IL PRETORE
   Con DCG emesso il 20 febbraio  1997,  il  p.m.  presso  la  pretura
 circondariale  di  Genova  disponeva  la  citazione  a giudizio degli
 odierni imputati, per rispondere dei  reati  di  cui  agli  artt.  81
 c.p.v.  110  c.p., 17 legge n. 107/1990 e 81 c.p.v. c.p., 17 legge n.
 107/1990, in relazione agli artt. 91  decreto  del  Presidente  della
 Repubblica n. 1256/1971 e 31, 34 d.m. 27 gennaio 1990.
   Nella  fase  degli  atti  preliminari,  le difese degli interessati
 proponevano varie questioni, attinenti sia al DCG (in relazione  alla
 formulazione  della  imputazione), sia alla normativa in applicazione
 (in relazione a vari profili di coerenza col dettato costituzionale).
   Il p.m. chiedeva la reiezione di tutte le eccezioni.
   Il pretore decideva  in  merito  alle  questioni  proposte  con  la
 presente ordinanza.
   A)  In  ordine  logico, la prima questione oggetto di esame attiene
 alla determinatezza della imputazione,  in  relazione  all'art.  429,
 comma 1, lett. c), c.p.p.
   Il  problema  e'  quello  di  valutare  se  la eventuale ampiezza o
 genericita' della descrizione dei fatti oggetto di contestazione  sia
 tale  da pregiudicare le ragioni della difesa, in concreto impedendo,
 o  comunque  rendendo  difficoltoso,  all'imputato,  l'esercizio  del
 relativo  diritto,  in  tutte  le sue manifestazioni (dalla scelta di
 riti  alternativi,  a  forma  e  modalita'  delle  prove  nel  merito
 dell'accusa).
   Dalla  lettura  del DGC, si rileva la precisa indicazione del luogo
 del fatto, del  periodo  di  tempo  -  limitato  -  in  cui  si  sono
 manifestate  le condotte in contestazione, della struttura privata in
 cui sono state poste  in  essere,  delle  qualita'  soggettive  degli
 interessati,  del  tipo  di  attivita'  che  si  assume  compiuta  in
 violazione della legge.
   In questi termini, l'imputazione risulta estremamente specifica.
   Problemi di indeterminatezza possono residuare  in  relazione  alle
 modalita'  di  estrinsecazione  della  condotta (non si precisa a chi
 sarebbe stato effettuato un dato  prelievo,  di  quale  paziente  non
 sarebbe stata restituita la unita' di sangue raccolta ecc.).
   Sotto  questo  profilo,  peraltro,  elementi  utili  possono essere
 ricavati dal p.v. di sequestro agli  atti,  idoneo  a  consentire  la
 necessaria integrazione dei dati specifici mancanti.
   Infatti,  se la pienezza del contraddittorio e, quindi, l'effettivo
 esercizio del  diritto  di  difesa,  non  possono  prescindere  dalla
 puntuale  contestazione dell'addebito, e' altrettanto vero che questo
 non  va  riguardato   esclusivamente   quale   si   manifesta   nella
 formulazione della imputazione, potendo ben avere rilievo integrativo
 tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, consentono
 all'interessato   la   precisa   conoscenza   della   sua  situazione
 complessiva (cfr., tra le altre,  C.  Cass.  Sez.  III,  sentenza  17
 aprile 1991, n. 04342).
   Per tali ragioni, va rigettata l'eccezione proposta.
   B)   La   seconda  questione  proposta  attiene  alla  legittimita'
 costituzionale dell'art. 17, legge n. 107/1990 - norma di riferimento
 della contestazione - valutata sotto  i  tre  diversi  profili  della
 determinatezza della fattispecie (art. 25, comma secondo, Cost.), del
 rispetto  della  riserva  di  legge  (art. 25, comma secondo, Cost.),
 della razionalita' complessiva del  sistema  sanzionatorio  (art.  3,
 comma primo, art. 27, comma terzo, art. 97, Cost.).
   Formalmente  la  questione  e'  stata  proposta,  anche con memoria
 scritta, dal difensore di due imputati, interessati solo ad una parte
 della contestazione (capo a), in relazione agli artt.  3,  27,  comma
 terzo, 97 Cost.
   Peraltro,  i difensori degli altri imputati, interessati a tutta la
 contestazione (capi a e b), si sono  formalmente  associati,  facendo
 proprie   le   eccezioni   presentate   ed   individuando,  sia  pure
 sinteticamente  e  solo  oralmente,  come  ulteriore   parametro   di
 riferimento, l'art.  25, comma secondo, Cost.
   La  rilevanza delle questioni in esame, dunque, non puo' che essere
 valutata   avuto   riguardo   alla   portata   delle   contestazioni,
 formalizzate  nel  capo  di imputazione e sintetizzabili nei seguenti
 termini: capo a), svolgimento di attivita'  autotrasfusionale  presso
 struttura  privata  non  legittimata; capo b), violazione delle norme
 che disciplinano l'iter delle singole  unita'  di  sangue  prelevate,
 dalla raccolta alla destinazione finale.
   Si tratta di condotte espressamente disciplinate dal'art. 17, comma
 primo,  legge  n.  107/1990 (anche in riferimento al d.m. 27 dicembre
 1990) e dalla stessa  norma  compiutamente  sanzionate,  onde  nessun
 dubbio puo' porsi circa la rilevanza delle questioni prospettate, non
 potendo  il presente giudizio essere definito indipendentemente dalla
 risoluzione delle stesse.
   L'esame del merito delle questioni presuppone alcune considerazioni
 preliminari circa la realta'  di  fondo  sottesa  alla  normativa  in
 esame.
   L'utilizzo del sangue e degli emoderivati nella pratica terapeutica
 ha  acquisito,  negli  ultimi  decenni, una valenza di tutto rilievo,
 assolutamente imprescindibile.
   A fianco dell'impiego "di prima urgenza", infatti, sempre crescente
 a fronte del moltiplicarsi di eventi traumatici (basti  solo  pensare
 all'aumento  costante  di incidenti stradali e infortuni sul lavoro),
 si e' andato affermando,  grazie  ai  progressi  della  medicina,  un
 utilizzo   accessorio   e  mirato  nei  vari  settori  della  pratica
 operatoria  (dall'autodonazione  anche  in  presenza  di   interventi
 ordinari,  all'auto/eterodonazione nel campo del trapianto di organi,
 fino ad arrivare al  settore  della  cura  delle  malattie  ematiche,
 leucemia e linfomi in primo luogo, caratterizzato da forme di impiego
 sempre  piu'  significative e sofisticate degli emocomponenti - dalle
 piastrine irradiate per la prevenzione della GVHD, fino  all'utilizzo
 delle  cellule  staminali  in  luogo  del trapianto, sia autologo che
 allogenico, del midollo -).
   A fronte di cio', si e' dovuto affrontare  il  problema  (peraltro,
 comune  a  molti  altri paesi) della insufficiente raccolta di sangue
 (mediamente mancano 600.000 unita' rispetto al fabbisogno teorico per
 anno), nonche' della assoluta incongrua  distribuzione  dello  stesso
 sul  territorio  dello  Stato  (con  particolare penalizzazione delle
 regioni meridionali).
   Tutto cio' ha determinato una  inevitabile  dipendenza  dall'estero
 (per  i  plasmaderivati,  oltre il 70% del fabbisogno nazionale), con
 oneri notevoli a  carico  del  servizio  sanitario  pubblico,  ed  ha
 favorito  le  piu' varie attivita' speculative, con evidenti e spesso
 tragici riflessi sulla salute della collettivita'.
   In questo quadro, dopo anni di  "dibattito  politico",  sulla  base
 della delega operata dalla legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio
 sanitario  nazionale,  e  in  recepimento della direttiva comunitaria
 381/1989, e' stata finalmente emanata la  legge  4  maggio  1990,  n.
 107,  recante  "Disciplina per le attivita' trasfusionali relative al
 sangue  umano  ed  ai  suoi  componenti  e  per  la   produzione   di
 plasmaderivati",   che   ha   espressamente   abrogato  la  normativa
 previgente.
   Obbiettivi fondamentali della legge n. 107/1990 sono: idoneita'  ed
 autosufficienza  nella raccolta del sangue, congrua distribuzione sul
 territorio nazionale del  relativo  prodotto,  massima  tutela  della
 salute pubblica.
   I  principi che presiedono al perseguimento dei suddetti obbiettivi
 ruotano  attorno  a  tre  particolari   direttrici:   anzitutto,   il
 superamento  del  cd "mercato del sangue", attraverso la fondamentale
 affermazione per cui "il sangue umano ed i  suoi  derivati  non  sono
 fonte  di  profitto"  - art. 1,   comma quarto, I p - ed i successivi
 corollari  (la  raccolta  e'  fondata  sulla  donazione   volontaria,
 periodica   e  gratuita  -  ex  art.  1,  comma  secondo;  la  stessa
 distribuzione al ricevente e' gratuita ed esclude addebiti  accessori
 e  oneri fiscali - ex art. 1, comma quarto; tutti i costi relativi al
 processo  di  "gestione"  del  sangue  -   raccolta,   frazionamento,
 conservazione  e  distribuzione  -  sono a carico del Fondo sanitario
 nazionale, ex art. 1, comma quinto).
   In  secondo  luogo,  la  riserva  alla  pubblica   amministrazione,
 attraverso   tutte  le  sue  articolazioni  strutturali,  centrali  e
 periferiche, di tutto il "settore trasfusionale" (ex art. 4 e segg.),
 sia nel suo aspetto tecnico-operativo, sia  in  quello  promozionale,
 sia in quello di coordinamento.
   In terzo luogo, la rigorosa documentazione di tutto l'iter inerente
 la  singola  unita'  di  sangue  o  emocomponente,  dal momento della
 raccolta a quello della destinazione finale - utilizzo o  smaltimento
 -,  attraverso  i  registri  regionali e quello nazionale (ex art. 1,
 comma settimo).
   Emerge, dunque, un complesso normativo estremamente  vario  ma,  al
 contempo,    omogeneo   nella   sua   strumentalita'   all'obbiettivo
 fondamentale di ottimizzare raccolta e  distribuzione  del  sangue  e
 suoi  derivati,  sottratti  all'area  del  mercato  e alla logica del
 profitto,  perseguendo  la  massima  tutela  possibile  della  salute
 pubblica,   attraverso   l'intervento   esclusivo   delle   strutture
 pubbliche, e  l'adozione  di  procedure  dettagliate,  vincolanti  e,
 quindi, trasparenti.
   E'  in  questo  quadro che va valutata la fattispecie penale di cui
 all'art. 17, che punisce, per la parte che qui  interessa,  "Chiunque
 preleva,  procura, raccoglie, consegna o distribuisce sangue umano, o
 produce e mette in commercio derivati del sangue umano in  violazione
 delle norme di legge o per fini di lucro".
   Dal  punto  di  vista  strutturale,  si  tratta di un reato di pura
 condotta, di pericolo presunto, a dolo generico quando  il  fatto  si
 traduce  nel  mancato  rispetto  delle  prescrizioni che disciplinano
 l'iter procedimentale relativo al "bene sangue";  a  dolo  specifico,
 quando,  pur  in  presenza  del  formale  rispetto della normativa in
 materia, l'agente abbia operato "per fini  di  lucro"  (di  per  se',
 peraltro, gia' espressamente vietati dalla legge).
   La  pena  e' congiunta, (reclusione da uno a tre anni e multa da L.
 400.000 a L. 20.000.000).
   Per l'esercente  la  professione  sanitaria  e'  prevista  la  pena
 accessoria  dell'interdizione  dalla  professione  per un periodo non
 inferiore a due anni.
   Indubbiamente  la  fattispecie  in  esame  pone   alcuni   problemi
 interpretativi,  sottolineati  dalle difese e, comunque, apprezzabili
 anche d'ufficio, attinenti alla determinatezza del precetto penale  e
 alla razionalita' del sistema sanzionatorio.
   Per  quanto concerne l'imputazione di cui al capo a) della rubrica,
 non sembra possano porsi problemi di determinatezza della fattispecie
 incriminatrice, tali da fondare il dubbio che  possa  essere  rimesso
 all'interprete  "l'apprezzamento del disvalore di un illecito" (ex C.
 cost.  sentenza  16  maggio  1989,  n.   247),   se   cioe'   la   cd
 "autotrasfusione"  rientri o meno nella sfera di esclusiva competenza
 pubblica.
   La  pratica  della cd "autotrasfusione" (in senso tecnico, prelievo
 di sangue prima  di  un  dato  intervento,  sangue  da  reinfondersi,
 all'occorrenza,   al  paziente  interessato),  non  puo'  che  essere
 considerata   come   un   aspetto   dell'attivita'   di    "raccolta,
 frazionamento,  conservazione  e  distribuzione",  sia  per  evidenti
 ragioni di ordine logico, sia per la chiarezza del dettato  normativo
 in materia.
   Sotto  il  primo  profilo,  anzitutto,  non vi e' alcuna differenza
 (quanto a modalita' operative, esigenze di cautela, rischi, possibili
 speculazioni) col  prodotto  della  donazione  di  terzi  (il  sangue
 prelevato al paziente che necessiti di autodonazione, prima di essere
 reinfuso  al  paziente stesso, deve essere opportunamente conservato,
 puo' necessitare di idoneo "purging" e cosi' via; lo  stesso  sangue,
 ancorche'  sano,  ove  non utilizzato, deve ben essere opportunamente
 "smaltito").
   Sotto il secondo profilo, infine, e' l'art. 1, comma  primo,  della
 legge   che   individua   l'attivita'  di  "raccolta,  frazionamento,
 conservazione e distribuzione",  attivita'  qualificata  come  "parte
 integrante  del Servizio sanitario nazionale" (art. 1, comma secondo)
 e,  in  quanto  tale,  rimessa,  in  via  esclusiva,  alle  strutture
 pubbliche, nelle loro varie articolazioni.
   Per   quanto   concerne,   specificamente,   l'autotrasfusione,  la
 promozione  e  la  pratica  relativa  e'  rimessa   ai   servizi   di
 immunoematologia  e trasfusione e ai centri trasfusionali (ex art. 5,
 comma secondo, lett. e, art. 6, comma secondo), che hanno inoltre  il
 compito,  fondamentale  e  piu'  generale, di promuovere e coordinare
 tutte le iniziative necessarie in merito  (ex  art.  16),  in  quanto
 espressamente  deputate  a garantire, in ultima analisi, "il buon uso
 del sangue" (ex art. 5, comma secondo, lett. f).
   E' duque evidente, sulla  base  della  interpretazione  sistematica
 delle  disposizioni,  chiare  e  sufficientemente  determinate, della
 legge n. 107/1990, la riserva di competenza pubblica  in  materia  di
 autotrasfusione  globalmente intesa, talche' costituisce reato creare
 strutture o compiere attivita' correlative in  ambienti  a  cio'  non
 legittimati.
   Ove  cio' avvenga, opera la sanzione penale, seguita dalla chiusura
 della eventuale  struttura  non  autorizzata  a  cura  dell'autorita'
 sanitaria locale (ex art. 17, comma secondo).
   Tale  scelta del legislatore, della cui ratio, evidente, si e' gia'
 detto in precedenza, e' stata ulteriormente  ribadita  in  successivi
 provvedimenti  normativi,  quali  il  d.P.R.  7 aprile 1994, relativo
 all'approvazione del "piano  per  la  razionalizzazione  del  sistema
 trasfusionale  per il triennio 1994-1996" e il d.m. 1 settembre 1995,
 recante "disciplina dei rapporti tra le strutture pubbliche provviste
 di servizi trasfusionali e quelle pubbliche e private, accreditate  e
 non accreditate, dotate di frigoemoteche".
   La questione proposta, pertanto, appare manifestamente infondata.
   Per quanto concerne l'imputazione di cui al capo b),  e' certamente
 vero  che  la  disciplina analitica del complesso iter attinente alla
 singola unita' di prodotto (dalla raccolta alla destinazione  finale)
 non  e'  contenuta integralmente nell'ambito della legge n. 107/1990,
 ma in una serie successiva di decreti ministeriali, primo  fra  tutti
 il  fondamentale  d.m.  27  dicembre 1990, recante "caratteristiche e
 modalita' per la donazione del sangue ed emoderivati".
   Da  cio'  consegue, necessariamente, il problema del rispetto della
 riserva di legge di cui all'art. 25, comma  secondo  Cost.,  come  in
 tutti  i  casi  di  normazione  in  settori  estremamente specifici e
 suscettibili  di  continuo  aggiornamento,  in  cui  le  disposizioni
 tecniche  e  procedimentali non possono che essere rimesse alla fonte
 di grado inferiore, pena, come sostenuto da autorevole  dottrina,  un
 eccessivo  irrigidimento delle fonti stesse e una rinuncia, di fatto,
 alla piu' adeguata tutela penale.
   Il problema e', dunque, valutare  se  la  legge  n.  107/1990,  nel
 rimettere  ai  successivi decreti importanti aspetti della disciplina
 della materia, abbia  assolto  alle  fondamentali  condizioni  frutto
 della   autorevole  e  ormai  consolidata  elaborazione  della  Corte
 costituzionai'e (a partire dalla sentenza 23 marzo 1966, n. 26).
   Secondo la Corte, il principio della riserva di  legge  in  materia
 penale  si intende rispettato tutte le volte in cui la fonte primaria
 abbia indicato, con sufficiente chiarezza, i presupposti, i caratteri
 ed il contenuto del precetto penale, residuando alla fonte secondaria
 una funzione integrativa di aspetti tecnici.
   Questa condizione risulta certamente  assolta  dalla  normativa  in
 esame,  dal complesso delle disposizioni in cui si articola, valutate
 sistematicamente,  sia  quelle  volte  ad  affermare,   solennemente,
 principi  ispiratori della riforma (es. art. 1, comma quarto, per cui
 il sangue umano e i suoi derivati non sono fonte  di  profitto),  sia
 quelle  di  carattere  piu'  squisitamente  tecnico (es. art. 3 sulla
 donazione, 4 e segg. sulle strutture e relative attribuzioni, ecc.).
   Come si e' detto in  precedenza,  emerge  chiaramente  dal  dettato
 normativo,  la  finalita'  perseguita dal legislatore, cioe' il "buon
 uso del sangue" l'ottimizzazione della raccolta e della distribuzione
 sul territorio dello Stato, in condizioni di massima sicurezza per la
 salute della  collettivita'  e,  quindi,  fuori  da  ogni  logica  di
 mercato,  finalita'  cui  e'  assolutamente strumentale la riserva di
 competenza alle  strutture  pubbliche  tassativamente  indicate,  con
 individuazione  specifica  delle  rispettive  attribuzioni  (art. 4 e
 segg.),  nonche'  la  massima  trasparenza  -  da  attuarsi  mediante
 disposizioni  di  dettaglio,  analitiche  e  vincolanti, su modalita'
 operative  e  relativa  documentazione  -  e,  quindi,   il   massimo
 controllo,  nelle procedure di "gestione del sangue e suoi derivati",
 dalla raccolta della singola unita' di prodotto alla sua destinazione
 finale (art. 1, comma settimo, sui registri, art. 3 sulla  donazione,
 art. 10 sugli emoderivati, art. 12 sulla Commissione nazionale per il
 servizio trasfusionale, art. 15 sull'importazione ed esportazione del
 "prodotto").
   In  questo  quadro,  il  d.m.  27  dicembre  1990 ha la funzione di
 attuare i suddetti principi, attraverso la mera disciplina di aspetti
 strettamente tecnici (locali, modalita'  di  prelievo,  modalita'  di
 conservazione  del prodotto, richieste e modi di distribuzione, ecc.)
 che, certo, il legislatore  non  potrebbe,  in  sede  di  "normazione
 sintetica",  considerare,  come  del  resto  avviene in altri settori
 analoghi (basti solo pensare alla  normativa  in  materia  di  igiene
 alimentare).
   Non  vi  e',  dunque,  alcuna  violazione  della  riserva di legge,
 essendo il  precetto  penale  integralmente  determinato  nell'ambito
 dell'art.     17,  secondo  il  quale  costituisce  reato  prelevare,
 procurare, raccogliere, consegnare  o  distribuire  sangue  umano,  o
 produrre  e metterne in commercio derivati, per finalita' di lucro o,
 se  anche in assenza del fine del profitto, in violazione delle norme
 che disciplinano riserva di competenza, modalita' operative, rigorosa
 documentazione, di tutte le operazioni correlative.
   E si comprende la scelta  del  legislatore:  in  un  settore  cosi'
 delicato  e  fonte  di rischi reali come quello in esame, e' talmente
 imprescindibile  l'esigenza  di  tutela  della  salute,  fondamentale
 diritto  dell'individuo  ma anche interesse della collettivita' (art.
 32  Cost.),  ed  e'  talmente   pericoloso,   oltre   che   immorale,
 strumentalmente alla prima, che un bene primario come il sangue possa
 sottostare  a  logiche  di mercato, da rendersi necessaria una tutela
 diffusa, poiche' ciascun momento del complesso  delle  operazioni  di
 raccolta, conservazione, lavorazione, distribuzione o distruzione del
 sangue e dei suoi derivati, ha eguale valenza ed eguale "dignita'" in
 relazione  alle  finalita'  perseguite,  onde massimo e costante deve
 essere il rispetto delle  modalita'  operative  e  di  certificazione
 tassativamente previste.
   Anche   la   seconda  questione,  pertanto,  appare  manifestamente
 infondata.
   L'ultima  delle  questioni   in   esame   attiene   al   meccanismo
 sanzionatorio  previsto  dalla  legge,  nell'ambito della quale viene
 censurata l'irrazionalita' complessiva della pena, in  quanto  troppo
 elevata  nel  minimo  e,  quindi,  tra  l'altro,  idonea  a  produrre
 situazioni   di   ingiustificata   disparita',   omogeneizzando    il
 trattamento  sanzionatorio di condotte di ben diverso rilievo (art. 3
 Cost.), oltre che lesiva del fondamentale principio rieducativo (art.
 27 Cost.),  nonche'  del  canone  di  buon  andamento  dell'attivita'
 amministrativa  complessivamente  intesa  (art.  97  Cost.), di fatto
 precludendo  all'imputato  l'accesso  a  riti  alternativi,  con   la
 conseguente celebrazione di lunghi e costosi dibattimenti.
   Tale  ultimo  problema  merita  piu'  ampie considerazioni, per gli
 inevitabili riflessi che la astratta tipizzazione della  pena,  nella
 sua   natura  ed  entita',  determina  in  riferimento  alle  "scelte
 politiche  di  fondo"  operate  dal  legislatore,  alla  luce   dello
 "sbarramento" posto dall'art. 28, legge 11 marzo 1953, n. 87.
   Come e' noto, la giurisprudenza costituzionale in materia e' sempre
 stata  improntata  a doverosa cautela, essendo espressione della piu'
 ampia discrezionalita' parlamentare la scelta circa  i  comportamenti
 che,  in  un  determinato  contesto storico-sociale, possono apparire
 meritevoli di  sanzione  penale,  di  un  determinato  tipo,  di  una
 determinata entita'.
   In  questo  quadro, le scelte sanzionatorie operate dal legislatore
 sono  state  oggetto  di  sindacato  solo  in  quanto  manifestamente
 irrazionali,  muovendosi  inizialmente da un parametro logico-formale
 desunto  dall'art.    3,  comma  primo,  Cost.,  che   non   consente
 trattamenti   analoghi   per   casi  differenziati,  ne'  trattamenti
 differenti per casi simili.
   E   tale   cautela   ha   caratterizzato   anche   le    evoluzioni
 giurisprudenziali    successive,    quando    il    controllo   sulla
 discrezionalita' del legislatore ha mostrato aspetti  piu'  incisivi,
 piu' "sostanziali", col riferimento alla "necessaria proporzione" tra
 fatto  e pena (cfr., tra le altre, sentente nn. 103/1982 e 409/1989),
 alla necessaria valutazione  bilanciata  degli  interessi  in  gioco,
 secondo  la  "gerarchia dei valori" espressi dalla Costituzione (cfr.
 ad es., la sentenza n. 299/1992), al "fine  rieducativo"  della  pena
 (cfr.,  ad  es.,  sentenze nn. 313/1990 e 343/1993), fino ad arrivare
 alle significative e piu' recenti decisioni, in materia di  ergastolo
 per il minore imputabile e di minimo edittale previsto per il delitto
 di  oltraggio (sentenze nn. 168 e 341 del 1994), caratterizzate dalla
 espressione piu' significativa dei suddetti principi.
   Cautela  analoga,  pertanto,  deve  mostrare   l'interprete   nella
 valutazione    delle    questioni   prospettate,   rifuggendo   dalle
 "suggestioni" proposte  da  tesi  sostenute  anche  col  conforto  di
 autorevole dottrina.
   In   questo   quadro,  deve  essere  subito  disattesa  l'eccezione
 formulata in relazione all'art. 97 Cost.
   A prescindere dall'ovvia considerazione che, per l'interessato  che
 lo  reputi  opportuno,  esiste  piu'  di  una ragione sostanziale per
 accedere ai riti alternativi, evitando lunghi e costosi dibattimenti,
 deve, altresi', osservarsi come tale  profilo  di  costituzionalita',
 nei   termini   prospettati  dalla  difesa,  non  risulti  facilmente
 "spendibile".
   Certamente, portato alle sue estreme conseguenze, nei termini della
 prospettazione,  condurrebbe,   di   fatto,   allo   svuotamento   di
 significato  della  tutela  penale, poiche', rispetto ad un canone di
 tipo economicistico, non solo la maggior parte delle fattispecie,  ma
 lo stesso esercizio dell'azione penale, in se' e per se' considerato,
 finirebbe per risultare incoerente.
   Vero  e'  che  detto  parametro  e' stato utilizzato (ma insieme ad
 altri) nell'ambito della  ordinanza  di  rimessione  della  questione
 relativa al minimo edittale previsto dall'art. 341 c.p. e vero e' che
 la  Corte  costituzionale non lo ha formalmente disatteso (in realta'
 considerandolo assorbito in altri profili meritevoli di accoglimento,
 cfr. sentenza n. 341/1994).
   Ma la stessa Corte, in  una  pronuncia  di  poco  precedente,  ebbe
 espressamente  a  negare  l'applicazione  del canone ex art. 97 della
 Costituzione  all'esercizio  della  funzione   giurisdizionale,   pur
 affermandone   l'operativita'   anche   in   relazione   al   settore
 "giustizia", nel suo complesso,  ma  solo  con  riguardo  al  momento
 organizzativo dei relativi uffici (cfr.  sentenza n. 376/1993).
   Maggiori  problemi  pone l'ulteriore profilo di esame, cioe' quello
 della  "razionalita'  intrinseca"   del   meccanismo   sanzionatorio,
 caratterizzato   da  un  minimo  edittale  elevato  (mesi  dodici  di
 reclusione e L. 400.000 di multa) e da una pena accessoria  di  tutto
 rilievo  (interdizione dall'esercizio della professione sanitaria per
 periodo non inferiore a due anni.
   In linea teorica, prescindendo cioe' dalla materiale  articolazione
 della   fattispecie  incriminatrice,  la  pena,  in  se'  e  per  se'
 considerata, non puo' essere ritenuta  conforme  o  non  conforme  al
 dettato Costituzionale, per il fatto della sua particolare asprezza.
   Si  tratta  certamente  di  un  meccanismo sanzionatorio di estremo
 rigore, ma che puo' essere giustificabile in relazione ai "valori" in
 gioco.
   Del resto,  nel  nostro  ordinamento,  non  e'  certo  una  novita'
 l'utilizzo   di   sanzioni   con   minimo  edittale  significativo  e
 significativa pena accessoria in  settori  delicati  come  quello  in
 esame, basti pensare a fattispecie analoghe, quanto ad omogeneita' di
 valori (tutela della salute pubblica) e ad analogia di strutturazione
 formale (reati di pericolo), certamente caratterizzati da "minimi" di
 tutto  rilievo  (dai sei mesi di reclusione e L. 200.000 di multa per
 il commercio e la somministrazione di medicinali guasti,  ex art. 443
 c.p., ai tre anni di reclusione per la adulterazione e contraffazione
 di sostanze medicinali, ex art. 440, comma terzo, c.p.).
   Ma il caso in esame  presenta  una  particolarita',  non  da  poco,
 rispetto  alle  fattispecie  del  codice  penale  indicate: mentre in
 queste, infatti, la condotta e' omogenea e  si  caratterizza  per  la
 immediata  e  diretta  messa in pericolo del bene primario oggetto di
 tutela, nell'ambito della fattispecie di cui all'art.  17,  legge  n.
 107/1990  sono astrattamente riconducibili le piu' svariate condotte,
 il cui disvalore puo' anche essere manifestamente disomogeneo.
   In astratto, questa volta prescindendo dal  sistema  sanzionatorio,
 una   fattispecie   di   tal   genere  non  e'  certo,  di  per  se',
 incostituzionale, per il solo fatto della sua strutturazione formale.
   Evidentemente,  rispetto  alla  finalita'  di  tutela  di  un  bene
 primario,  e' stata fatta una scelta ben precisa dal legislatore, col
 sistema della "normazione sintetica" e  il  conseguente  rinvio,  per
 l'integrazione   sotto   il   profilo   puramente  tecnico,  a  fonti
 secondarie, tradottasi nell'utilizzo di una fattispecie molto  ampia,
 strutturata  come  reato di pura condotta e di pericolo presunto, con
 titolo di imputazione soggettiva limitato al dolo.
   Non e' stata, infatti, prevista alcuna  ipotesi  colposa,  pur  non
 sussistendo  alcuna ragione logica per escluderla (basti pensare alla
 fattispecie affine di cui all'art. 443  c.p.,  punita,  ex  art.  452
 c.p.,  anche  a  titolo di colpa), in un settore, tra l'altro, in cui
 competenza  professionale  e  rispetto  di  doverose   cautele   sono
 assolutamente determinanti.
   Il   rilievo   dei   valori  meritevoli  di  tutela,  dunque,  puo'
 giustificare   e,   in   effetti,   giustifica   un   meccanismo   di
 incriminazione  "a  cascata",  in  cui  non vengono censurate solo le
 condotte astrattamente dirette a porre in pericolo immediato il  bene
 oggetto  di  protezione,  ma  anche  tutti  quei comportamenti che si
 traducano nella mera violazione delle prescrizioni  imposte  (che  si
 riferiscono,  nel  caso di specie, a riserva di competenza, modalita'
 operative, rigorosa documentazione dell'iter attinente  a  sangue  ed
 emocomponenti).
   Il  problema  e',  dunque,  quello  di  valutare il riflesso che il
 sistema sanzionatorio previsto dalla legge viene ad avere su  simile,
 particolare  meccanismo  di incriminazione.   L'esame dell'articolata
 fattispecie di cui all'art. 17,  legge  n.    107/1990  evidenzia  il
 possibile   rilievo  di  una  ampia  gamma  di  condotte,  penalmente
 illecite, di portata estremamente differenziata.
   In una scala ideale di pregiudizio ai valori tutelati,  al  vertice
 sta certamente il fatto di chi, violando la legge, ed agendo per fine
 di profitto, pone in essere condotte immediatamente pericolose per la
 salute  della  collettivita'  (il  caso  tipico del cd "commercio del
 sangue").   Alla base, il  fatto  di  chi,  senza  agire  a  fini  di
 profitto,  viola  la  legge ponendo in essere comportamenti in cui il
 connotato di rischio e' minimo o, di fatto, inesistente.
   In questa secondo ambito si inquadra una parte del fatto contestato
 al capo b) della rubrica.
   Ovviamente  impregiudicato  il  merito  del  procedimento,  e'   in
 contestazione,   ad  uno  degli  imputati,  tra  i  vari  episodi  in
 continuazione,  il  fatto  di  non  avere  restituito   al   servizio
 trasfusionale  talune  unita' di sangue provenienti da autodonazione,
 provvedendo autonomamente al loro smaltimento.
   Non  viene contestato, dunque, il fine del profitto, ne' l'utilizzo
 "pericoloso"  delle  unita'  raccolte  (eventualmente  conservate  in
 reparto  col  rischio  di  successiva  reinfusione  a terzi, o peggio
 direttamente reinfuse a terzi, o, ancora,  cedute  all'esterno  della
 struttura),  ma  il diretto e autonomo smaltimento (quindi, comunque,
 la distruzione) di emazie frutto di autodonazione, non utilizzate  e,
 quindi, pur sempre destinate alla eliminazione, sia pure attraverso i
 canali istituzionali.
   La  portata  di  tale  violazione  e' ben diversa rispetto ad altre
 condotte illecite astrattamente  ipotizzabili  (dalla  omissione  dei
 test   di   compatibilita'  alla  non  corretta  conservazione  degli
 emocomponenti, fino ad arrivare al  "commercio  del  sangue"  vero  e
 proprio).    In  questo  quadro, il meccanismo sanzionatorio previsto
 dalla legge non consente alcuna graduazione di pena, ne'  principale,
 ne'  accessoria,  essendo  il minimo rigidamente predeterminato (mesi
 dodici  di  reclusione  e   L.   400.000   di   multa,   interdizione
 dall'esercizio  della professione sanitaria per periodo non inferiore
 a due anni.   Vi e', dunque, una  evidente  parificazione,  sotto  il
 profilo   della   sanzione  globalmente  considerata,  di  situazioni
 diverse, addirittura, considerando  la  vasta  gamma  delle  condotte
 astrattamente  possibili,  di  situazioni estremamente differenziate,
 sia sul piano dell'elemento psicologico, sia sul piano oggettivo, non
 giustificabile col richiamo al valore ultimo oggetto  di  tutela  (in
 taluni casi, neppure messo in pericolo).
   Da   tutto   cio'   discende,   necessariamente,  il  dubbio  sulla
 razionalita' del sistema sanzionatorio, in rapporto all'art. 3, comma
 primo, Cost.  Detto sistema, caratterizzato da  predeterminazione  di
 minimi  rigidi  ed  elevati,  sia  a  livello  di pena principale che
 accessoria,  a  fronte  di  fatti  di  portata  marginale,  pone  poi
 ulteriori  dubbi di coerenza della norma in esame con l'art. 3, comma
 primo, Cost., sotto il diverso profilo del  rispetto  del  canone  di
 proporzionalita'.
   Non vi e', infatti, dubbio che la pena, secondo Costituzione, debba
 essere  proporzionata al disvalore dell'illecito.  La portata pratica
 di detto principio consente di sindacare  e,  quindi,  di  censurare,
 tutte  quelle  "incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a
 raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono,  attraverso
 la  pena,  danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla
 societa', sproporzionatamente maggiori dei vantaggi  ottenuti  (o  da
 ottenere)  da  quest'ultima  con  la  tutela dei beni e valori offesi
 dalle predette incriminazioni" (cosi' ex sentenza n. 409/1989).
   In presenza di fatti di minimo  rilievo  offensivo,  non  puo'  non
 porsi  il  dubbio  che  il  sacrificio  di diritti fondamentali della
 persona (quali la liberta' personale, ex art. 13 Cost., il diritto al
 lavoro, ex art. 4 Cost.), nei termini previsti dall'art. 17, legge n.
 107/1990, sia palesemente e irragionevolmente sproporzionato rispetto
 alle finalita' di tutela perseguite.
   Tale considerazione non puo', poi, non riflettersi su altro profilo
 di costituzionalita' ravvisabile nella normativa in esame,  cioe'  il
 rispetto  della  funzione  rieducativa  della pena, ex art. 27, comma
 terzo, Cost., canone non limitato esclusivamente alla fase esecutiva,
 ma direttamente  operante  gia'  a  livello  di  astratta  previsione
 normativa  del meccanismo sanzionatorio globalmente inteso (cfr., tra
 le altre, sentenza n. 341/1994.    In  presenza  di  fatti  di  minor
 entita',   (spesso   anche  mere  violazioni  formali,  astrattamente
 ipotizzabili ex art. 17, comma primo, legge n. 107/1990 e  art.  1  e
 seguenti d.m. 27 dicembre 1990, non assistite dal fine del profitto e
 prive  di  diretta  incidenza  sul  bene  della salute), e' difficile
 ricollegare una funzione rieducativa alla reclusione per mesi  dodici
 e  alla  interdizione professionale per due anni.  Sulla base di tali
 considerazioni,  deve  ritenersi  rilevante  e   non   manifestamente
 infondata  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 17,
 legge n. 107/1990, nella sua parte sanzionatoria, in  relazione  agli
 artt.  3,  comma  primo,  e  27,  comma terzo, Cost., con conseguente
 sospensione del procedimento e trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale.