  il  remittente
 rileva un contrasto tale da determinarne l'illegittimita'.
   Una volta dunque presupposto - come motivatamente assume il giudice
 a  quo  -  di  dover  fare applicazione di quella norma regionale, in
 quanto atta, in ragione del tempo, a qualificare la fattispecie,  non
 si   puo'   sfuggire   all'esigenza  di  risolvere  la  questione  di
 costituzionalita' che con riguardo ad essa si pone, per contrasto con
 i principi della legislazione statale vigenti all'epoca in  cui  essa
 era in vigore.
   E'  evidente  poi  che la soluzione della questione, riferendosi ad
 una situazione normativa ormai superata, non e' suscettibile di avere
 alcun riflesso sui rapporti fra successiva legislazione regionale  in
 materia e legislazione statale a sua volta sopravvenuta.
   4.  -  Nel  merito,  la  questione e' fondata nei limiti di seguito
 precisati.
   Il giudice a quo indica quattro ragioni di  contrasto  della  norma
 regionale con i principi di quella statale: il carattere obbligatorio
 e   non  facoltativo  della  disciplina  comunale  dei  mutamenti  di
 destinazione d'uso senza opere; la diretta statuizione di casi in cui
 tali mutamenti sono sottoposti a concessione, senza il "filtro" delle
 scelte urbanistiche  del  comune;  l'estensione  di  tale  disciplina
 all'intero  territorio  e  non solo ad ambiti determinati del comune;
 infine, la previsione della  concessione  e  non  dell'autorizzazione
 come strumento di controllo di tali mutamenti.
   Di queste ragioni di contrasto, la prima non sussiste: il rinvio ad
 una  regolamentazione "eventuale" delle destinazioni d'uso, contenuto
 nella norma statale, non significa che la legge regionale, cui veniva
 demandata la statuizione dei criteri per la disciplina della materia,
 non potesse disporre che tale regolamentazione fosse obbligatoria per
 i comuni.
   Anche la seconda ragione di asserito contrasto  e'  superabile:  la
 statuizione   regionale,   secondo   cui  in  ogni  caso  determinate
 variazioni erano soggette a concessione, puo'  intendersi  nel  senso
 che  comunque  si richiedeva il preventivo intervento dello strumento
 urbanistico comunale. Ne' il vincolo cosi' creato a carico dei comuni
 e' in contrasto con  la  norma  statale,  che  demandava  alla  legge
 regionale il compito di stabilire "criteri e modalita'" cui i comuni,
 all'atto della predisposizione degli strumenti urbanistici, "dovranno
 attenersi".
   Al  contrario, la norma regionale e' irrimediabilmente in contrasto
 con quella statale la' dove estende  la  necessaria  regolamentazione
 all'intero  territorio del comune, e non solo ad "ambiti determinati"
 di esso (cfr. sentenza n. 73 del  1991):  ne'  l'opportunita',  fatta
 valere  dalla  Regione,  di  tener  conto di un territorio fittamente
 urbanizzato  puo'  valere  a  consentire il superamento di un vincolo
 recato da una norma di principio statale.
   Parimenti in contrasto con la norma statale e' la previsione  della
 sottoposizione   dei   mutamenti   di   destinazione  senza  opere  a
 concessione comunale, anziche' a semplice autorizzazione.
   In primo luogo, non puo' ritenersi che la "concessione" comunale, a
 cui  la  norma  regionale  assoggettava  determinati   mutamenti   di
 destinazione  d'uso  senza  opere,  sia  qualcosa  di  diverso  dalla
 concessione edilizia alla quale si riferisce la legge statale  n.  47
 del  1985, e ancor prima l'art. 1 della legge 28 gennaio 1977, n. 10.
 La distinzione fra concessione e autorizzazione,  infatti,  e'  netta
 nella  legislazione statale, anche ai fini delle sanzioni applicabili
 nei casi di mancanza dell'una e dell'altra (cfr. gli artt. 7 e 20, e,
 rispettivamente, l'art. 10 della legge n. 47 del 1985), ne'  si  puo'
 ritenere che la legge regionale, successiva a quella statale, l'abbia
 ignorata.  D'altra parte, che la norma impugnata intendesse riferirsi
 proprio alla concessione edilizia, e' confermato anche dal fatto  che
 l'art.  1,  comma  1, lettera a) della legge regionale n. 46 del 1988
 ricomprendeva i mutamenti di destinazione d'uso, anche non connessi a
 trasformazioni  fisiche,  che  comportassero  il  passaggio  dall'uno
 all'altro  dei  raggruppamenti  di  categorie indicati nell'impugnato
 art.  2,  comma  1,  fra  le  "variazioni  essenziali  rispetto  alla
 concessione  per  gli  effetti di cui alla legge 28 febbraio 1985, n.
 47". Inoltre l'art. 6, comma 3, della  stessa  legge  regionale,  nel
 dettare  la disciplina sanzionatoria per i casi di mutamenti dell'uso
 non connessi a trasformazioni fisiche, faceva  riferimento  non  gia'
 all'art.  10  della  legge  n. 47 del 1985, ma genericamente ai "fini
 sanzionatori di cui al capo I della  legge"  medesima,  nonche'  alla
 "demolizione"  e  al  "ripristino",  che  la  legge statale menziona,
 nell'art. 7, a proposito delle opere eseguite senza concessione  (pur
 stabilendo,  la norma regionale, che demolizione e ripristino debbono
 "intendersi  esclusivamente"  come  rimozione  dell'uso   abusivo   e
 ripristino dell'uso precedente o di quello stabilito o ammesso).
   5.  -  Il  contrasto,  per  le parti indicate, con la norma statale
 comporta   necessariamente   la   dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale  della  norma  regionale  denunciata: infatti la norma
 statale invocata nella specie, essendo rivolta proprio ai legislatori
 regionali, per demandare loro una determinata  disciplina,  ma  anche
 per  vincolarne  le  scelte,  esprime principi che limitano, ai sensi
 dell'art. 117 della Costituzione,  l'autonomia  di  quei  legislatori
 nell'esercizio della loro competenza "concorrente".