IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta al n. 152 r.g. 1997, su ricorso depositato il 25 marzo 1997 discussa all'udienza del 23 luglio 1997, promossa da: Giovanna Zoratti, Rossana Novasiri, Grazia Della Lunga, Franca Lappi e Loredana Maiani elettivamente domiciliate in Firenze alla via Guido Monaco, 25 presso lo studio dell'avv. Gabriella Del Rosso che le rappresenta e difende come da procura a margine del ricorso di primo grado, appellanti, contro l'I.N.P.S. con sede in Roma in persona del presidente pro-tempore elettivamente domiciliato in Firenze alla via Vecchietti, 13 presso l'ufficio legale dell'ente, rappresentato e difeso dall'avv. Maria Antonietta Ronzoni in forza di procura generale alle liti per atto del notaio F. Lupo di Roma, appellato, avente ad oggetto: art. 2 quarto comma lett. c d.lgs. n. 80 del 27 gennaio 1992 - Questione di legittimita' costituzionale - Non manifesta infondatezza - Rilevanza. Premessa di fatto Con sentenza in data 20 novembre 1996 il pretore del lavoro di Firenze respingeva, compensando interamente le spese del grado, le domande proposte dalle odierne lavoratrici appellanti nei confronti dell'I.N.P.S. al fine di ottenere il pagamento, a carico del Fondo di garanzia istituito a funzionante ex legge n. 297/1982, delle retribuzioni pertinenti ai tre mesi antecedenti al loro licenziamento con effetto dal 14 gennaio 1994 (disposto ai sensi dell'art. 4 legge n. 223/1997 dall'Azienda presso la quale erano alle dipendenze). Le attrici avevano supportato la loro domanda sulla base della previsione normativa contenuta nell'art. 2 del d.lgs. n. 80 del 27 gennaio 1992 sul presupposto che la societa' datrice di lavoro era stata dichiarata fallita in data 13 luglio 1994, esplicitando altresi' che la loro ammissione a fruire dell'indennita' di mobilita' - prevista dalla legge n. 223/1991 in caso di licenziamenti collettivi - non poteva costituire un ostacolo al conseguimento del diverso diritto rappresentato dal credito di lavoro afferente agli ultimi tre mesi del rapporto. Su questo particolare punto le ricorrenti avevano poi dedotto che, se l'impedimento alla realizzazione del credito doveva essere ravvisato in base all'art. 2, comma 4, lett. c, del decreto legislativo n. 80/1992, la questione del contrasto con la previsione di legge poteva e doveva essere superata promuovendo la questione di legittimita' costituzionale di questa norma per contrasto con gli artt. 11, 76, 3 e 38 della Costituzione. Il pretore, riscontrato che tale disposizione finiva con negare apertamente la tutela invocata dalle lavoratrici, respingeva la domanda riconoscendo altresi' la manifesta infondatezza della proposta questione di legittimita' costituzionale. Il magistrato motivava il rigetto sotto quest'ultimo profilo spiegando che il decreto legislativo n. 80/1992, previsto dall'art. 48 della legge di delega n. 428/1990, era stato emanato in attuazione della direttiva comunitaria n. 987 del 20 ottobre 1980 che, nella complessiva valutazione di tutti gli strumenti di tutela apprestati dai singoli Stati rispetto alle vicende incidenti sulla risoluzione dei rapporti di lavoro in caso di insolvenza delle imprese, aveva contemplato la possibilita' per ciascun ordinamento giuridico di fissare un massimale delle garanzie di tutela avverso le situazioni d'insolvenza in modo da non superare per eccesso il fine sociale individuato dalla direttiva. Rilevava inoltre il giudicante come nella fattispecie non si potesse far riferimento ad una violazione degli artt. 11 e 76 della Costituzione poiche', se da un lato era la stessa fonte comunitaria ad imporre un limite di tutela che doveva essere assicurato in forza del principio di conformita' di cui alla lett. f dell'art. 2 legge n. 428/1990, dall'altro, era anche vero che l'art. 48 di tale legge delega poneva una limitazione non dettagliata, dovendosi, in tal modo, ricorrere ai principi enunciati in sede comunitaria. Muovendo da questo assunto il giudice osservava che l'esaustiva delimitazione del problema ad opera del Consiglio delle Comunita' europee aveva ridotto, annullandola, la questione sul diverso fondamento della tutela di un credito retributivo (non corrisposto a causa dell'insolvenza) rispetto a quella che viene fornita al lavoratore in seguito alla perdita di occupazione. Il mancato contrasto con gli artt. 3 e 38 della Costituzione veniva invece desunto dalle condizioni di miglior favore comunque assicurate dall'indennita' di mobilita' rispetto ad altre provvidenze contro la disoccupazione. Con ricorso depositato in cancelleria il 25 marzo 1997 le lavoratrici hanno impugnato la decisione chiedendone la riforma previa remissione al giudizio della Corte costituzionale della norma applicata dal primo giudice per la reiezione delle pretese azionate dalle attrici. L'I.N.P.S. si e' costituito resistendo ed ha concluso per il rigetto del gravame ritenendo, in particolare, insussistenti le ragioni di illegittimita' costituzionale sollevate da controparte. Osservazioni in diritto Il tribunale ritiene che la questione di costituzionalita' sollevata dalle odierne appellanti non sia manifestamente infondata e sia rilevante per la decisione del giudizio in corso. Circa il primo profilo che legittima la rimessione degli atti al giudice delle leggi occorre notare come lo stesso pretore abbia incidentalmente sottolineato la diversita' delle ragioni di tutela che presidiano la soddisfazione di un credito di lavoro nell'ipotesi d'insolvenza del datore di lavoro da quelle espresse da una serie di istituti atti a fronteggiare le dannose conseguenze dell'evento disoccupazione. La diversita' delle esigenze e dei rimedi e' stata comunque risolta in primo grado sul piano dei principi affermati con la direttiva n. 987/1980 dell'organismo comunitario secondo il ragionamento esposto in fatto. In realta' il bisogno di una verifica della corrispondenza della norma ex art. 2, comma 4, lett. c, del decreto legislativo n. 80/1992 al dettato costituzionale sorge per ragioni estranee agli artt. 11 e 76 della Costituzione se si considera, in primo luogo, che la direttiva europea appena richiamata, pur nella ragionata conoscenza degli ambiti di tutela apprestati dai singoli componenti della Comunita', ha in definitiva rimesso alla scelta politica degli Stati membri l'individuazione di un "massimale di garanzia" idoneo ad impedire lo snaturamento per eccesso del "fine sociale" della direttiva senza, a ben vedere, ingerirsi in alcun modo della questione attinente al quantum della tutela accordabile in relazione all'evento insolvenza dei crediti di lavoro. Si puo' quindi dire che la fonte comunitaria, lungi dall'interferire con le concrete possibilita' legislative dei destinatari di apprestare una varieta', anche cumulativa, di rimedi rispetto agli eventi incidenti sulla funzionalita' del rapporto di lavoro (tra cui inadempienza e disoccupazione per cause non imputabili ai datori di lavoro), ha piuttosto individuato che l'ottemperanza del principio affermato in sede sovranazionale poteva essere raggiunta con la predisposizione di leggi strettamente funzionali allo scopo di evitare una scopertura di tutela del lavoratore non soddisfatto nel diritto alla retribuzione per l'effetto di cause accidentali gravate sul datore di lavoro. Oggetto della direttiva era questa zona di protezione, strettamente limitata dunque all'evento attinente alla fase in cui lo stato di occupazione lavorativa era comunque in atto. Si osserva, in secondo luogo, come la stessa legge di delega n. 428/1990 al punto b dell'art. 48 non si sia data carico di stabilire la natura e l'entita' - seppure per criteri direttivi - dei limiti che avrebbe dovuto fissare il Governo con riguardo all'ammontare dei crediti di lavoro rimessi all'intervento previdenziale del Fondo di garanzia. Cio' invero non era necessariamente data l'assenza di un vincolo imposto dalla direttiva ed in ragione del fatto che si trattava di una nuova forma d'intervento previdenziale pienamente compatibile con quelle gia' esistenti in relazione a diversi oggetti. Da questa angolazione del problema, impostata sulla carenza di precise direttive ad opera di entrambe le fonti, non e' pertanto immaginabile una lesione dei due precetti costituzionali sopra citati. Queste considerazioni conducono invece al fondato dubbio che la disposizione dell'art. 2, comma 4, lett. c, decreto legislativo n. 80/1992, negatrice dell'intervento a carico del Fondo di garanzia (volto alla prestazione dei tre mesi di retribuzione rientranti nell'arco dei dodici mesi antecedenti al fallimento od altra procedura correlata alla insolvenza) per coloro che abbiano percepito l'indennita' di mobilita' ai sensi della legge n. 223/1991 relativamente ai tre mesi susseguenti alla risoluzione del rapporto di lavoro, sia rispettosa degli artt. 3 e 38 della Costituzione. Secondo questo tribunale si tratta quindi di una verifica di costituzionalita' da effettuare con esclusivo riguardo ai principi di merito sottesi a quelle norme della Carta al di fuori dei vizi del procedimento di formazione della legge gia' esaminati ed, in questo caso, non riscontrabili. Se questo e' il tema dell'indagine allora si nota che - come non e' sfuggito al pretore - l'istituto riparatorio di una situazione di svantaggio per il lavoratore, entrato nel nostro ordinamento col decreto delegato del 1992 grazie all'adeguamento del principio sancito a livello europeo, rappresenta un rimedio previdenziale prima non contemplato in quella compiutezza e che ben puo' essere sotteso al contenuto del diritto costituzionale previsto all'art. 38 espresso con il concetto della previdenza come mezzo adeguato alle esigenze di vita per far fronte agli accadimenti pregiudizievoli per il cittadino lavoratore assistito. Il rischio addossato al sistema pubblico e' stato, in quest'ambito, individuato nella mancata corresponsione dell'elemento retributivo legato e discendente dal nesso di corrispettivita' sinallagmatica del rapporto di lavoro subordinato. Diverso per radice e funzione e' invece l'istituto dell'indennita' di mobilita' che assicura una copertura, sempre in funzione previdenziale, di uno stato soggettivo originato dalla cessazione della relazione lavorativa in conseguenza di una situazione coinvolgente la vita dell'azienda seppure, a volte, lo stato di crisi sia concomitante con l'insolvenza. Valutando la norma del quarto comma dell'art. 2 cit. nella sua intima coerenza si osserva, tra l'altro, che la lettera a collega l'esclusione del trattamento sostitutivo assegnato al Fondo alla percezione, nell'arco dei dodici mesi, della integrazione salariale che presuppone assenza o decurtazione della retribuzione e, cioe', una mancanza del diritto al salario compensata con altra fonte, per cosi' dire, sostitutiva. Si comprende pertanto che la pretesa al versamento della retribuzione per i tre mesi ex art. 2, comma 1, decreto legislativo n. 80/1992 si risolverebbe, in questa ipotesi, in una inammissibile duplicazione. Procedendo oltre e' da rilevare che la lettera b della fattispecie in esame e' affermativa un eguale intento di evitare la sommatoria di due beni della vita di identica natura e lo fa con una disposizione pleonastica dal momento che il lavoratore ha gia' ottenuto quanto la norma gli assicurerebbe. Infine, come si e' detto, la lettera c fa concorrere - escludendone uno - due diversi beni cosi' separamente radicati nella diversita' dei presupposti e degli oggetti di tutela da poter rientrare in posizione di coesistenza nelle finalita' previste dall'art. 38 della Costituzione. Ebbene la norma della lettera c in questione si manifesta intrinsecamente irragionevole in quanto squilibria due distinte forme di tutela previdenziale aventi pari dignita' di contenuti e di fini. Essa appare altresi' foriera di disparita' di trattamento una volta che nel nostro ordinamento e' entrata e si affiancata alle altre forme di tutela ricomprese nell'art. 38 della Costituzione quella forma di protezione sociale contro gli stati di insolvenza delle imprese. Tale irragionevole diseguaglianza risulta innanzitutto dal confronto fra la posizione di chi ha percepito, per sua fortuna data dalla solvibilita' del datore di lavoro, tanto le retribuzioni afferenti al normale svolgersi del rapporto quanto, una volta determinatosi il licenziamento collettivo ai sensi dell'art. 4 legge n. 223/1991, l'indennita' di mobilita', e la posizione del lavoratore che si e' imbattuto in un datore di lavoro impossibilitato a prestare, prima del licenziamento collettivo, anche la retribuzione. Non secondaria e' poi la disparita' di trattamento rispetto sia a lavoratori che siano stati sottoposti a licenziamenti individuali al cui seguito non corre la prestazione della mobilita' sia a coloro che, in luogo dell'indennita' di mobilita', ottengano altrove il reimpiego, laddove si consideri che, perlomeno nella forma dell'aliunde perceptum, il nostro ordinamento lavoristico e' sensibile all'influenza di un fattore estrinseco alla sfera di tutela dei diritti del lavoratore permettendo, nel concorso di una simile contingenza, una decurtazione risarcitoria dei diritti lesi dal licenziamento individuale. Analoga diseguaglianza si riscontra poi rispetto ai soggetti a favore dei quali opera il diritto ad una provvidenza economica distinta nominalmente ma assimilabile nella sostanza a quella di mobilita' come l'indennita' di disoccupazione, senza che possano rilevare fattori come l'entita' dei benefici o la durata della percezione in quanto, ai fini della disposizione in esame, e' stata valutata la corresponsione dell'indennita' di mobilita' per i tre mesi successivi alla risoluzione del rapporto di lavoro. Oltre che apparentemente fondata la questione di costituzionalita' e' anche rilevante per la decisione del giudizio in corso poiche' la caducazione della norma in questione comporterebbe l'accoglimento delle domande articolate dalle odierne appellanti.