ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 459, comma 1,
 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa  il  15
 gennaio  1996  dal  giudice  per  le  indagini  preliminari presso il
 Tribunale militare  di  Torino,  iscritta  al  n.  481  del  registro
 ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1996;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di  consiglio  del  12  marzo  1997  il  giudice
 relatore Carlo Mezzanotte.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Il  giudice  per le indagini preliminari presso il Tribunale
 militare di Torino, con ordinanza in data  15 gennaio  1996,  solleva
 questione  di  legittimita'  costituzionale, per contrasto con l'art.
 3, primo comma, della  Costituzione,  dell'art.  459,  comma  1,  del
 codice di procedura penale.
   Il  remittente  premette che nei confronti di un militare, imputato
 di allontanamento illecito ex art. 147 del codice penale militare  di
 pace,  il  pubblico  ministero aveva presentato - a norma degli artt.
 459 cod. proc. pen. e 53 legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al
 sistema penale) - richiesta motivata di emissione di  decreto  penale
 di  condanna,  indicando  la  misura  della  pena  pecuniaria  in  L.
 2.250.000, da infliggersi in sostituzione  della  pena  detentiva  di
 mesi uno di reclusione militare.
   Il giudice a quo rileva che, nel caso al suo esame, a seguito della
 sentenza   n.   284   del   1995  di  questa  Corte,  che  ha  esteso
 l'applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive  brevi
 ai reati militari, sarebbe ipotizzabile il ricorso al rito monitorio.
 L'art.  459,  comma  1,  cod.  proc.  pen.  limita,  pero', i casi di
 procedimento  per  decreto  ai  reati perseguibili di ufficio, con la
 conseguente esclusione del reato contestato all'imputato,  in  quanto
 punito,  a  norma dell'art.  260, secondo comma, cod. pen. mil. pace,
 "a richiesta del comandante del corpo o di altro ente  superiore,  da
 cui dipende il militare colpevole".
   Ad  avviso  del remittente, dalla relazione al progetto preliminare
 del codice di procedura penale emergerebbe che  il  procedimento  per
 decreto   sarebbe  stato  limitato  dal  legislatore  ai  soli  reati
 perseguibili di ufficio con l'intento di escluderne  l'applicabilita'
 ai  procedimenti  relativi  ai  reati  perseguibili a querela, per la
 mancanza di  celerita'  e  snellezza  di  tali  ultimi  procedimenti,
 caratterizzati   anche   dall'eventualita'   che  il  danneggiato  si
 costituisca parte civile.
   Secondo il giudice a quo, l'esclusione  dal  rito  monitorio  della
 "speciale  sub-categoria  dei reati di cui al secondo comma dell'art.
 260 cod. pen. mil. pace", non apparirebbe ragionevole, trattandosi di
 fattispecie che, per l'offesa minima arrecata agli interessi militari
 dello  Stato  e  per   la   generale   facilita'   di   accertamento,
 costituirebbero  "il  terreno  ideale per il procedimento speciale ex
 art.  459  cod.    proc.  pen.".  L'impossibilita'  di  ricorrere  al
 procedimento  per decreto in ordine ai reati punibili a richiesta del
 comandante, ai sensi dell'art. 260, secondo  comma,  cod.  pen.  mil.
 pace,  discriminerebbe ingiustamente i militari che commettano uno di
 tali reati rispetto agli altri militari  che  si  rendano  autori  di
 reati anche piu' gravi, ma perseguibili di ufficio.
   Tale  discriminazione - con violazione del principio di eguaglianza
 dei cittadini davanti alla legge, sancito dall'art. 3,  primo  comma,
 della   Costituzione   -  risulterebbe,  ad  avviso  del  remittente,
 particolarmente  intensa  proprio  in   riferimento   al   reato   di
 allontanamento illecito, oggetto del giudizio a quo. Questo reato e',
 infatti,  il meno grave tra i reati di assenza dal servizio alle armi
 ed e' tuttavia escluso dal rito monitorio, essendo  punito  ai  sensi
 dell'art. 260 cod. pen.  mil. pace a richiesta del comandante, mentre
 il piu' grave reato di diserzione, che si realizza quando il militare
 protragga  l'assenza per piu' giorni, potrebbe rientrare - applicando
 la speciale attenuante di cui all'art. 154 n. 2 dello stesso codice -
 tra i casi di  procedimento  per  decreto,  essendo  perseguibile  di
 ufficio.
   2.  -  E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 concludendo  per  l'infondatezza  (rectius  l'inammissibilita') della
 questione prospettata.
   Ad avviso dell'Avvocatura, l'art. 207 del d.lgs. 28 luglio 1989, n.
 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie  del  codice
 di  procedura  penale)  non avrebbe affatto abrogato il libro III del
 codice penale militare di pace, comprendente gli  artt.  382-386  che
 disciplinano  il giudizio per decreto in relazione ai reati militari:
 la norma di coordinamento riguarderebbe, infatti,  esclusivamente  la
 disciplina  innanzi al magistrato ordinario, con palese esclusione di
 ogni richiamo alle giurisdizioni speciali.
   Secondo l'Avvocatura, tali  conclusioni  sarebbero  confermate  non
 soltanto  dall'esame dei lavori preparatori del nuovo codice e da una
 recente pronuncia della Corte di cassazione (sezione I, n. 2660 del 2
 giugno 1994), ma anche dal costante  orientamento  di  questa  Corte,
 che,  dopo  l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale,
 nel dichiarare la illegittimita' costituzionale di alcune  norme  del
 codice  penale  militare  di pace, ne avrebbe riconosciuto la vigenza
 (sentenze n. 503 del 1989, n. 469 del 1990 e n. 429 del 1992).
   La riforma del codice di  procedura  penale,  quindi,  non  avrebbe
 inciso  sulle  disposizioni  di  legge  derogatorie  alla  disciplina
 processuale generale, fatte salve  espressamente  dall'art.  261  del
 codice penale militare di pace: in questo quadro, gli artt. 382 e ss.
 di   detto   codice   sarebbero  tuttora  in  vigore  e  l'ambito  di
 operativita' dell'art.  459 cod. proc. pen.  resterebbe  circoscritto
 al rito ordinario.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Il  giudice  per le indagini preliminari presso il Tribunale
 militare di  Torino  dubita  della  legittimita'  costituzionale,  in
 riferimento  all'art.  3  della Costituzione, dell'art. 459, comma 1,
 del codice di procedura penale, nella parte in cui, limitando i  casi
 in cui e' possibile il procedimento per decreto ai reati perseguibili
 d'ufficio, escluderebbe da tale procedimento i reati puniti, ai sensi
 del  secondo  comma dell'art. 260 del codice penale militare di pace,
 "a richiesta del comandante del corpo o di altro ente  superiore,  da
 cui dipende il militare colpevole".
   Ad  avviso  del  giudice  a  quo,  l'esclusione di questi reati dal
 procedimento   per   decreto   discriminerebbe   ingiustamente    gli
 appartenenti  alle  forze  armate  che  commettano  tali infrazioni -
 peraltro di minima offensivita' e  di  assai  facile  accertamento  -
 rispetto ai militari che si rendano autori di reati anche piu' gravi,
 ma perseguibili d'ufficio.
   2. - Deve innanzitutto essere disattesa l'eccezione dell'Avvocatura
 generale dello Stato, secondo la quale la disciplina del procedimento
 per  decreto, in relazione ai reati militari, sarebbe tuttora dettata
 dagli  artt.  382  e  ss.  cod.  pen.  mil.  pace,  con   conseguente
 inapplicabilita', nel giudizio principale, della disposizione oggetto
 di censura.
   Piu'  volte  e da piu' parti e' stata lamentata (da ultimo anche da
 questa Corte: sentenza n. 180 del 1996)  l'assenza  di  una  compiuta
 disciplina  di  coordinamento  tra  il codice di procedura penale del
 1988 e il codice penale militare  di  pace,  che  desse  chiarezza  e
 certezza   ai   criteri   legislativi   da  assumere  ai  fini  della
 identificazione degli  istituti  del  processo  militare  attualmente
 vigenti:  una  disciplina  necessaria,  fra  l'altro,  a rendere meno
 insicuri, nella evidente disarmonia di molti di questi  istituti  con
 le  corrispondenti  norme  del  codice di rito, i compiti dei giudici
 comuni, ai quali spetta la ricognizione del diritto vigente, e quelli
 del giudice delle  leggi,  chiamato  a  risolvere  le  antinomie  tra
 legislazione ordinaria e Costituzione in base al criterio gerarchico.
   Le  difficolta'  nascono  dal  fatto  che, perdurando l'inerzia del
 legislatore, quelle disarmonie sono sottoponibili, in astratto, a due
 trattamenti  alternativi.  Una  accezione  rigida  del  principio  di
 specialita' codificato dall'art. 261 cod. pen. mil. pace porterebbe a
 ritenere  comunque vigenti tutti gli istituti del processo militare e
 ad affrontare, se mai, in termini di invalidita'  ogni  questione  di
 compatibilita'  di  tali  istituti  con i principii del nuovo codice.
 Un'interpretazione piu' flessibile,  guidata  dalla  esigenza  di  un
 ragionevole  temperamento  del criterio di specialita', porterebbe di
 contro a dar  rilievo,  gia'  al  momento  della  ricognizione  della
 disciplina  vigente,  al  requisito  della  compatibilita',  e  a far
 ritenere senz'altro abrogate tutte le norme del processo militare che
 appaiano incapaci  di  armonizzarsi  con  i  principii  ai  quali  e'
 ispirato  il  nuovo  codice di procedura penale. Ne' una soluzione di
 questo genere apparrebbe  manifestamente  estranea  alle  virtualita'
 oggi  racchiuse  nel sistema dei rapporti tra i due codici. Lo stesso
 art. 261 appena citato, accanto al criterio di specialita' del codice
 militare,  pone  quello  di  complementarita'  dei  due   codici.   E
 quest'ultimo  criterio  e'  a  sua  volta  espressione di una istanza
 legislativa di unificazione sistematica che, se alle  origini  poteva
 ritenersi  soddisfatta  quasi naturalmente dal carattere omogeneo dei
 codici in questione, entrambi ordinati attorno ai canoni del processo
 inquisitorio,  rischia   oggi   di   rimanere   frustrata   a   causa
 dell'irrompere nel nuovo codice dei principii del rito accusatorio.
   Questi  principii,  all'impatto  con  le vecchie norme del processo
 militare, possono dar luogo a disarmonie  tali  da  impedire  ai  due
 corpi  normativi  di  atteggiarsi,  nel  loro  insieme  e  pur  nelle
 rispettive diversita', come un sistema unitario e coerente. E' allora
 evidente che, per mantenere la pienezza del significato e del  valore
 della  "complementarita'",  positivamente riconducibile all'art. 261,
 puo' non essere sufficiente all'interprete, in sede  di  ricognizione
 della  norma  da  applicare,  la  mera  constatazione  del  carattere
 derogatorio di una determinata disciplina del processo  militare,  ma
 rendersi  necessaria  una  operazione  ermeneutica piu' complessa che
 puo'  assurgere  a  vera  e  propria   attivita'   di   coordinamento
 interpretativo  (quel  coordinamento che il legislatore ha mancato di
 compiere  con  disposizioni  espresse)  e  che  comporti  la   previa
 valutazione  della  compatibilita'  delle norme del processo militare
 con i principii fondamentali del nuovo codice.
   3.  -  Entrambi  i  percorsi  interpretativi  ora  delineati   sono
 astrattamente  plausibili:  sia  una  visione ancorata a criteri piu'
 tradizionali nella teoria giuridica, che porterebbe a ritenere sempre
 vigenti gli istituti del processo militare e a rimettere  al  giudice
 delle    leggi,   sul   parametro,   peraltro,   delle   sole   norme
 costituzionali, tutta intera l'attivita' di coordinamento tra  i  due
 corpi  normativi;  sia  una  prospettiva  piu' temperata della teoria
 della specialita'  tendente  a  includere  la  compatibilita'  con  i
 principii  legislativi  del  nuovo  codice tra i requisiti di vigenza
 delle norme del processo militare.
   Tra le due diverse impostazioni e' su questa seconda  che  sembrano
 in  prevalenza  attestate,  in  maniera  sostanzialmente concorde, la
 prassi organizzativa e la giurisprudenza di legittimita'.
   Quanto  alla  prassi,   un   primo   importante   dato,   rifluente
 sull'assetto  della  giurisdizione  militare  e  sull'effettivo  modo
 d'essere dei rapporti tra i due codici, e' offerto  dal  rilievo  che
 nel  processo  militare  e'  oramai  presente  e si e' consolidata la
 figura del giudice per le  indagini  preliminari.  Risalente  ad  una
 delibera  del  Consiglio  della  magistratura  militare del 22 luglio
 1989, il cui contenuto e' stato  recepito  con  variazione  tabellare
 apportata dal d.P.R. 10 novembre 1989, l'introduzione del giudice per
 le  indagini  preliminari  e'  evento  che,  se  pure  non presuppone
 necessariamente  l'abrogazione  dell'intero  codice  penale  militare
 (come  invece  si e' da taluno ritenuto), mette capo ad una accezione
 del principio di specialita' piu' fluida che postula una  valutazione
 di compatibilita' da compiersi in sede di accertamento della vigenza.
   La  vicenda  non potrebbe essere spiegata semplicemente affermando,
 come pure si e' fatto in dottrina, che la figura del giudice  per  le
 indagini  preliminari  abbia  trovato  il  varco aperto fra le maglie
 larghe della disciplina del processo penale militare, non incontrando
 in questa norme diverse che le  sbarrassero  il  cammino.  Il  codice
 militare   conosceva,   infatti,  tutti  gli  istituti  del  processo
 inquisitorio, che collidevano con l'introduzione di un organo  tipico
 del  modello  accusatorio; conosceva il giudice istruttore militare e
 regolava autonomamente (e non con un semplice  rinvio  al  codice  di
 procedura  penale)  sia  l'istruzione  formale che quella sommaria, e
 sempre autonomamente, agli artt. 340 e ss., regolava i  rapporti  tra
 giudice  istruttore  e  pubblico  ministero militare e la conclusione
 dell'istruzione con i vari tipi di provvedimento.
   Se dunque oggi il processo militare  annovera  il  giudice  per  le
 indagini preliminari tra gli organi della giustizia militare, cio' e'
 potuto avvenire, inconfutabilmente, sul presupposto della intervenuta
 abrogazione,  per  effetto del nuovo codice, degli articoli 324 e ss.
 cod. pen. mil. pace, che regolavano  l'attivita'  istruttoria  e  gli
 organi  ad  essapreposti;  abrogazione, si aggiunga, impensabile alla
 stregua  di  una  visione  rigida  del  criterio  di  specialita'   e
 concepibile  solo  se  su  tale  criterio si innesta quello della lex
 posterior, sia  pure  limitatamente  ai  principii  fondamentali  del
 modello accusatorio e agli istituti che nel nuovo codice di procedura
 penale ne costituiscono la positiva concretizzazione.
   Quanto  alla  giurisprudenza  di legittimita', essa si attiene a un
 ordine  di  idee  non  sostanzialmente  discosto  da  quello   appena
 tratteggiato.    Dopo  iniziali  contrasti,  e  sia  pure seguendo un
 itinerario argomentativo in parte diverso,  la  Corte  di  cassazione
 (sezioni  unite  penali  n.   1684 del 20 febbraio 1995) e' pervenuta
 alla conclusione che le norme contenute nel  nuovo  codice  di  rito,
 anche  se  non  escludono  eventuali  deroghe  alla  applicazione  di
 istituti dalle stesse regolati, chiedono che  dette  deroghe  non  si
 pongano  in  contrasto  con i principii fondamentali ai quali risulta
 ispirato il nuovo sistema processuale. I rapporti tra i  due  codici,
 secondo  il  giudice  di legittimita', nella non chiara coordinazione
 delle norme e in attesa di un'iniziativa del  legislatore,  risultano
 insomma  dalla  combinazione  del  criterio di specialita' con quello
 cronologico: il primo rende ragione delle deroghe al codice  di  rito
 comune  nei  riguardi di reati di competenza del giudice militare; il
 secondo, del prevalere dei principii dai  quali  e'  retto  il  nuovo
 codice  sulla  disciplina, eventualmente diversa e incompatibile, del
 processo militare.
   A questa conclusione,  plausibile  in  astratto,  confortata  dalla
 prassi   e   da   un   indirizzo  giurisprudenziale  sufficientemente
 consistente, quando pure non assurto a diritto vivente, questa  Corte
 ritiene  di  attenersi.  Il criterio di individuazione degli istituti
 del processo  militare  tuttora  vigenti  e'  anche  quello  del  non
 contrasto  o,  se  si preferisce, dell'armonia minima, nel senso che,
 prima di affermare la vigenza di un istituto in forza  dell'art.  261
 cod.  pen. mil. pace, e' necessario saggiarne la compatibilita' con i
 principii ispiratori del codice di rito comune, o  per  converso,  il
 permanere della ragione giustificatrice del carattere di specialita'.
   4.  -  Se  si  applicano gli anzidetti criteri al caso di specie ne
 risulta che la disciplina contenuta nel codice  di  procedura  penale
 agli  artt.  459  e  ss.,  in  tema  di  procedimento per decreto, ha
 abrogato quella del codice penale militare di pace di cui agli  artt.
 382  e  ss.  Spinge  in  questa  direzione  il decisivo argomento che
 nell'ordinamento militare il giudice per le indagini preliminari  non
 e'  entrato  come  mera  ipostasi,  presenza astratta indifferente al
 contenuto delle sue funzioni.  Al  contrario:  chiave  di  volta  del
 modello  processuale del 1988 e' proprio la correlazione, sistematica
 e inscindibile, tra il nuovo organo monocratico e le funzioni che gli
 sono attribuite, che nel  loro  insieme  concorrono  a  definirne  la
 posizione  di  interlocutore  del  pubblico ministero, sia durante la
 fase delle indagini preliminari che al termine di  essa,  allorquando
 cioe'  gli  vengono  sottoposte,  a seconda dei casi e ricorrendone i
 diversi presupposti, le  richieste  di  archiviazione,  di  rinvio  a
 giudizio,   di   giudizio  abbreviato,  di  applicazione  della  pena
 "patteggiata", di giudizio immediato, ovvero di emissione del decreto
 penale di condanna.  E  cosi'  come,  istituito  il  giudice  per  le
 indagini  preliminari  militare,  non  si  e' dubitato che al seguito
 della nuova figura entrassero nel processo militare i cosiddetti riti
 alternativi e le funzioni che in relazione a questi le competono  nel
 codice  comune,  per  la stessa logica, incentrata sulla correlazione
 sistematica tra organo e funzione, non deve dubitarsi che tale figura
 abbia recato con se', quale necessaria destinataria  delle  richieste
 del  procuratore  militare,  la  disciplina processualpenalistica del
 procedimento per decreto dettata dagli artt. 459  e  ss.  cod.  proc.
 pen.
   Si  deve  aggiungere,  per  completezza  di  argomentazione, che la
 riprova che il procedimento per decreto sia uno degli ambiti  in  cui
 il  criterio  della  lex posterior e' destinato a prevalere su quello
 della lex specialis viene dal progressivo attenuarsi  medio  tempore,
 nella disciplina del processo militare, dei connotati di specialita',
 anche  per  alcune  modifiche  che  hanno interessato il rito comune:
 l'applicabilita' del procedimento per decreto,  nel  nuovo  processo,
 non  solo  ai  reati  di competenza del pretore, ma anche a quelli di
 competenza del tribunale; l'esser  possibile,  a  differenza  che  in
 passato,  il  ricorso  al  procedimento  per decreto anche in caso di
 sanzioni detentive, purche' sostituibili ai sensi dell'art. 53  della
 legge  24  novembre  1981,  n. 689; la sostituibilita' delle sanzioni
 detentive, ai sensi della medesima disposizione, anche  per  i  reati
 militari,  a seguito della sentenza di questa Corte n.  284 del 1995;
 l'esservi ormai, sia nel processo comune che nel  processo  militare,
 un  organo  monocratico  cui  attribuire la competenza ad adottare il
 decreto penale in luogo del presidente del tribunale militare  o  del
 giudice da lui delegato.
   5.   -  Accertato,  dunque,  che  l'ipotesi  avanzata  dal  giudice
 remittente di dover applicare  l'art.  459  cod.  proc.  pen.  appare
 condivisibile,   la   questione   sollevata   e'  tuttavia  priva  di
 fondamento.
   Lo sfondo sul quale si muove l'ordinanza di  rimessione  e'  quello
 dell'art.  260, secondo comma, cod. pen. mil. pace che stabilisce che
 una serie di reati siano puniti a richiesta del comandante del  corpo
 o  di  altro ente superiore da cui dipende il militare colpevole.  Di
 tale disposizione questa Corte si e' occupata piu' volte ed ha sempre
 dichiarato  infondate o manifestamente infondate le diverse questioni
 che le sono state nel tempo sottoposte (da ultimo, ordinanza  n.  396
 del 1996).
   Il  giudice  remittente non si duole del fatto che la richiesta del
 comandante del corpo sia prevista nel citato art. 260 come condizione
 di procedibilita', ma lamenta  che  per  questa  categoria  di  reati
 (punibili,  appunto,  a  richiesta)  non  possa  essere  promosso  il
 procedimento per decreto, esperibile, ai  sensi  dell'art.  459  cod.
 proc.  pen.,  nelle  sole  ipotesi di reati perseguibili di ufficio e
 pertanto non utilizzabile per quei casi nei quali  la  procedibilita'
 sia comunque condizionata.
   Ma  e'  pure acquisito alla giurisprudenza costituzionale che anche
 la scelta  del  modo  di  procedibilita'  (d'ufficio,  a  querela,  a
 richiesta, su autorizzazione, etc.) coinvolge la politica legislativa
 e  deve  quindi  rimanere  affidata  a  valutazioni discrezionali del
 legislatore; essa presuppone infatti  bilanciamenti  di  interessi  e
 opzioni  di politica criminale spesso assai complessi, sindacabili in
 sede di legittimita'  costituzionale  solo  per  vizio  di  manifesta
 irrazionalita'  (sentenza  n. 7 del 1988, ordinanze n. 204 del 1988 e
 n. 284 del 1987).
   Osserva tuttavia il giudice  remittente  che  l'attuale  disciplina
 comporta l'esclusione del procedimento per decreto per molti reati di
 lieve  entita' punibili a richiesta, mentre ne consente l'impiego per
 reati   incomparabilmente   piu'   gravi   perseguibili    d'ufficio,
 discriminando  cosi'  i  militari  che  se ne siano resi colpevoli. A
 parte il rilievo  che  un  fenomeno  analogo  si  verifica  anche  in
 relazione  a  reati comuni (si pensi all'ipotesi del reato di lesioni
 colpose  lievi,  punibile  a  querela,   e   non   sottoponibile   al
 procedimento  per decreto, che puo' essere invece adottato per alcune
 fattispecie di  lesioni  colpose  gravi  e  gravissime,  perseguibili
 d'ufficio),  deve  osservarsi  che la valutazione del legislatore, ai
 fini del trattamento processuale dei reati per i quali e'  esperibile
 il  procedimento  per  decreto, non e' collegata alla loro maggiore o
 minore gravita', ma,  come  risulta  anche  dai  lavori  preparatori,
 discende   dalla   presunzione,   che   non   appare   manifestamente
 irragionevole,  di  una  maggiore  complessita'  degli   accertamenti
 richiesti  per  i  reati  a  procedibilita'  condizionata, che non si
 addice alle caratteristiche di snellezza e celerita' proprie del rito
 monitorio.
   Nella  relazione  al  progetto  preliminare  al  nuovo  codice   di
 procedura,  questa  giustificazione  e'  espressamente  riferita alla
 condizione di procedibilita' costituita dalla  querela,  ma  essa  e'
 indubbiamente  tale  da  estendersi alla richiesta del comandante del
 corpo, da qualificare anch'essa come condizione di procedibilita'. E'
 insomma  l'aggravio   procedimentale,   peraltro   preordinato   alla
 salvaguardia  di interessi, pubblici o privati, meritevoli di tutela,
 che, nella valutazione non irragionevole del legislatore, ha  indotto
 a  limitare  il  procedimento  per decreto ai soli reati perseguibili
 d'ufficio.