ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  34,  comma  3,
 del  codice  di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 26
 giugno 1996  dal  giudice  per  le  indagini  preliminari  presso  il
 tribunale  di  Roma,  nel  procedimento  penale  a  carico di Pulcini
 Antonio, iscritta al n. 1015 del registro ordinanze 1996 e pubblicata
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  41,  prima   serie
 speciale, dell'anno 1996;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  18 giugno 1997 il giudice
 relatore Guido Neppi Modona.
                           Ritenuto in fatto
   1. - In esito al  procedimento  instaurato  ai  sensi  della  legge
 costituzionale  16  gennaio  1989,  n.  1,  il  Collegio  per i reati
 ministeriali presso il tribunale di  Roma  disponeva  l'archiviazione
 nei  confronti  di un ministro e altri indagati "laici", in ordine ai
 reati di peculato e falso ideologico.  Con  lo  stesso  provvedimento
 veniva ordinata la separazione della posizione di un indagato "laico"
 in  ordine al reato di cui agli artt. 48, 61 n. 2, 81, 476, 482 e 485
 del codice penale e l'invio dei relativi atti  al  procuratore  della
 Repubblica di Roma a norma dell'art. 2, comma 1, della legge 5 giugno
 1989, n. 219.
   Esercitatasi  l'azione  penale nei confronti dell'indagato "laico",
 all'udienza preliminare il giudice per le indagini preliminari presso
 il tribunale di Roma, considerato  che  egli  aveva  fatto  parte  in
 precedenza  del  Collegio per i reati ministeriali che aveva preso in
 esame  la  posizione  dell'imputato,  presentava   dichiarazione   di
 astensione  ex  artt.  34,  comma  3,  e  36,  comma 3, del codice di
 procedura  penale.    Il  Presidente  del  Tribunale   rigettava   la
 dichiarazione,  ritenendo  che  tra le ipotesi di incompatibilita' di
 cui all'art. 34 cod. proc.  pen., da considerare tassative,  non  era
 compresa quella dedotta.
   Nella  successiva  udienza  del  26 giugno 1996, preso atto di tale
 decisione, il giudice  per  le  indagini  preliminari  sollevava,  in
 riferimento  agli  artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 25, primo
 comma, 27, secondo comma, e 101, secondo comma,  della  Costituzione,
 questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 34, comma 3, cod.
 proc.  pen., "nella parte in cui non  prevede  l'incompatibilita'  ad
 esercitare   nel  medesimo  procedimento  l'ufficio  di  giudice  nei
 confronti del Collegio per i reati ministeriali".
   2. - Sottolinea il giudice a quo che egli e' stato investito  della
 funzione di giudice dell'udienza preliminare in ordine alla decisione
 circa  il  rinvio a giudizio di Pulcini Antonio, avendo appunto fatto
 parte in precedenza del Collegio per i reati ministeriali  che  aveva
 trattato   il   medesimo  procedimento,  compiendo  atti  istruttori,
 acquisendo documentazione e in  particolare  contestando  al  Pulcini
 quello  specifico episodio da cui era sorto il procedimento; atti che
 costituivano fonte di prova nell'attuale processo.
   E  dal  momento  che,  in  base  all'art. 1, comma 2, della legge 5
 giugno 1989, n. 219, il Collegio esercita, come anche  reiteratamente
 riconosciuto  dalla giurisprudenza, i poteri che spettano al pubblico
 ministero nella fase delle  indagini  preliminari,  appare  evidente,
 secondo  il  giudice  rimettente, che egli aveva in precedenza svolto
 funzioni inquirenti. Tali funzioni sono  peraltro  incompatibili  con
 quelle  giudicanti proprie del giudice dell'udienza preliminare, come
 deriva dall'art. 34, comma 3, cod. proc. pen.,  norma  finalizzata  a
 realizzare   la   assoluta  separazione  tra  funzioni  requirenti  e
 giudicanti, e pertanto  da  interpretarsi  nel  senso  che  rientrano
 nell'area  dell'incompatibilita' anche i casi in cui il giudice abbia
 di fatto svolto, attraverso l'esercizio dei relativi poteri, funzioni
 di pubblico ministero.
   Peraltro, osserva ancora il giudice a quo,  il  principio  generale
 enunciato  dall'art. 34, comma 3, cod. proc. pen. non e' di immediata
 estensione al caso di specie, soprattutto per la considerazione delle
 peculiari caratteristiche del procedimento innanzi al Collegio per  i
 reati  ministeriali, costituente, in relazione alla incerta natura di
 detto organo, un unicum nel nostro ordinamento.
   Risulterebbe peraltro indubbio che  la  normativa  sulle  cause  di
 incompatibilita'  vada  estesa  al  caso  di  specie,  trattandosi di
 salvaguardare il principio di imparzialita' e terzieta' del  giudice.
 L'omessa previsione in tal senso violerebbe gli artt. 3, primo comma,
 24,  secondo  comma, 25, primo comma, 27, secondo comma, 101, secondo
 comma,  della  Costituzione,  per  l'ingiustificata   disparita'   di
 trattamento   fra   fattispecie  sostanzialmente  analoghe,  tale  da
 inficiare il rispetto delle regole sul giudice naturale, sul  diritto
 di  difesa,  sulla  presunzione  di  innocenza e sull'indipendenza di
 giudizio del giudice.
   Osserva ancora il giudice a quo  che  la  questione  e'  certamente
 rilevante,   trattandosi   di   superare   la  situazione  di  stallo
 processuale  venutasi  a  creare  a  seguito  della   decisione   del
 presidente   del  tribunale  che  ha  respinto  la  dichiarazione  di
 astensione e che e' opportuno che al riguardo si  pronunci  la  Corte
 costituzionale  "non  solo  per risolvere il conflitto (improprio) ma
 altresi'    per    chiarire,    anche    se    al    limitato    fine
 dell'incompatibilita',  in  via  definitiva  i poteri e la natura del
 Collegio per i reati ministeriali".
                         Considerato in diritto
   1. - Il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale  di
 Roma  dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 34, comma 3,
 del codice di procedura penale,  "nella  parte  in  cui  non  prevede
 l'incompatibilita'  ad esercitare nel medesimo procedimento l'ufficio
 di giudice nei confronti dei componenti  del  Collegio  per  i  reati
 ministeriali".
   La  questione  e'  sollevata  con  riferimento  agli artt. 3, primo
 comma, 24, secondo comma, 25, primo comma, 27,  secondo  comma,  101,
 secondo   comma,   della   Costituzione,   in  quanto  la  disciplina
 denunciata, creando una ingiustificata disparita' di trattamento  tra
 fattispecie   sostanzialmente  analoghe,  violerebbe  il  diritto  di
 difesa,  il  rispetto   delle   regole   del   giudice   naturale   e
 l'indipendenza  di  giudizio  del giudice. In particolare, i principi
 della  imparzialita'   e   terzieta'   del   giudice   risulterebbero
 compromessi  dall'omessa  inclusione  tra  i casi di incompatibilita'
 previsti dall'art. 34, comma 3, cod. proc. pen. della  situazione  in
 cui viene chiamato a svolgere l'ufficio di giudice chi in precedenza,
 nella   sua   qualita'   di  componente  del  Collegio  per  i  reati
 ministeriali, ha di fatto  svolto  funzioni  di  pubblico  ministero:
 verrebbero  cosi'  a  sovrapporsi  le  funzioni  requirenti  e quelle
 giudicanti in capo al medesimo soggetto, in contrasto  con  la  ratio
 dell'art.  34,  comma  3,  cod.  proc.  pen.,  che  tra  le  cause di
 incompatibilita' indica l'esercizio nel medesimo  procedimento  delle
 funzioni  di  pubblico  ministero  e  dell'ufficio di giudice, ma non
 prevede espressamente, quale termine pregiudicante della relazione di
 incompatibilita', lo specifico caso dei componenti del Collegio per i
 reati ministeriali,  che  di  fatto  svolgono  funzioni  di  pubblico
 ministero.
   2. - La questione non e' fondata.
   Il  giudice  rimettente  ha correttamente individuato nell'art. 34,
 comma 3, cod. proc. pen. la norma ove sono disciplinate situazioni di
 incompatibilita' del tipo di quella denunciata, attinenti,  cioe',  a
 funzioni  esercitate  o  uffici  ricoperti  nell'ambito  del medesimo
 procedimento, capaci di pregiudicare l'imparzialita' e  la  terzieta'
 di  chi  verra'  poi chiamato a svolgere l'ufficio di giudice. Non ha
 pero' colto che nel caso di specie la situazione di  incompatibilita'
 va  logicamente  ravvisata in via preliminare ed assorbente per avere
 il Collegio per i reati ministeriali proposto un  atto  di  denuncia,
 mediante  l'individuazione degli estremi di un reato non ministeriale
 a carico di un concorrente  "laico"  e  la  conseguente  trasmissione
 degli atti al Procuratore della Repubblica.
   Dall'ordinanza di rimessione emerge, infatti, che il Collegio per i
 reati  ministeriali  -  compiute, a norma degli artt. 8, commi 1 e 2,
 della legge della Costituzione 16 gennaio 1989, n. 1; 1, commi 2 e 5,
 e 2, comma 1,  della  legge  5  giugno  1989,  n.  219,  le  indagini
 preliminari  - ha disposto l'archiviazione per i reati ministeriali e
 nel  contempo  ha  ordinato  la  separazione  nei  confronti  di   un
 concorrente  "laico" per un diverso reato, enucleando gli estremi del
 fatto di reato e ordinando, a norma dell'art. 2, comma 1, della legge
 n. 219 del 1989, la trasmissione  degli  atti  al  Procuratore  della
 Repubblica presso il Tribunale di Roma.
   Cosi'  operando,  il  Collegio  per i reati ministeriali ha assolto
 all'obbligo, imposto dall'art. 331 cod. proc. pen. nei confronti  dei
 pubblici  ufficiali  che nell'esercizio o a causa delle loro funzioni
 hanno notizia di un reato perseguibile d'ufficio, di farne denuncia e
 di trasmettere gli atti al pubblico ministero; tale situazione, cosi'
 come affermato in via generale dalla giurisprudenza di  questa  Corte
 (v.  sentenza  n.  292  del  1992),  configura  appunto  il  caso  di
 incompatibilita', espressamente previsto dall'art. 34, comma 3,  cod.
 proc. pen., di avere proposto denuncia.
   Ai  fini  della  decisione  della  questione  oggetto  del presente
 giudizio, non e' quindi necessario prendere  in  esame  la  peculiare
 fisionomia,  i  poteri  e  le  funzioni  del  Collegio  per  i  reati
 ministeriali (v.   sentenze n. 403 del  1994  e  n.  265  del  1990);
 l'ipotesi  di  incompatibilita' consistente nell'avere presentato una
 denuncia  obbligatoria  assume,  infatti,  un  valore  assorbente   e
 logicamente preliminare rispetto alla supposta funzione pregiudicante
 individuata  dal  giudice  rimettente  nell'avere  il Collegio svolto
 funzioni di pubblico ministero.
   Cio'  e'  quanto  basta  per  dichiarare  non fondata la censura di
 illegittimita' costituzionale dell'art. 34, comma 3, cod. proc.  pen.
 nei  termini  prospettati  dal rimettente, in quanto la situazione di
 incompatibilita' con l'ufficio di giudice dell'udienza preliminare in
 cui  viene  a  trovarsi  il  componente  del  Collegio  per  i  reati
 ministeriali  che ha ravvisato gli estremi di un reato a carico di un
 concorrente  "laico"  ed  ha  presentato  la  relativa  denuncia   al
 Procuratore  della Repubblica gia' comporta l'obbligo di astensione a
 norma del combinato disposto degli artt. 34, comma 3, e 36, comma  1,
 lettera g), cod. proc. pen.