ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 404 del  codice
 penale,  promosso con ordinanza emessa il 6 dicembre 1995 dal pretore
 di Trento, sezione distaccata di Borgo  Valsugana,  nel  procedimento
 penale  a  carico  di  Luciani Carlo ed altro, iscritta al n. 529 del
 registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale   della
 Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 1996;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  12  marzo 1997 il giudice
 relatore Gustavo Zagrebelsky.
                           Ritenuto in fatto
   1. - In un giudizio penale per reati  di  danneggiamento  e  offesa
 della  religione cattolica mediante vilipendio di cose, il pretore di
 Trento, sezione distaccata di  Borgo  Valsugana,  ha  sollevato,  con
 ordinanza   del   6   dicembre   1995,   questione   di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 404 del codice penale, in  riferimento  agli
 artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione.
   La  disposizione  incriminatrice  dell'art.  404  del codice penale
 (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose),  per
 la  quale  si  procede  nel  giudizio principale, stabilisce al primo
 comma la pena della reclusione da uno a tre anni per "chiunque, in un
 luogo destinato al  culto,  o  in  un  luogo  pubblico  o  aperto  al
 pubblico,  offende  la  religione dello Stato, mediante vilipendio di
 cose che formino oggetto di culto, o siano  consacrate  al  culto,  o
 siano  destinate  necessariamente all'esercizio del culto"; mentre il
 successivo art.  406 (Delitti contro i  culti  ammessi  nello  Stato)
 stabilisce che "chiunque commette uno dei fatti preveduti dagli artt.
 403,  404  e  405 contro un culto ammesso nello Stato" sia punito "ai
 termini dei predetti articoli", ma prevede al contempo  che  la  pena
 sia diminuita.
   2.   -   Il  pretore  argomenta  il  quesito  di  costituzionalita'
 richiamando, in primo luogo, la sentenza n. 125 del 1957 della  Corte
 costituzionale,  che  ha  dichiarato  non  fondata analoga questione,
 sollevata in riferimento agli artt. 7 e 8 della  Costituzione.  Nella
 decisione  - osserva il rimettente - si e' escluso il contrasto della
 norma  con  il  principio  di  uguale  liberta'   delle   confessioni
 religiose,  sia  perche' "l'art.   404 non limita il libero esercizio
 dei culti e la liberta' delle varie confessioni religiose, ne' limita
 la  condizione  giuridica  di  chi  professa  un  culto  diverso  dal
 cattolico",  sia perche' gli artt.  7 e 8 non stabiliscono la parita'
 tra le diverse confessioni, "ma ne differenziano invece la  posizione
 giuridica,   che  e'  si'  di  eguale  liberta',  ma  non  di  eguale
 regolamento dei rapporti con lo Stato".  Osserva inoltre il giudice a
 quo, richiamando passaggi della  relazione  ministeriale  sul  codice
 penale  del  1930, che la configurazione delle diverse incriminazioni
 in tema di vilipendio  delle  religioni,  con  la  tutela  rafforzata
 relativamente   agli  atti  compiuti  in  dispregio  della  religione
 cattolica e dei suoi simboli, rispecchia l'intento del legislatore di
 allora, mosso dall'esigenza di tutelare la religione cattolica  quale
 "...  fattore  di  unita' morale della nazione", "bene di civilta' di
 interesse generale ... della piu'  ampia  importanza,  anche  per  il
 raggiungimento dei fini etici dello Stato".
   3.  -  L'entrata  in  vigore  della  Costituzione,  con  i principi
 fondamentali  di  laicita'  dello   Stato,   di   uguaglianza   senza
 distinzioni  di  religione  e  di  uguale  liberta' delle confessioni
 religiose,  e  poi   ulteriormente   la   modifica   del   Concordato
 lateranense,  attraverso  l'accordo  recepito  con  la legge 25 marzo
 1985, n. 121, che ha  esplicitamente  affermato  il  venir  meno  del
 principio  della  religione cattolica come sola religione dello Stato
 italiano, avrebbero dovuto - prosegue il rimettente - determinare una
 modifica legislativa  di  tutte  le  disposizioni  che,  come  quella
 impugnata,  fondano  una differenziazione di disciplina tra religione
 "dello Stato" e altri culti, a svantaggio di questi ultimi; ma  cosi'
 non e' stato.
   Si    e'    d'altra    parte   sviluppata,   nella   giurisprudenza
 costituzionale,   una   linea   di    progressiva    riconsiderazione
 dell'assetto  normativo in argomento. La sentenza n. 79 del 1958, nel
 riconoscere  al  sentimento  religioso  sul  piano   individuale   il
 carattere  di  diritto inviolabile, segna altresi' la separazione del
 sentimento religioso collettivo dalle commistioni  con  le  finalita'
 dello Stato etico, giustificando la tutela rafforzata della religione
 "dello  Stato"  in  quanto rivolta a un bene di interesse della quasi
 totalita' dei cittadini e dunque sulla base del dato, quantitativo  e
 sociologico, della religione di maggioranza. Un criterio, questo, che
 e' utilizzato ancora nella sentenza n. 14 del 1973, che peraltro gia'
 contiene  l'invito  al legislatore a sanare la discriminazione tra le
 diverse confessioni e i rispettivi fedeli. Tale contesto normativo ha
 resistito anche alla sentenza n. 925 del 1988, nella quale pero', una
 volta  intervenuta  la ricordata modifica degli accordi concordatari,
 la Corte ha riconosciuto che un diritto  inviolabile  della  persona,
 come il sentimento religioso, non puo' essere diversamente tutelato a
 seconda  del  maggiore  o minore numero degli appartenenti a una data
 confessione; la decisione non e'  pervenuta  a  una  declaratoria  di
 incostituzionalita',  ma  solo  per  dare  tempo  al  legislatore  di
 svolgere, nella materia, le linee direttive della Costituzione.
   Il  punto  d'arrivo  di  questo  itinerario  della   giurisprudenza
 costituzionale  e'  rappresentato dalla sentenza n. 440 del 1995, che
 ha  dichiarato  l'incostituzionalita'  parziale   dell'incriminazione
 della  bestemmia  (art.  724  cod. pen.), in riferimento ai princi'pi
 contenuti negli artt.  3,  primo  comma,  e  8,  primo  comma,  della
 Costituzione.  Da questi princi'pi discende l'incompatibilita' con la
 Costituzione di una norma che "...differenzia la  tutela  penale  del
 sentimento  religioso  individuale  a seconda della fede professata".
 Nella citata decisione, inoltre,  si  e'  sottolineato  che  "...  la
 perdurante  inerzia  del  legislatore  non  consente ... di protrarre
 ulteriormente l'accertata  discriminazione,  dovendosi  affermare  la
 preminenza  del principio costituzionale di uguaglianza in materia di
 religione su altre esigenze ... pur apprezzabili, ma  di  valore  non
 comparabile".
   4. - Questione analoga a quella da ultimo indicata si manifesta, ad
 avviso  del giudice rimettente, nel raffronto tra l'art. 404 e l'art.
 406 del codice penale, poiche' anche  rispetto  a  queste  previsioni
 incriminatrici   debbono   valere   le  considerazioni  svolte  nella
 richiamata sentenza n. 440 del 1995, sia quanto  all'oramai  superata
 nozione di "religione dello Stato", sia quanto alla inammissibilita',
 sul  piano  costituzionale, della perdurante disparita' di disciplina
 penale dei medesimi fatti, a  seconda  che  costituiscano  vilipendio
 della  religione  cattolica  (art. 404), ovvero di un culto "ammesso"
 nello Stato (art. 406).
                         Considerato in diritto
   1. - Il pretore di Trento solleva una questione  costituzionale  di
 uguaglianza  in  materia  di  religione,  relativamente all'art. 404,
 primo comma, del codice penale che punisce con la reclusione da uno a
 tre anni "chiunque, in un luogo destinato al culto,  o  in  un  luogo
 pubblico  o  aperto  al  pubblico,  offende la religione dello Stato,
 mediante vilipendio di cose che formino oggetto  di  culto,  o  siano
 consacrate  al culto, o siano destinate necessariamente all'esercizio
 del culto", mentre l'art. 406 del codice penale  stabilisce  che  "la
 pena  e'  diminuita" qualora il medesimo fatto sia commesso contro un
 "culto ammesso nello Stato". Tale diversita' di pena nella  quale  si
 incorre  a  seconda  che l'offesa riguardi la "religione dello Stato"
 ovvero un "culto ammesso", viola, ad avviso del  giudice  rimettente,
 gli  artt.  3,  primo  comma, e 8, primo comma, della Costituzione, i
 quali proclamano rispettivamente la pari dignita' e l'uguaglianza  di
 tutti  i  cittadini,  senza  distinzione  di  religione,  e  l'uguale
 liberta' di tutte le confessioni davanti alla legge.
   2. - La questione e' fondata.
   Le norme richiamate prevedono una diversa sanzione  penale  per  il
 medesimo  fatto di reato, qualora esso sia commesso contro quella che
 il codice penale,  in  mancanza  di  una  riforma,  denomina  tuttora
 anacronisticamente  (si  veda  il  punto 1 del protocollo addizionale
 dell'accordo  di  modifica  del  Concordato lateranense, recepito con
 legge 25 marzo 1985 n. 121) la "religione dello Stato" - formula che,
 alla stregua della sentenza n. 925 del 1988  di  questa  Corte,  deve
 riferirsi  alla  religione  cattolica, in quanto gia' religione dello
 Stato - ovvero sia commesso contro un "culto ammesso nello  Stato"  -
 espressione  anch'essa  fuori tempo, dovendosi intendere nel senso di
 comprendere tutte  le  "confessioni  religiose",  diverse  da  quella
 cattolica,   che   rientrano   nella  protezione  dell'art.  8  della
 Costituzione.
   Tale diversita'  e'  stata  di  volta  in  volta  giustificata  con
 argomenti  non piu' idonei a consentirne il mantenimento nell'attuale
 ordinamento alla stregua degli invocati princi'pi costituzionali.
   Secondo la visione nella quale si mosse il  legislatore  del  1930,
 alla  Chiesa  e  alla religione cattoliche era riconosciuto un valore
 politico, quale fattore di unita' morale della nazione. Tale visione,
 oltre a trovare riscontro nell'espressione "religione  dello  Stato",
 stava  alla  base  delle  numerose  norme  che,  anche  al di la' dei
 contenuti e degli  obblighi  concordatari,  dettavano  discipline  di
 favore  a  tutela della religione cattolica, rispetto alla disciplina
 prevista per le altre confessioni  religiose,  ammesse  nello  Stato.
 Questa  ratio  differenziatrice certamente non vale piu' oggi, quando
 la  Costituzione  esclude  che  la   religione   possa   considerarsi
 strumentalmente  rispetto  alle  finalita'  dello  Stato  e viceversa
 (sentenze n. 334 del 1996 e n. 85 del 1963, nonche' n. 203 del 1989).
   La giurisprudenza di questa Corte, fin dalle sue  prime  decisioni,
 ha  infatti  posto  a  fondamento,  quale oggetto di tutela penale da
 parte delle norme in questione, il sentimento  religioso,  non  quale
 interesse  dello  Stato  ma  quale "interesse, oltre che del singolo,
 della collettivita'" (sentenza n. 125 del  1957).  Nell'ambito  della
 protezione di tale interesse collettivo, peraltro, fu riconosciuta la
 speciale  preminenza  della  religione  cattolica rispetto alle altre
 religioni e su questa base venne quindi giustificata la tutela penale
 della prima, rafforzata  rispetto  a  quella  offerta  alle  seconde,
 ritenendosi  che  da  cio'  non  derivasse  alcun  limite  al  libero
 esercizio  dei  culti  o  alla  condizione  giuridica  dei   credenti
 (sentenza   n.   125  citata).     Valse  allora  come  argomento  la
 considerazione  che  la  religione  cattolica  e',   per   antica   e
 ininterrotta  tradizione,  quella  professata dalla "quasi totalita'"
 dei cittadini (cosi', ancora, la gia' ricordata sentenza n.  125  del
 1957 e le sentenze n. 79 del 1958 e n. 14 del 1973).
   Tale criterio, quale giustificazione di discipline differenziate in
 ordine  alla  protezione  penale  del  sentimento religioso, e' stato
 successivamente abbandonato dalla  giurisprudenza  di  questa  Corte.
 Nella  sentenza n. 925 del 1988, in tema di reato di bestemmia, si e'
 affermato che "il superamento della contrapposizione fra la religione
 cattolica, "sola religione dello Stato", e gli altri culti "ammessi",
 sancito  dal  punto  1  del  protocollo  del   1984"   rende   "ormai
 inaccettabile ogni tipo di discriminazione che si" basi "soltanto sul
 maggiore  o  minore  numero degli appartenenti alle varie confessioni
 religiose".  E, da ultimo, nella sentenza n.  440  del  1995,  si  e'
 precisato che "l'abbandono del criterio quantitativo significa che in
 materia  di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari
 protezione della coscienza di ciascuna persona che  si  riconosce  in
 una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza". In
 tal  modo,  la  protezione  del  sentimento  religioso  e'  venuta ad
 assumere il significato di un corollario del  diritto  costituzionale
 di   liberta'   di  religione,  corollario  che,  naturalmente,  deve
 abbracciare allo stesso modo l'esperienza religiosa di  tutti  coloro
 che  la  vivono,  nella  sua  dimensione  individuale  e comunitaria,
 indipendentemente  dai  diversi  contenuti  di  fede  delle   diverse
 confessioni. Il superamento di questa soglia attraverso valutazioni e
 apprezzamenti   legislativi   differenziati  e  differenziatori,  con
 conseguenze  circa  la  diversa  intensita'   di   tutela,   infatti,
 inciderebbe  sulla  pari  dignita'  della  persona  e  si porrebbe in
 contrasto   col   principio   costituzionale   della    laicita'    o
 non-confessionalita'  dello Stato, affermato in numerose occasioni da
 questa Corte (sentenze n. 203 del 1989, n. 259 del 1990 e n. 195  del
 1993):  principio  che,  come  si  ricava  dalle  disposizioni che la
 Costituzione dedica  alla  materia,  non  significa  indifferenza  di
 fronte   all'esperienza   religiosa   ma   comporta   equidistanza  e
 imparzialita' della legislazione  rispetto  a  tutte  le  confessioni
 religiose.
   L'evoluzione   della  giurisprudenza  costituzionale  rende  infine
 improprio  il  riferimento,  quale  criterio   giustificativo   della
 differenziazione  operata  dalla  legge,  alla  presumibile "maggiore
 ampiezza e intensita' delle reazioni sociali che suscitano le offese"
 alla religione  cattolica,  criterio  talora  utilizzato  in  passato
 congiuntamente  a quello quantitativo (sentenze n. 79 del 1958, n. 39
 del 1965 e n. 14 del 1973). Il  richiamo  alla  cosiddetta  coscienza
 sociale,  se puo' valere come argomento di apprezzamento delle scelte
 del legislatore  sotto  il  profilo  della  loro  ragionevolezza,  e'
 viceversa vietato la' dove la Costituzione, nell'art. 3, primo comma,
 stabilisce  espressamente  il  divieto di discipline differenziate in
 base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto
 la religione.  Tale  divieto  vale  a  dire  che  la  protezione  del
 sentimento  religioso,  quale  aspetto  del diritto costituzionale di
 liberta'  religiosa,  non  e'  divisibile.  Ogni   violazione   della
 coscienza  religiosa  e'  sempre  violazione  di  quel bene e di quel
 diritto nella loro interezza e tale dunque da riguardare  tutti  allo
 stesso   modo,  indipendentemente  dalla  confessione  religiosa  cui
 eventualmente si appartenga, cosicche' non  e'  possibile  attribuire
 rilevanza,  in  vista  della  disciplina  giuridica, all'esistenza di
 reazioni sociali differenziate. Diversamente ragionando, si finirebbe
 per rendere  cedevole  la  garanzia  costituzionale  dell'uguaglianza
 rispetto a mutevoli e imprevedibili atteggiamenti della societa'.  Se
 si  considera  inoltre che tanta maggior forza tali reazioni assumono
 quanto piu' grande e' la loro diffusione nella societa', si comprende
 la  contraddizione  insita  nel  subordinare  a  esse   la   garanzia
 dell'uguaglianza,  una  garanzia  che,  rispetto ad alcuni potenziali
 fattori di disuguaglianza (tra i quali la religione),  concorre  alla
 protezione delle minoranze.
   E'  significativo,  a questo riguardo, che esplicite rivendicazioni
 di uguaglianza di trattamento  in  questa  materia  si  trovino  oggi
 espresse  in  intese  stipulate  dallo  Stato  con  varie confessioni
 religiose minoritarie e tradotte in legge dello Stato. Vi puo' essere
 la richiesta di una generale disciplina  equiparatrice  (come  e'  il
 caso  dell'art.  1, comma 4, dell'intesa con l'Unione delle comunita'
 ebraiche  italiane  del  27 febbraio 1989, recepito nell'art. 4 della
 legge 8 marzo 1989, n. 101, secondo il quale "e' assicurata  in  sede
 penale  la  parita'  di  tutela  del  sentimento  religioso"), ovvero
 dell'eliminazione altrettanto generalizzata di ogni protezione penale
 speciale diretta del sentimento religioso (come e' il  caso,  invece,
 dell'art.  4  dell'intesa con la Tavola Valdese del 21 febbraio 1984;
 del Preambolo all'Intesa con le Assemblee di Dio  in  Italia  del  29
 dicembre  1986;  del  Preambolo  all'intesa  con  l'Unione  Cristiana
 Evangelica Battista d'Italia del 29 marzo 1993): in ogni caso, vi  e'
 convergenza  nella  rivendicazione  di uguaglianza nel trattamento di
 fronte alla legge penale.
   3.  -  Gli  argomenti  portati  a  sostegno  della  differenza   di
 disciplina  posta  dagli artt. 404 e 406 cod. pen. risultano pertanto
 tutti superati, con la conseguenza  che  tale  differenza  si  rivela
 essere un'inammissibile discriminazione.
   A  questa  Corte,  nell'ambito  dei  propri  poteri,  compete porre
 rimedio a essa soltanto riconducendo a uguaglianza la quantificazione
 della   sanzione   penale,    attraverso    la    dichiarazione    di
 incostituzionalita'  dell'impugnato  primo  comma  dell'art. 404 cod.
 pen. nella parte in cui prevede una pena eccedente quella  diminuita,
 comminata  per  il  fatto  previsto dall'art. 406. Esula invece dalla
 giurisdizione costituzionale ogni affermazione circa la natura  della
 previsione  di  cui all'art.  406, in rapporto a quella dell'art. 404
 cod. pen., nonche' circa le modalita' di determinazione della  misura
 della pena diminuita, prevista dallo stesso art. 406.