IL TRIBUNALE CIVILE Ha pronunziato la presente ordinanza della quale ha dato lettura in pubblica udienza nella causa in grado di appello iscritta al n. 56616 del ruolo generale affari contenzioso dell'anno 1995 vertente tra l'INPS - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliato in Roma, via Palmiro Togliatti, 1520, presso lo studio dell'avv.to A. Contini che lo rappresenta e difende per procura generale alle liti (atto notaio Lupo di Roma del 7 ottobre 1993, repertorio n. 22737), appellante, e Bernardini Ada, elettivamente domiciliata in Roma, via Po, 72/A, presso lo studio dell'avv.to A. Petrivelli che la rappresenta e difende per procura a margine del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, appellata. Con tempestivo ricorso, depositato in data 7 ottobre 1995, l'INPS ha proposto appello avverso la sentenza in data 11/18 luglio 1995, con la quale il pretore di Roma, in funzione di giudice del lavoro, pronunziando su domanda proposta da Bernardini Ada, ha dichiarato il diritto di quest'ultima a godere del trattamento minimo sulla pensione di reversibilita' n. 2632955, di cui la stessa era titolare, con decorrenza dal 1 ottobre 1983 e sino al superamento di detto trattamento per effetto della perequazione automatica. Ha chiesto l'Istituto che, in totale riforma della impugnata sentenza, fossero respinte le domande proposte dalla Bernardini con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Ha censurato di erroneita' la impugnata sentenza deducendo che non poteva condividersi la "generale acritica acquiescenza con la quale i giudizi relativi alla questione della cristallizzazione vengono decisi in applicazione di discutibili principi sanciti dalle Magistrature superiori". Parte appellata, costituita, ha chiesto il rigetto dell'appello. Rileva il Collegio che parte appellata e' ricompresa tra i destinatari della assegnazione di titoli di Stato, di cui all'art. 1, commi 181 e 182 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, in quanto titolare di trattamento pensionistico integrato al minimo oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 240 del 1994. Il presente giudizio di gravame, pertanto, dovrebbe essere dichiarato estinto di ufficio, con integrale compensazione delle spese tra le parti, ai sensi dell'art. 1, comma 183 della legge 23 dicembre 1996, n. 662. La disposizione da ultimo richiamata appare al Collegio in contrasto con i precetti contenuti nelle disposizioni di cui all'art. 136, del combinato disposto degli artt. 70 e 134, dell'art. 24, commi 1 e 3, e dell'art. 3 della Costituzione. E' noto che le funzioni della Corte costituzionale (art. 134 della Costituzione), nell'attuale sistema, mirano a garantire e rendere operante il principio di legalita', che l'ordinamento dello Stato repubblicano ha esteso a livello Costituzionale, sottoponendo al rispetto delle norme costituzionali gli atti dei supremi organi politici statali, al pari dei rapporti che interrrono tra questi ultimi e tra Stato e regioni (Corte costituzionale 17 febbraio 1969, n. 15). Cio' comporta che l'esercizio della funzione di ripristino della somma legalita', nell'attuale ordinamento non tollera di essere posta nel nulla, nemmeno dal legislatore. Se e' condivisibile, invero, il principio, desumibile dall'art. 70 della Costituzione, della potenziale inesauribilita' della funzione legislativa, la quale puo', dunque, essere esercitata per un numero indefinito di volte, senza limiti di tempo, in tutte le materie che il legislore ritenga di disciplinare nuovamente (Corte costituzionale 17 maggio 1978, n. 68), e', peraltro, innegabile che tale inesauribilita' trova un preciso limite nel principio di legalita', il quale, esclude, in primo luogo, il ricorso allo strumento legislativo per porre, di fatto, nel nulla le pronunzie della Corte costituzionale, ovvero per introdurre di fatto revisioni della Costituzione senza sottomettersi ai procedimenti rigidi di riforma disciplinati nella sezione II del titolo VI della Costituzione della Repubblica. Va, peraltro, considerato che tutti i poteri pubblici, anche quelli di rango costituzionale, possono e devono essere esercitati unicamente per il perseguimento dei fini in relazione ai quali il potere e' attribuito, in cio' connotandosi i poteri costituzionali delle moderne democrazie, trattandosi di poteri discrezionali ma non liberi nel fine, secondo la definizione di accreditata dottrina costituzionalista. Con la conseguenza che gli organi, cui sono affidate le massime funzioni nelle quali si esprime la sovranita' dello Stato, non possono espletare le potesta' loro attribuite dalla Costituzione, nel complesso ed articolato sistema di "pesi" e "contrappesi", per scopi diversi da quelli cui le funzioni stesse sono finalizzate, ovvero, in via strumentale, per ledere l'autonomia degli altri poteri e funzioni, finalita', quest'ultima vietata dalla nostra Costituzione. In particolare, il potere legislativo, subordinato com'e', alla pari degli altri poteri costituzionali, all'impero delle norme e dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, incontra nel suo esplicarsi, il limite della legalita' e il limite generale costituito dalla ragionevolezza dell'intervento legislativo (Corte costituzionale 7 luglio 1964, n. 72, 15 luglio 1991, n. 346). Le considerazioni svolte evidenziano il contrasto tra la disposizione di cui all'art. 1, comma 183, della legge n. 662/1996 e l'art. 136 della Costituzione, che, nel disporre che "quando la Corte dichiara l'illegittimita' costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione", preclude al legislatore non solo di disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria efficacia, bensi' di raggiungere "anche se indirettamente" esiti corrispondenti a quelli gia' ritenuti lesivi della Costituzione (Corte costituzionale 19 luglio 1983, n. 223, 7 maggio 1994, n. 139, 19 dicembre 1990, n. 545, 28 luglio 1988, n. 922). E' noto che con la sentenza n. 240/1994 (la quale viene, come gia' evidenziato, in rilievo ai fini della decisione del presente giudizio di appello), la Corte costituzionale dichiaro' la illegittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 22 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nella parte in cui, nell'ipotesi da essa considerata, prevedeva la riconduzione dell'importo a calcolo dell'altra o delle altre pensioni non piu' integrabili, anziche' il mantenimento di esse nell'importo spettante alla data indicata, fino ad assorbimento negli aumenti della pensione derivanti dalla perequazione automatica. Sicche', come gia' osservato dal S.C. nella ordinanza n. 405/1996, pronunziata con riferimento alla norma, di contenuto identico a quello della disposizione in esame, di cui al d.-l. 28 marzo 1996, n. 166 (Gazzetta Ufficiale 29 marzo 1996, n. 75) "per effetto di quella pronunzia (additiva) di accoglimento il legislatore avrebbe dovuto astenersi da ogni intervento diretto a riportare in vita la normativa dichiarata incostituzionale". La disposizione di cui all'art. 1, comma 183, della legge n. 662/1996 appare, inoltre, in contrasto con il disposto di cui agli artt. 134 e 70, posto che la funzione legislativa ordinaria deve essere esercitata nel rispetto, per un verso, dei principi fissati dalla Costituzione e, per altro verso, entro i piu' generali limiti di ragionevolezza che proprio la Corte costituzionale, nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 134, ha piu' volte ampiamente enucleato dall'intero ordinamento giuridico costituzionale. La potesta' legislativa risulta, infatti, nel concreto esercitata non per disciplinare in maniera diversa (e, percio' legittima, per quanto osservato sulla inesauribilita' della potesta' legislativa) rispetto al passato la materia gia' disciplinata dal combinato disposto dell'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, e dall'art. 11, comma 2, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, quest'ultimo nel testo risultante dalla sentenza n. 240/1994 della Corte costituzionale, ne' per interpretare autenticamente altra legge che regola la materia della cristallizzazione dei trattamenti pensionistici integrati. Che', anzi, il legislatore mostra di volere intervenire per dare attuazione alle statuizioni del giudice delle leggi contenute nelle sentenze nn. 495/1993 e 240/1994. Dispone, invero, al comma 181 del richiamato art. 1 che "il pagamento delle somme, maturate fino al 31 dicembre 1995, sui trattamenti pensionistici erogati da enti previdenziali interessati, in conseguenza dell'applicazione delle sentenze della Corte costituzionale n. 495 del 1993 e n. 240 del 1994, e' effettuata mediante assegnazione agli aventi diritto di titoli di Stato, sottoposti allo stesso regime tributario dei titoli di debito pubblico, aventi libera circolazione ...". Di fatto, pero', nega pronta, immediata, completa e certa realizzazione ai crediti spettanti ai pensionati aventi diritto alla conservazione del trattamento minimo nell'importo c.d. "cristallizzato", in quanto introduce, rispetto alle situazioni pendenti, oneri non previsti dalle richiamate sentenze della Corte costituzionale. Il pagamento avverra', invero, con il sistema della assegnazione di titoli di Stato, in sei annualita', e con esclusione di interessi legali e rivalutazione monetaria in relazione agli importi maturati a tutto il 31 dicembre 1995, statuizione, quest'ultima, che disattende anche le statuizioni contenute nella sentenza n. 1561/1991, in tema di rivalutazione monetaria ed interessi legali di crediti aventi natura previdenziale. L'intervento del legislatore appare irragionevole anche perche' i rapporti tra i pensionati e l'Ente previdenziale, lungi dal trovare nella recente disciplina una regolamentazione coerente con l'assetto nel tempo consolidatosi in ragione dei numerosi interventi legislativi e delle altrettanto numerose pronunzie della Corte, risultano assolutamente non definiti e chiariti, fatto, questo, intollerabile in moderno Stato di diritto che postula che sia osservato, soprattutto dai massimi organi costituzionali, il principio di certezza dei rapporti giuridici, il quale costituisce, con quello di legalita', il cardine della vita civile e della tranquillita' dei consociati. Va evidenziato che la norma, qui sospettata di illegittimita', interviene a dettare una disciplina che riguarda gli aventi diritto al mantenimento della integrazione al minimo nel momento stesso in cui impone che siano dichiarati estinti i giudizi intesi all'accertamento del diritto dal quale si farebbero derivare l'ssegnazione in Bot e gli altri effetti. Con la conseguenza che ad un tempo mostra di attribuire determinati benefici agli aventi diritto ed elimina la possibilita' della individuazione giudiziale di chi sia l'avente diritto. Il regime di incertezza sul piano della disciplina sostanziale, alla quale, si e' appena fatto riferimento, appare ancor piu' intollerabile alla luce della disposizione che, imponendo la estinzione dei giudizi, esclude che la certezza sulla realizzazione del diritto possa raggiungersi con la via del processo. E cio' appare contraddittorio ed irragionevole in quanto la concreta applicazione della disposizione che e' sospettata di illegittimita' determinera' l'insorgere di nuovi processi. Le considerazioni svolte in relazione alla sostanziale inoperativita' delle statuizioni contenute nelle piu' volte richiamate pronunzie della Corte costituzionale in punto di integrazione dei trattamenti pensionistici e della loro "cristallizzazione" e di irragionevolezza dell'intervento legislativo evidenziano il contrasto della disposizione di cui al citato comma 183 anche con l'art. 24, comma 1, della Costituzione. La garanzia costituzionale affermata nella disposizione da ultimo richiamata opera, invero, attribuendo la piena tutela processuale delle situazioni giuridiche soggettive nei termini e nelle configurazioni che a queste derivano dalle norme di diritto sostanziale (Corte costituzionale 30 giugno 1988, n. 732). Non dubita il Collegio che il legislatore abbia il potere di dettare norme aventi contenuto concreto e particolare, dalle quali possono derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari in corso ovvero sui provvedimenti giurisdizionali. Non e', invero, ravvisabile una illegittima invasione da parte della funzione legislativa dell'ambito riservato dalla Costituzione alla autorita' giudiziaria, posto che la norma di diritto sostanziale che regola una situazione anche pregressa, senza violare un giudicato, non sottrae al giudice alcuna controversia ma gli fornisce, appunto, la regola di diritto che egli deve applicare. E', peraltro, ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte costituzionale il principio secondo cui la possibilita' di emanare leggi a contenuto concreto incontra uno specifico invalicabile limite nel rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso (Corte costituzionale 15 luglio 1991, n. 346). Ed e' noto che i limiti di costituzionalita' dell'intervento del legislatore nel processo, quando di questo venga definito l'esito attraverso una norma che ne imponga l'estinzione, sono stati dalla Corte costituzionale individuati con riferimento, in termini generali, al rapporto tra siffatto intervento ed il grado di realizzazione che alla pretesa azionata sia stato accordato per via legislativa (tra le tante, Corte costituzionale 10 dicembre 1981, n. 185, 10 aprile 1987, n. 123, 31 marzo 1995, n. 103). Nel caso in esame, l'estinzione dei processi in corso opera una sostanziale vanificazione della tutela giurisdizionale per un duplice ordine di ragioni. Il ius superveniens e' preordinato, come gia' evidenziato, non ad "arricchire" la situazione patrimoniale degli interessati bensi' a depauperarla attraverso il pagamento non immediato e attraverso la esclusione degli accessori del credito da essi vantato. Inoltre, la estinzione dei giudizi pendenti, a fronte di una riaffermata esistenza del diritto ad opera del legislatore e di una irrisolta persistenza della res controversa, nei termini sopra evidenziati, vanifica del tutto la garanzia della via giurisdizionale, intesa quale mezzo volto all'attuazione di un preesistente diritto attraverso, appunto, una pronunzia che, dando soddisfazione al diritto negato e contestato, ripristina la legalita' (Corte costituzionale nn. 42 e 111 del 1964, 30 del 1965, 2286 del 1974, 71 del 1979, 164 del 1982, 185 del 1986). Ma, l'art. 24, comma 1, della costituzione, appare violato anche dall'art. 1, comma 183 della legge n. 662/1996, nella parte in cui stabilisce che all'estinzione dei giudizi consegue la "compensazione delle spese tra le parti", in quanto sottrae alle parti la possibilita' di ottenere una pronunzia giudiziale su una questione comunque rilevante nell'economia della controversia. Peraltro, la previsione della compensazione delle spese nelle controversie, quali quella in esame, aventi natura previdenziale appare in contrasto con il comma 3 dell'art. 24 e con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, non apparendo ne' ragionevole ne' giustificato sottrarre le controversie di cui al comma 181, art. 1 alla disciplina dell'esonero dell'assistito soccombente dal pagamento delle spese nel processo previdenziale, quale prevista dagli artt. 152 disp. att. c.p.c. e 57 della legge 30 aprile 1969, n. 153, disciplina da ultimo confermata nella sua vigenza dalla sentenza della Corte costituzionale 13 aprile 1994, n. 134. La disparita' di trattamento appare tanto piu' irragionevole ed ingiustificata ove si consideri che le rivendicazioni azionate nei giudizi da dichiararsi estinti sono state ritenute fondate, come gia' evidenziato, dallo stesso legislatore. Da ultimo, non e' da tacere la considerazione che la particolare tecnica adoperata dal legislatore in forza della quale le singole norme risultano "nascoste" in una difficilmente leggibile distribuzione in 718 commi su tre articoli, concretizza, invece, che rimuovere, un ostacolo per i pensionati che contrasta con gli artt. 3, e 24, primo comma, e si pone in pratica in irragionevole contraddizione con l'art. 24, terzo comma, della Costituzione. La questione relativa alla conformita' ai principi costituzionali della disposizione che prevede la estinzione dei giudizi con integrale compensazione delle spese ha carattere preliminare assorbente rispetto al merito delle soluzioni adottate dal legislatore nei commi 181 e 182 dell'art. 1 della legge n. 662/1996, in punto di quantificazione dei diritti oggetto della presente controversia e degli accessori dei medesimi. Soluzioni rispetto alle quali e' preclusa al Collegio qualsivoglia attivita' interpretativa in ragione della ineludibilita' della disposizione che prevede la dichiarazione di ufficio della estinzione dei giudizi con integrale compensazione delle spese e che e' sospettata di incostituzionalita'. Tenuto conto delle considerazioni che precedono, stante la rilevanza - come risulta dalla premessa in fatto - delle questioni di legittimita' costituzionale della disposizione di cui all'art. 1, comma 183, gli atti devono essere trasmessi alla Corte costituzionale e deve, nel contempo disporsi che la Cancelleria adempia alle notificazioni ed alle comunicazioni prescritte dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, come precisate in dispositivo.