ha pronunciato la seguente Sentenza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 459, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 gennaio 1996 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, iscritta al n. 481 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1996; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Udito nella camera di consiglio del 12 marzo 1997 il giudice relatore Carlo Mezzanotte. Ritenuto in fatto 1. - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, con ordinanza in data 15 gennaio 1996, solleva questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, dell'art. 459, comma 1, del codice di procedura penale. Il remittente premette che nei confronti di un militare, imputato di allontanamento illecito ex art. 147 del codice penale militare di pace, il pubblico ministero aveva presentato - a norma degli artt. 459 cod. proc. pen. e 53 legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) - richiesta motivata di emissione di decreto penale di condanna, indicando la misura della pena pecuniaria in L. 2.250.000, da infliggersi in sostituzione della pena detentiva di mesi uno di reclusione militare. Il giudice a quo rileva che, nel caso al suo esame, a seguito della sentenza n. 284 del 1995 di questa Corte, che ha esteso l'applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi ai reati militari, sarebbe ipotizzabile il ricorso al rito monitorio. L'art. 459, comma 1, cod. proc. pen. limita, pero', i casi di procedimento per decreto ai reati perseguibili di ufficio, con la conseguente esclusione del reato contestato all'imputato, in quanto punito, a norma dell'art. 260, secondo comma, cod. pen. mil. pace, "a richiesta del comandante del corpo o di altro ente superiore, da cui dipende il militare colpevole". Ad avviso del remittente, dalla relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale emergerebbe che il procedimento per decreto sarebbe stato limitato dal legislatore ai soli reati perseguibili di ufficio con l'intento di escluderne l'applicabilita' ai procedimenti relativi ai reati perseguibili a querela, per la mancanza di celerita' e snellezza di tali ultimi procedimenti, caratterizzati anche dall'eventualita' che il danneggiato si costituisca parte civile. Secondo il giudice a quo, l'esclusione dal rito monitorio della "speciale sub-categoria dei reati di cui al secondo comma dell'art. 260 cod. pen. mil. pace", non apparirebbe ragionevole, trattandosi di fattispecie che, per l'offesa minima arrecata agli interessi militari dello Stato e per la generale facilita' di accertamento, costituirebbero "il terreno ideale per il procedimento speciale ex art. 459 cod. proc. pen.". L'impossibilita' di ricorrere al procedimento per decreto in ordine ai reati punibili a richiesta del comandante, ai sensi dell'art. 260, secondo comma, cod. pen. mil. pace, discriminerebbe ingiustamente i militari che commettano uno di tali reati rispetto agli altri militari che si rendano autori di reati anche piu' gravi, ma perseguibili di ufficio. Tale discriminazione - con violazione del principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, sancito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione - risulterebbe, ad avviso del remittente, particolarmente intensa proprio in riferimento al reato di allontanamento illecito, oggetto del giudizio a quo. Questo reato e', infatti, il meno grave tra i reati di assenza dal servizio alle armi ed e' tuttavia escluso dal rito monitorio, essendo punito ai sensi dell'art. 260 cod. pen. mil. pace a richiesta del comandante, mentre il piu' grave reato di diserzione, che si realizza quando il militare protragga l'assenza per piu' giorni, potrebbe rientrare - applicando la speciale attenuante di cui all'art. 154 n. 2 dello stesso codice - tra i casi di procedimento per decreto, essendo perseguibile di ufficio. 2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza (rectius l'inammissibilita') della questione prospettata. Ad avviso dell'Avvocatura, l'art. 207 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) non avrebbe affatto abrogato il libro III del codice penale militare di pace, comprendente gli artt. 382-386 che disciplinano il giudizio per decreto in relazione ai reati militari: la norma di coordinamento riguarderebbe, infatti, esclusivamente la disciplina innanzi al magistrato ordinario, con palese esclusione di ogni richiamo alle giurisdizioni speciali. Secondo l'Avvocatura, tali conclusioni sarebbero confermate non soltanto dall'esame dei lavori preparatori del nuovo codice e da una recente pronuncia della Corte di cassazione (sezione I, n. 2660 del 2 giugno 1994), ma anche dal costante orientamento di questa Corte, che, dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, nel dichiarare la illegittimita' costituzionale di alcune norme del codice penale militare di pace, ne avrebbe riconosciuto la vigenza (sentenze n. 503 del 1989, n. 469 del 1990 e n. 429 del 1992). La riforma del codice di procedura penale, quindi, non avrebbe inciso sulle disposizioni di legge derogatorie alla disciplina processuale generale, fatte salve espressamente dall'art. 261 del codice penale militare di pace: in questo quadro, gli artt. 382 e ss. di detto codice sarebbero tuttora in vigore e l'ambito di operativita' dell'art. 459 cod. proc. pen. resterebbe circoscritto al rito ordinario. Considerato in diritto 1. - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino dubita della legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 459, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui, limitando i casi in cui e' possibile il procedimento per decreto ai reati perseguibili d'ufficio, escluderebbe da tale procedimento i reati puniti, ai sensi del secondo comma dell'art. 260 del codice penale militare di pace, "a richiesta del comandante del corpo o di altro ente superiore, da cui dipende il militare colpevole". Ad avviso del giudice a quo, l'esclusione di questi reati dal procedimento per decreto discriminerebbe ingiustamente gli appartenenti alle forze armate che commettano tali infrazioni - peraltro di minima offensivita' e di assai facile accertamento - rispetto ai militari che si rendano autori di reati anche piu' gravi, ma perseguibili d'ufficio. 2. - Deve innanzitutto essere disattesa l'eccezione dell'Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale la disciplina del procedimento per decreto, in relazione ai reati militari, sarebbe tuttora dettata dagli artt. 382 e ss. cod. pen. mil. pace, con conseguente inapplicabilita', nel giudizio principale, della disposizione oggetto di censura. Piu' volte e da piu' parti e' stata lamentata (da ultimo anche da questa Corte: sentenza n. 180 del 1996) l'assenza di una compiuta disciplina di coordinamento tra il codice di procedura penale del 1988 e il codice penale militare di pace, che desse chiarezza e certezza ai criteri legislativi da assumere ai fini della identificazione degli istituti del processo militare attualmente vigenti: una disciplina necessaria, fra l'altro, a rendere meno insicuri, nella evidente disarmonia di molti di questi istituti con le corrispondenti norme del codice di rito, i compiti dei giudici comuni, ai quali spetta la ricognizione del diritto vigente, e quelli del giudice delle leggi, chiamato a risolvere le antinomie tra legislazione ordinaria e Costituzione in base al criterio gerarchico. Le difficolta' nascono dal fatto che, perdurando l'inerzia del legislatore, quelle disarmonie sono sottoponibili, in astratto, a due trattamenti alternativi. Una accezione rigida del principio di specialita' codificato dall'art. 261 cod. pen. mil. pace porterebbe a ritenere comunque vigenti tutti gli istituti del processo militare e ad affrontare, se mai, in termini di invalidita' ogni questione di compatibilita' di tali istituti con i principii del nuovo codice. Un'interpretazione piu' flessibile, guidata dalla esigenza di un ragionevole temperamento del criterio di specialita', porterebbe di contro a dar rilievo, gia' al momento della ricognizione della disciplina vigente, al requisito della compatibilita', e a far ritenere senz'altro abrogate tutte le norme del processo militare che appaiano incapaci di armonizzarsi con i principii ai quali e' ispirato il nuovo codice di procedura penale. Ne' una soluzione di questo genere apparrebbe manifestamente estranea alle virtualita' oggi racchiuse nel sistema dei rapporti tra i due codici. Lo stesso art. 261 appena citato, accanto al criterio di specialita' del codice militare, pone quello di complementarita' dei due codici. E quest'ultimo criterio e' a sua volta espressione di una istanza legislativa di unificazione sistematica che, se alle origini poteva ritenersi soddisfatta quasi naturalmente dal carattere omogeneo dei codici in questione, entrambi ordinati attorno ai canoni del processo inquisitorio, rischia oggi di rimanere frustrata a causa dell'irrompere nel nuovo codice dei principii del rito accusatorio. Questi principii, all'impatto con le vecchie norme del processo militare, possono dar luogo a disarmonie tali da impedire ai due corpi normativi di atteggiarsi, nel loro insieme e pur nelle rispettive diversita', come un sistema unitario e coerente. E' allora evidente che, per mantenere la pienezza del significato e del valore della "complementarita'", positivamente riconducibile all'art. 261, puo' non essere sufficiente all'interprete, in sede di ricognizione della norma da applicare, la mera constatazione del carattere derogatorio di una determinata disciplina del processo militare, ma rendersi necessaria una operazione ermeneutica piu' complessa che puo' assurgere a vera e propria attivita' di coordinamento interpretativo (quel coordinamento che il legislatore ha mancato di compiere con disposizioni espresse) e che comporti la previa valutazione della compatibilita' delle norme del processo militare con i principii fondamentali del nuovo codice. 3. - Entrambi i percorsi interpretativi ora delineati sono astrattamente plausibili: sia una visione ancorata a criteri piu' tradizionali nella teoria giuridica, che porterebbe a ritenere sempre vigenti gli istituti del processo militare e a rimettere al giudice delle leggi, sul parametro, peraltro, delle sole norme costituzionali, tutta intera l'attivita' di coordinamento tra i due corpi normativi; sia una prospettiva piu' temperata della teoria della specialita' tendente a includere la compatibilita' con i principii legislativi del nuovo codice tra i requisiti di vigenza delle norme del processo militare. Tra le due diverse impostazioni e' su questa seconda che sembrano in prevalenza attestate, in maniera sostanzialmente concorde, la prassi organizzativa e la giurisprudenza di legittimita'. Quanto alla prassi, un primo importante dato, rifluente sull'assetto della giurisdizione militare e sull'effettivo modo d'essere dei rapporti tra i due codici, e' offerto dal rilievo che nel processo militare e' oramai presente e si e' consolidata la figura del giudice per le indagini preliminari. Risalente ad una delibera del Consiglio della magistratura militare del 22 luglio 1989, il cui contenuto e' stato recepito con variazione tabellare apportata dal d.P.R. 10 novembre 1989, l'introduzione del giudice per le indagini preliminari e' evento che, se pure non presuppone necessariamente l'abrogazione dell'intero codice penale militare (come invece si e' da taluno ritenuto), mette capo ad una accezione del principio di specialita' piu' fluida che postula una valutazione di compatibilita' da compiersi in sede di accertamento della vigenza. La vicenda non potrebbe essere spiegata semplicemente affermando, come pure si e' fatto in dottrina, che la figura del giudice per le indagini preliminari abbia trovato il varco aperto fra le maglie larghe della disciplina del processo penale militare, non incontrando in questa norme diverse che le sbarrassero il cammino. Il codice militare conosceva, infatti, tutti gli istituti del processo inquisitorio, che collidevano con l'introduzione di un organo tipico del modello accusatorio; conosceva il giudice istruttore militare e regolava autonomamente (e non con un semplice rinvio al codice di procedura penale) sia l'istruzione formale che quella sommaria, e sempre autonomamente, agli artt. 340 e ss., regolava i rapporti tra giudice istruttore e pubblico ministero militare e la conclusione dell'istruzione con i vari tipi di provvedimento. Se dunque oggi il processo militare annovera il giudice per le indagini preliminari tra gli organi della giustizia militare, cio' e' potuto avvenire, inconfutabilmente, sul presupposto della intervenuta abrogazione, per effetto del nuovo codice, degli articoli 324 e ss. cod. pen. mil. pace, che regolavano l'attivita' istruttoria e gli organi ad essapreposti; abrogazione, si aggiunga, impensabile alla stregua di una visione rigida del criterio di specialita' e concepibile solo se su tale criterio si innesta quello della lex posterior, sia pure limitatamente ai principii fondamentali del modello accusatorio e agli istituti che nel nuovo codice di procedura penale ne costituiscono la positiva concretizzazione. Quanto alla giurisprudenza di legittimita', essa si attiene a un ordine di idee non sostanzialmente discosto da quello appena tratteggiato. Dopo iniziali contrasti, e sia pure seguendo un itinerario argomentativo in parte diverso, la Corte di cassazione (sezioni unite penali n. 1684 del 20 febbraio 1995) e' pervenuta alla conclusione che le norme contenute nel nuovo codice di rito, anche se non escludono eventuali deroghe alla applicazione di istituti dalle stesse regolati, chiedono che dette deroghe non si pongano in contrasto con i principii fondamentali ai quali risulta ispirato il nuovo sistema processuale. I rapporti tra i due codici, secondo il giudice di legittimita', nella non chiara coordinazione delle norme e in attesa di un'iniziativa del legislatore, risultano insomma dalla combinazione del criterio di specialita' con quello cronologico: il primo rende ragione delle deroghe al codice di rito comune nei riguardi di reati di competenza del giudice militare; il secondo, del prevalere dei principii dai quali e' retto il nuovo codice sulla disciplina, eventualmente diversa e incompatibile, del processo militare. A questa conclusione, plausibile in astratto, confortata dalla prassi e da un indirizzo giurisprudenziale sufficientemente consistente, quando pure non assurto a diritto vivente, questa Corte ritiene di attenersi. Il criterio di individuazione degli istituti del processo militare tuttora vigenti e' anche quello del non contrasto o, se si preferisce, dell'armonia minima, nel senso che, prima di affermare la vigenza di un istituto in forza dell'art. 261 cod. pen. mil. pace, e' necessario saggiarne la compatibilita' con i principii ispiratori del codice di rito comune, o per converso, il permanere della ragione giustificatrice del carattere di specialita'. 4. - Se si applicano gli anzidetti criteri al caso di specie ne risulta che la disciplina contenuta nel codice di procedura penale agli artt. 459 e ss., in tema di procedimento per decreto, ha abrogato quella del codice penale militare di pace di cui agli artt. 382 e ss. Spinge in questa direzione il decisivo argomento che nell'ordinamento militare il giudice per le indagini preliminari non e' entrato come mera ipostasi, presenza astratta indifferente al contenuto delle sue funzioni. Al contrario: chiave di volta del modello processuale del 1988 e' proprio la correlazione, sistematica e inscindibile, tra il nuovo organo monocratico e le funzioni che gli sono attribuite, che nel loro insieme concorrono a definirne la posizione di interlocutore del pubblico ministero, sia durante la fase delle indagini preliminari che al termine di essa, allorquando cioe' gli vengono sottoposte, a seconda dei casi e ricorrendone i diversi presupposti, le richieste di archiviazione, di rinvio a giudizio, di giudizio abbreviato, di applicazione della pena "patteggiata", di giudizio immediato, ovvero di emissione del decreto penale di condanna. E cosi' come, istituito il giudice per le indagini preliminari militare, non si e' dubitato che al seguito della nuova figura entrassero nel processo militare i cosiddetti riti alternativi e le funzioni che in relazione a questi le competono nel codice comune, per la stessa logica, incentrata sulla correlazione sistematica tra organo e funzione, non deve dubitarsi che tale figura abbia recato con se', quale necessaria destinataria delle richieste del procuratore militare, la disciplina processualpenalistica del procedimento per decreto dettata dagli artt. 459 e ss. cod. proc. pen. Si deve aggiungere, per completezza di argomentazione, che la riprova che il procedimento per decreto sia uno degli ambiti in cui il criterio della lex posterior e' destinato a prevalere su quello della lex specialis viene dal progressivo attenuarsi medio tempore, nella disciplina del processo militare, dei connotati di specialita', anche per alcune modifiche che hanno interessato il rito comune: l'applicabilita' del procedimento per decreto, nel nuovo processo, non solo ai reati di competenza del pretore, ma anche a quelli di competenza del tribunale; l'esser possibile, a differenza che in passato, il ricorso al procedimento per decreto anche in caso di sanzioni detentive, purche' sostituibili ai sensi dell'art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689; la sostituibilita' delle sanzioni detentive, ai sensi della medesima disposizione, anche per i reati militari, a seguito della sentenza di questa Corte n. 284 del 1995; l'esservi ormai, sia nel processo comune che nel processo militare, un organo monocratico cui attribuire la competenza ad adottare il decreto penale in luogo del presidente del tribunale militare o del giudice da lui delegato. 5. - Accertato, dunque, che l'ipotesi avanzata dal giudice remittente di dover applicare l'art. 459 cod. proc. pen. appare condivisibile, la questione sollevata e' tuttavia priva di fondamento. Lo sfondo sul quale si muove l'ordinanza di rimessione e' quello dell'art. 260, secondo comma, cod. pen. mil. pace che stabilisce che una serie di reati siano puniti a richiesta del comandante del corpo o di altro ente superiore da cui dipende il militare colpevole. Di tale disposizione questa Corte si e' occupata piu' volte ed ha sempre dichiarato infondate o manifestamente infondate le diverse questioni che le sono state nel tempo sottoposte (da ultimo, ordinanza n. 396 del 1996). Il giudice remittente non si duole del fatto che la richiesta del comandante del corpo sia prevista nel citato art. 260 come condizione di procedibilita', ma lamenta che per questa categoria di reati (punibili, appunto, a richiesta) non possa essere promosso il procedimento per decreto, esperibile, ai sensi dell'art. 459 cod. proc. pen., nelle sole ipotesi di reati perseguibili di ufficio e pertanto non utilizzabile per quei casi nei quali la procedibilita' sia comunque condizionata. Ma e' pure acquisito alla giurisprudenza costituzionale che anche la scelta del modo di procedibilita' (d'ufficio, a querela, a richiesta, su autorizzazione, etc.) coinvolge la politica legislativa e deve quindi rimanere affidata a valutazioni discrezionali del legislatore; essa presuppone infatti bilanciamenti di interessi e opzioni di politica criminale spesso assai complessi, sindacabili in sede di legittimita' costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalita' (sentenza n. 7 del 1988, ordinanze n. 204 del 1988 e n. 284 del 1987). Osserva tuttavia il giudice remittente che l'attuale disciplina comporta l'esclusione del procedimento per decreto per molti reati di lieve entita' punibili a richiesta, mentre ne consente l'impiego per reati incomparabilmente piu' gravi perseguibili d'ufficio, discriminando cosi' i militari che se ne siano resi colpevoli. A parte il rilievo che un fenomeno analogo si verifica anche in relazione a reati comuni (si pensi all'ipotesi del reato di lesioni colpose lievi, punibile a querela, e non sottoponibile al procedimento per decreto, che puo' essere invece adottato per alcune fattispecie di lesioni colpose gravi e gravissime, perseguibili d'ufficio), deve osservarsi che la valutazione del legislatore, ai fini del trattamento processuale dei reati per i quali e' esperibile il procedimento per decreto, non e' collegata alla loro maggiore o minore gravita', ma, come risulta anche dai lavori preparatori, discende dalla presunzione, che non appare manifestamente irragionevole, di una maggiore complessita' degli accertamenti richiesti per i reati a procedibilita' condizionata, che non si addice alle caratteristiche di snellezza e celerita' proprie del rito monitorio. Nella relazione al progetto preliminare al nuovo codice di procedura, questa giustificazione e' espressamente riferita alla condizione di procedibilita' costituita dalla querela, ma essa e' indubbiamente tale da estendersi alla richiesta del comandante del corpo, da qualificare anch'essa come condizione di procedibilita'. E' insomma l'aggravio procedimentale, peraltro preordinato alla salvaguardia di interessi, pubblici o privati, meritevoli di tutela, che, nella valutazione non irragionevole del legislatore, ha indotto a limitare il procedimento per decreto ai soli reati perseguibili d'ufficio.