IL PRETORE Con DCG emesso il 20 febbraio 1997, il p.m. presso la pretura circondariale di Genova disponeva la citazione a giudizio degli odierni imputati, per rispondere dei reati di cui agli artt. 81 c.p.v. 110 c.p., 17 legge n. 107/1990 e 81 c.p.v. c.p., 17 legge n. 107/1990, in relazione agli artt. 91 decreto del Presidente della Repubblica n. 1256/1971 e 31, 34 d.m. 27 gennaio 1990. Nella fase degli atti preliminari, le difese degli interessati proponevano varie questioni, attinenti sia al DCG (in relazione alla formulazione della imputazione), sia alla normativa in applicazione (in relazione a vari profili di coerenza col dettato costituzionale). Il p.m. chiedeva la reiezione di tutte le eccezioni. Il pretore decideva in merito alle questioni proposte con la presente ordinanza. A) In ordine logico, la prima questione oggetto di esame attiene alla determinatezza della imputazione, in relazione all'art. 429, comma 1, lett. c), c.p.p. Il problema e' quello di valutare se la eventuale ampiezza o genericita' della descrizione dei fatti oggetto di contestazione sia tale da pregiudicare le ragioni della difesa, in concreto impedendo, o comunque rendendo difficoltoso, all'imputato, l'esercizio del relativo diritto, in tutte le sue manifestazioni (dalla scelta di riti alternativi, a forma e modalita' delle prove nel merito dell'accusa). Dalla lettura del DGC, si rileva la precisa indicazione del luogo del fatto, del periodo di tempo - limitato - in cui si sono manifestate le condotte in contestazione, della struttura privata in cui sono state poste in essere, delle qualita' soggettive degli interessati, del tipo di attivita' che si assume compiuta in violazione della legge. In questi termini, l'imputazione risulta estremamente specifica. Problemi di indeterminatezza possono residuare in relazione alle modalita' di estrinsecazione della condotta (non si precisa a chi sarebbe stato effettuato un dato prelievo, di quale paziente non sarebbe stata restituita la unita' di sangue raccolta ecc.). Sotto questo profilo, peraltro, elementi utili possono essere ricavati dal p.v. di sequestro agli atti, idoneo a consentire la necessaria integrazione dei dati specifici mancanti. Infatti, se la pienezza del contraddittorio e, quindi, l'effettivo esercizio del diritto di difesa, non possono prescindere dalla puntuale contestazione dell'addebito, e' altrettanto vero che questo non va riguardato esclusivamente quale si manifesta nella formulazione della imputazione, potendo ben avere rilievo integrativo tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, consentono all'interessato la precisa conoscenza della sua situazione complessiva (cfr., tra le altre, C. Cass. Sez. III, sentenza 17 aprile 1991, n. 04342). Per tali ragioni, va rigettata l'eccezione proposta. B) La seconda questione proposta attiene alla legittimita' costituzionale dell'art. 17, legge n. 107/1990 - norma di riferimento della contestazione - valutata sotto i tre diversi profili della determinatezza della fattispecie (art. 25, comma secondo, Cost.), del rispetto della riserva di legge (art. 25, comma secondo, Cost.), della razionalita' complessiva del sistema sanzionatorio (art. 3, comma primo, art. 27, comma terzo, art. 97, Cost.). Formalmente la questione e' stata proposta, anche con memoria scritta, dal difensore di due imputati, interessati solo ad una parte della contestazione (capo a), in relazione agli artt. 3, 27, comma terzo, 97 Cost. Peraltro, i difensori degli altri imputati, interessati a tutta la contestazione (capi a e b), si sono formalmente associati, facendo proprie le eccezioni presentate ed individuando, sia pure sinteticamente e solo oralmente, come ulteriore parametro di riferimento, l'art. 25, comma secondo, Cost. La rilevanza delle questioni in esame, dunque, non puo' che essere valutata avuto riguardo alla portata delle contestazioni, formalizzate nel capo di imputazione e sintetizzabili nei seguenti termini: capo a), svolgimento di attivita' autotrasfusionale presso struttura privata non legittimata; capo b), violazione delle norme che disciplinano l'iter delle singole unita' di sangue prelevate, dalla raccolta alla destinazione finale. Si tratta di condotte espressamente disciplinate dal'art. 17, comma primo, legge n. 107/1990 (anche in riferimento al d.m. 27 dicembre 1990) e dalla stessa norma compiutamente sanzionate, onde nessun dubbio puo' porsi circa la rilevanza delle questioni prospettate, non potendo il presente giudizio essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle stesse. L'esame del merito delle questioni presuppone alcune considerazioni preliminari circa la realta' di fondo sottesa alla normativa in esame. L'utilizzo del sangue e degli emoderivati nella pratica terapeutica ha acquisito, negli ultimi decenni, una valenza di tutto rilievo, assolutamente imprescindibile. A fianco dell'impiego "di prima urgenza", infatti, sempre crescente a fronte del moltiplicarsi di eventi traumatici (basti solo pensare all'aumento costante di incidenti stradali e infortuni sul lavoro), si e' andato affermando, grazie ai progressi della medicina, un utilizzo accessorio e mirato nei vari settori della pratica operatoria (dall'autodonazione anche in presenza di interventi ordinari, all'auto/eterodonazione nel campo del trapianto di organi, fino ad arrivare al settore della cura delle malattie ematiche, leucemia e linfomi in primo luogo, caratterizzato da forme di impiego sempre piu' significative e sofisticate degli emocomponenti - dalle piastrine irradiate per la prevenzione della GVHD, fino all'utilizzo delle cellule staminali in luogo del trapianto, sia autologo che allogenico, del midollo -). A fronte di cio', si e' dovuto affrontare il problema (peraltro, comune a molti altri paesi) della insufficiente raccolta di sangue (mediamente mancano 600.000 unita' rispetto al fabbisogno teorico per anno), nonche' della assoluta incongrua distribuzione dello stesso sul territorio dello Stato (con particolare penalizzazione delle regioni meridionali). Tutto cio' ha determinato una inevitabile dipendenza dall'estero (per i plasmaderivati, oltre il 70% del fabbisogno nazionale), con oneri notevoli a carico del servizio sanitario pubblico, ed ha favorito le piu' varie attivita' speculative, con evidenti e spesso tragici riflessi sulla salute della collettivita'. In questo quadro, dopo anni di "dibattito politico", sulla base della delega operata dalla legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, e in recepimento della direttiva comunitaria 381/1989, e' stata finalmente emanata la legge 4 maggio 1990, n. 107, recante "Disciplina per le attivita' trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati", che ha espressamente abrogato la normativa previgente. Obbiettivi fondamentali della legge n. 107/1990 sono: idoneita' ed autosufficienza nella raccolta del sangue, congrua distribuzione sul territorio nazionale del relativo prodotto, massima tutela della salute pubblica. I principi che presiedono al perseguimento dei suddetti obbiettivi ruotano attorno a tre particolari direttrici: anzitutto, il superamento del cd "mercato del sangue", attraverso la fondamentale affermazione per cui "il sangue umano ed i suoi derivati non sono fonte di profitto" - art. 1, comma quarto, I p - ed i successivi corollari (la raccolta e' fondata sulla donazione volontaria, periodica e gratuita - ex art. 1, comma secondo; la stessa distribuzione al ricevente e' gratuita ed esclude addebiti accessori e oneri fiscali - ex art. 1, comma quarto; tutti i costi relativi al processo di "gestione" del sangue - raccolta, frazionamento, conservazione e distribuzione - sono a carico del Fondo sanitario nazionale, ex art. 1, comma quinto). In secondo luogo, la riserva alla pubblica amministrazione, attraverso tutte le sue articolazioni strutturali, centrali e periferiche, di tutto il "settore trasfusionale" (ex art. 4 e segg.), sia nel suo aspetto tecnico-operativo, sia in quello promozionale, sia in quello di coordinamento. In terzo luogo, la rigorosa documentazione di tutto l'iter inerente la singola unita' di sangue o emocomponente, dal momento della raccolta a quello della destinazione finale - utilizzo o smaltimento -, attraverso i registri regionali e quello nazionale (ex art. 1, comma settimo). Emerge, dunque, un complesso normativo estremamente vario ma, al contempo, omogeneo nella sua strumentalita' all'obbiettivo fondamentale di ottimizzare raccolta e distribuzione del sangue e suoi derivati, sottratti all'area del mercato e alla logica del profitto, perseguendo la massima tutela possibile della salute pubblica, attraverso l'intervento esclusivo delle strutture pubbliche, e l'adozione di procedure dettagliate, vincolanti e, quindi, trasparenti. E' in questo quadro che va valutata la fattispecie penale di cui all'art. 17, che punisce, per la parte che qui interessa, "Chiunque preleva, procura, raccoglie, consegna o distribuisce sangue umano, o produce e mette in commercio derivati del sangue umano in violazione delle norme di legge o per fini di lucro". Dal punto di vista strutturale, si tratta di un reato di pura condotta, di pericolo presunto, a dolo generico quando il fatto si traduce nel mancato rispetto delle prescrizioni che disciplinano l'iter procedimentale relativo al "bene sangue"; a dolo specifico, quando, pur in presenza del formale rispetto della normativa in materia, l'agente abbia operato "per fini di lucro" (di per se', peraltro, gia' espressamente vietati dalla legge). La pena e' congiunta, (reclusione da uno a tre anni e multa da L. 400.000 a L. 20.000.000). Per l'esercente la professione sanitaria e' prevista la pena accessoria dell'interdizione dalla professione per un periodo non inferiore a due anni. Indubbiamente la fattispecie in esame pone alcuni problemi interpretativi, sottolineati dalle difese e, comunque, apprezzabili anche d'ufficio, attinenti alla determinatezza del precetto penale e alla razionalita' del sistema sanzionatorio. Per quanto concerne l'imputazione di cui al capo a) della rubrica, non sembra possano porsi problemi di determinatezza della fattispecie incriminatrice, tali da fondare il dubbio che possa essere rimesso all'interprete "l'apprezzamento del disvalore di un illecito" (ex C. cost. sentenza 16 maggio 1989, n. 247), se cioe' la cd "autotrasfusione" rientri o meno nella sfera di esclusiva competenza pubblica. La pratica della cd "autotrasfusione" (in senso tecnico, prelievo di sangue prima di un dato intervento, sangue da reinfondersi, all'occorrenza, al paziente interessato), non puo' che essere considerata come un aspetto dell'attivita' di "raccolta, frazionamento, conservazione e distribuzione", sia per evidenti ragioni di ordine logico, sia per la chiarezza del dettato normativo in materia. Sotto il primo profilo, anzitutto, non vi e' alcuna differenza (quanto a modalita' operative, esigenze di cautela, rischi, possibili speculazioni) col prodotto della donazione di terzi (il sangue prelevato al paziente che necessiti di autodonazione, prima di essere reinfuso al paziente stesso, deve essere opportunamente conservato, puo' necessitare di idoneo "purging" e cosi' via; lo stesso sangue, ancorche' sano, ove non utilizzato, deve ben essere opportunamente "smaltito"). Sotto il secondo profilo, infine, e' l'art. 1, comma primo, della legge che individua l'attivita' di "raccolta, frazionamento, conservazione e distribuzione", attivita' qualificata come "parte integrante del Servizio sanitario nazionale" (art. 1, comma secondo) e, in quanto tale, rimessa, in via esclusiva, alle strutture pubbliche, nelle loro varie articolazioni. Per quanto concerne, specificamente, l'autotrasfusione, la promozione e la pratica relativa e' rimessa ai servizi di immunoematologia e trasfusione e ai centri trasfusionali (ex art. 5, comma secondo, lett. e, art. 6, comma secondo), che hanno inoltre il compito, fondamentale e piu' generale, di promuovere e coordinare tutte le iniziative necessarie in merito (ex art. 16), in quanto espressamente deputate a garantire, in ultima analisi, "il buon uso del sangue" (ex art. 5, comma secondo, lett. f). E' duque evidente, sulla base della interpretazione sistematica delle disposizioni, chiare e sufficientemente determinate, della legge n. 107/1990, la riserva di competenza pubblica in materia di autotrasfusione globalmente intesa, talche' costituisce reato creare strutture o compiere attivita' correlative in ambienti a cio' non legittimati. Ove cio' avvenga, opera la sanzione penale, seguita dalla chiusura della eventuale struttura non autorizzata a cura dell'autorita' sanitaria locale (ex art. 17, comma secondo). Tale scelta del legislatore, della cui ratio, evidente, si e' gia' detto in precedenza, e' stata ulteriormente ribadita in successivi provvedimenti normativi, quali il d.P.R. 7 aprile 1994, relativo all'approvazione del "piano per la razionalizzazione del sistema trasfusionale per il triennio 1994-1996" e il d.m. 1 settembre 1995, recante "disciplina dei rapporti tra le strutture pubbliche provviste di servizi trasfusionali e quelle pubbliche e private, accreditate e non accreditate, dotate di frigoemoteche". La questione proposta, pertanto, appare manifestamente infondata. Per quanto concerne l'imputazione di cui al capo b), e' certamente vero che la disciplina analitica del complesso iter attinente alla singola unita' di prodotto (dalla raccolta alla destinazione finale) non e' contenuta integralmente nell'ambito della legge n. 107/1990, ma in una serie successiva di decreti ministeriali, primo fra tutti il fondamentale d.m. 27 dicembre 1990, recante "caratteristiche e modalita' per la donazione del sangue ed emoderivati". Da cio' consegue, necessariamente, il problema del rispetto della riserva di legge di cui all'art. 25, comma secondo Cost., come in tutti i casi di normazione in settori estremamente specifici e suscettibili di continuo aggiornamento, in cui le disposizioni tecniche e procedimentali non possono che essere rimesse alla fonte di grado inferiore, pena, come sostenuto da autorevole dottrina, un eccessivo irrigidimento delle fonti stesse e una rinuncia, di fatto, alla piu' adeguata tutela penale. Il problema e', dunque, valutare se la legge n. 107/1990, nel rimettere ai successivi decreti importanti aspetti della disciplina della materia, abbia assolto alle fondamentali condizioni frutto della autorevole e ormai consolidata elaborazione della Corte costituzionai'e (a partire dalla sentenza 23 marzo 1966, n. 26). Secondo la Corte, il principio della riserva di legge in materia penale si intende rispettato tutte le volte in cui la fonte primaria abbia indicato, con sufficiente chiarezza, i presupposti, i caratteri ed il contenuto del precetto penale, residuando alla fonte secondaria una funzione integrativa di aspetti tecnici. Questa condizione risulta certamente assolta dalla normativa in esame, dal complesso delle disposizioni in cui si articola, valutate sistematicamente, sia quelle volte ad affermare, solennemente, principi ispiratori della riforma (es. art. 1, comma quarto, per cui il sangue umano e i suoi derivati non sono fonte di profitto), sia quelle di carattere piu' squisitamente tecnico (es. art. 3 sulla donazione, 4 e segg. sulle strutture e relative attribuzioni, ecc.). Come si e' detto in precedenza, emerge chiaramente dal dettato normativo, la finalita' perseguita dal legislatore, cioe' il "buon uso del sangue" l'ottimizzazione della raccolta e della distribuzione sul territorio dello Stato, in condizioni di massima sicurezza per la salute della collettivita' e, quindi, fuori da ogni logica di mercato, finalita' cui e' assolutamente strumentale la riserva di competenza alle strutture pubbliche tassativamente indicate, con individuazione specifica delle rispettive attribuzioni (art. 4 e segg.), nonche' la massima trasparenza - da attuarsi mediante disposizioni di dettaglio, analitiche e vincolanti, su modalita' operative e relativa documentazione - e, quindi, il massimo controllo, nelle procedure di "gestione del sangue e suoi derivati", dalla raccolta della singola unita' di prodotto alla sua destinazione finale (art. 1, comma settimo, sui registri, art. 3 sulla donazione, art. 10 sugli emoderivati, art. 12 sulla Commissione nazionale per il servizio trasfusionale, art. 15 sull'importazione ed esportazione del "prodotto"). In questo quadro, il d.m. 27 dicembre 1990 ha la funzione di attuare i suddetti principi, attraverso la mera disciplina di aspetti strettamente tecnici (locali, modalita' di prelievo, modalita' di conservazione del prodotto, richieste e modi di distribuzione, ecc.) che, certo, il legislatore non potrebbe, in sede di "normazione sintetica", considerare, come del resto avviene in altri settori analoghi (basti solo pensare alla normativa in materia di igiene alimentare). Non vi e', dunque, alcuna violazione della riserva di legge, essendo il precetto penale integralmente determinato nell'ambito dell'art. 17, secondo il quale costituisce reato prelevare, procurare, raccogliere, consegnare o distribuire sangue umano, o produrre e metterne in commercio derivati, per finalita' di lucro o, se anche in assenza del fine del profitto, in violazione delle norme che disciplinano riserva di competenza, modalita' operative, rigorosa documentazione, di tutte le operazioni correlative. E si comprende la scelta del legislatore: in un settore cosi' delicato e fonte di rischi reali come quello in esame, e' talmente imprescindibile l'esigenza di tutela della salute, fondamentale diritto dell'individuo ma anche interesse della collettivita' (art. 32 Cost.), ed e' talmente pericoloso, oltre che immorale, strumentalmente alla prima, che un bene primario come il sangue possa sottostare a logiche di mercato, da rendersi necessaria una tutela diffusa, poiche' ciascun momento del complesso delle operazioni di raccolta, conservazione, lavorazione, distribuzione o distruzione del sangue e dei suoi derivati, ha eguale valenza ed eguale "dignita'" in relazione alle finalita' perseguite, onde massimo e costante deve essere il rispetto delle modalita' operative e di certificazione tassativamente previste. Anche la seconda questione, pertanto, appare manifestamente infondata. L'ultima delle questioni in esame attiene al meccanismo sanzionatorio previsto dalla legge, nell'ambito della quale viene censurata l'irrazionalita' complessiva della pena, in quanto troppo elevata nel minimo e, quindi, tra l'altro, idonea a produrre situazioni di ingiustificata disparita', omogeneizzando il trattamento sanzionatorio di condotte di ben diverso rilievo (art. 3 Cost.), oltre che lesiva del fondamentale principio rieducativo (art. 27 Cost.), nonche' del canone di buon andamento dell'attivita' amministrativa complessivamente intesa (art. 97 Cost.), di fatto precludendo all'imputato l'accesso a riti alternativi, con la conseguente celebrazione di lunghi e costosi dibattimenti. Tale ultimo problema merita piu' ampie considerazioni, per gli inevitabili riflessi che la astratta tipizzazione della pena, nella sua natura ed entita', determina in riferimento alle "scelte politiche di fondo" operate dal legislatore, alla luce dello "sbarramento" posto dall'art. 28, legge 11 marzo 1953, n. 87. Come e' noto, la giurisprudenza costituzionale in materia e' sempre stata improntata a doverosa cautela, essendo espressione della piu' ampia discrezionalita' parlamentare la scelta circa i comportamenti che, in un determinato contesto storico-sociale, possono apparire meritevoli di sanzione penale, di un determinato tipo, di una determinata entita'. In questo quadro, le scelte sanzionatorie operate dal legislatore sono state oggetto di sindacato solo in quanto manifestamente irrazionali, muovendosi inizialmente da un parametro logico-formale desunto dall'art. 3, comma primo, Cost., che non consente trattamenti analoghi per casi differenziati, ne' trattamenti differenti per casi simili. E tale cautela ha caratterizzato anche le evoluzioni giurisprudenziali successive, quando il controllo sulla discrezionalita' del legislatore ha mostrato aspetti piu' incisivi, piu' "sostanziali", col riferimento alla "necessaria proporzione" tra fatto e pena (cfr., tra le altre, sentente nn. 103/1982 e 409/1989), alla necessaria valutazione bilanciata degli interessi in gioco, secondo la "gerarchia dei valori" espressi dalla Costituzione (cfr. ad es., la sentenza n. 299/1992), al "fine rieducativo" della pena (cfr., ad es., sentenze nn. 313/1990 e 343/1993), fino ad arrivare alle significative e piu' recenti decisioni, in materia di ergastolo per il minore imputabile e di minimo edittale previsto per il delitto di oltraggio (sentenze nn. 168 e 341 del 1994), caratterizzate dalla espressione piu' significativa dei suddetti principi. Cautela analoga, pertanto, deve mostrare l'interprete nella valutazione delle questioni prospettate, rifuggendo dalle "suggestioni" proposte da tesi sostenute anche col conforto di autorevole dottrina. In questo quadro, deve essere subito disattesa l'eccezione formulata in relazione all'art. 97 Cost. A prescindere dall'ovvia considerazione che, per l'interessato che lo reputi opportuno, esiste piu' di una ragione sostanziale per accedere ai riti alternativi, evitando lunghi e costosi dibattimenti, deve, altresi', osservarsi come tale profilo di costituzionalita', nei termini prospettati dalla difesa, non risulti facilmente "spendibile". Certamente, portato alle sue estreme conseguenze, nei termini della prospettazione, condurrebbe, di fatto, allo svuotamento di significato della tutela penale, poiche', rispetto ad un canone di tipo economicistico, non solo la maggior parte delle fattispecie, ma lo stesso esercizio dell'azione penale, in se' e per se' considerato, finirebbe per risultare incoerente. Vero e' che detto parametro e' stato utilizzato (ma insieme ad altri) nell'ambito della ordinanza di rimessione della questione relativa al minimo edittale previsto dall'art. 341 c.p. e vero e' che la Corte costituzionale non lo ha formalmente disatteso (in realta' considerandolo assorbito in altri profili meritevoli di accoglimento, cfr. sentenza n. 341/1994). Ma la stessa Corte, in una pronuncia di poco precedente, ebbe espressamente a negare l'applicazione del canone ex art. 97 della Costituzione all'esercizio della funzione giurisdizionale, pur affermandone l'operativita' anche in relazione al settore "giustizia", nel suo complesso, ma solo con riguardo al momento organizzativo dei relativi uffici (cfr. sentenza n. 376/1993). Maggiori problemi pone l'ulteriore profilo di esame, cioe' quello della "razionalita' intrinseca" del meccanismo sanzionatorio, caratterizzato da un minimo edittale elevato (mesi dodici di reclusione e L. 400.000 di multa) e da una pena accessoria di tutto rilievo (interdizione dall'esercizio della professione sanitaria per periodo non inferiore a due anni. In linea teorica, prescindendo cioe' dalla materiale articolazione della fattispecie incriminatrice, la pena, in se' e per se' considerata, non puo' essere ritenuta conforme o non conforme al dettato Costituzionale, per il fatto della sua particolare asprezza. Si tratta certamente di un meccanismo sanzionatorio di estremo rigore, ma che puo' essere giustificabile in relazione ai "valori" in gioco. Del resto, nel nostro ordinamento, non e' certo una novita' l'utilizzo di sanzioni con minimo edittale significativo e significativa pena accessoria in settori delicati come quello in esame, basti pensare a fattispecie analoghe, quanto ad omogeneita' di valori (tutela della salute pubblica) e ad analogia di strutturazione formale (reati di pericolo), certamente caratterizzati da "minimi" di tutto rilievo (dai sei mesi di reclusione e L. 200.000 di multa per il commercio e la somministrazione di medicinali guasti, ex art. 443 c.p., ai tre anni di reclusione per la adulterazione e contraffazione di sostanze medicinali, ex art. 440, comma terzo, c.p.). Ma il caso in esame presenta una particolarita', non da poco, rispetto alle fattispecie del codice penale indicate: mentre in queste, infatti, la condotta e' omogenea e si caratterizza per la immediata e diretta messa in pericolo del bene primario oggetto di tutela, nell'ambito della fattispecie di cui all'art. 17, legge n. 107/1990 sono astrattamente riconducibili le piu' svariate condotte, il cui disvalore puo' anche essere manifestamente disomogeneo. In astratto, questa volta prescindendo dal sistema sanzionatorio, una fattispecie di tal genere non e' certo, di per se', incostituzionale, per il solo fatto della sua strutturazione formale. Evidentemente, rispetto alla finalita' di tutela di un bene primario, e' stata fatta una scelta ben precisa dal legislatore, col sistema della "normazione sintetica" e il conseguente rinvio, per l'integrazione sotto il profilo puramente tecnico, a fonti secondarie, tradottasi nell'utilizzo di una fattispecie molto ampia, strutturata come reato di pura condotta e di pericolo presunto, con titolo di imputazione soggettiva limitato al dolo. Non e' stata, infatti, prevista alcuna ipotesi colposa, pur non sussistendo alcuna ragione logica per escluderla (basti pensare alla fattispecie affine di cui all'art. 443 c.p., punita, ex art. 452 c.p., anche a titolo di colpa), in un settore, tra l'altro, in cui competenza professionale e rispetto di doverose cautele sono assolutamente determinanti. Il rilievo dei valori meritevoli di tutela, dunque, puo' giustificare e, in effetti, giustifica un meccanismo di incriminazione "a cascata", in cui non vengono censurate solo le condotte astrattamente dirette a porre in pericolo immediato il bene oggetto di protezione, ma anche tutti quei comportamenti che si traducano nella mera violazione delle prescrizioni imposte (che si riferiscono, nel caso di specie, a riserva di competenza, modalita' operative, rigorosa documentazione dell'iter attinente a sangue ed emocomponenti). Il problema e', dunque, quello di valutare il riflesso che il sistema sanzionatorio previsto dalla legge viene ad avere su simile, particolare meccanismo di incriminazione. L'esame dell'articolata fattispecie di cui all'art. 17, legge n. 107/1990 evidenzia il possibile rilievo di una ampia gamma di condotte, penalmente illecite, di portata estremamente differenziata. In una scala ideale di pregiudizio ai valori tutelati, al vertice sta certamente il fatto di chi, violando la legge, ed agendo per fine di profitto, pone in essere condotte immediatamente pericolose per la salute della collettivita' (il caso tipico del cd "commercio del sangue"). Alla base, il fatto di chi, senza agire a fini di profitto, viola la legge ponendo in essere comportamenti in cui il connotato di rischio e' minimo o, di fatto, inesistente. In questa secondo ambito si inquadra una parte del fatto contestato al capo b) della rubrica. Ovviamente impregiudicato il merito del procedimento, e' in contestazione, ad uno degli imputati, tra i vari episodi in continuazione, il fatto di non avere restituito al servizio trasfusionale talune unita' di sangue provenienti da autodonazione, provvedendo autonomamente al loro smaltimento. Non viene contestato, dunque, il fine del profitto, ne' l'utilizzo "pericoloso" delle unita' raccolte (eventualmente conservate in reparto col rischio di successiva reinfusione a terzi, o peggio direttamente reinfuse a terzi, o, ancora, cedute all'esterno della struttura), ma il diretto e autonomo smaltimento (quindi, comunque, la distruzione) di emazie frutto di autodonazione, non utilizzate e, quindi, pur sempre destinate alla eliminazione, sia pure attraverso i canali istituzionali. La portata di tale violazione e' ben diversa rispetto ad altre condotte illecite astrattamente ipotizzabili (dalla omissione dei test di compatibilita' alla non corretta conservazione degli emocomponenti, fino ad arrivare al "commercio del sangue" vero e proprio). In questo quadro, il meccanismo sanzionatorio previsto dalla legge non consente alcuna graduazione di pena, ne' principale, ne' accessoria, essendo il minimo rigidamente predeterminato (mesi dodici di reclusione e L. 400.000 di multa, interdizione dall'esercizio della professione sanitaria per periodo non inferiore a due anni. Vi e', dunque, una evidente parificazione, sotto il profilo della sanzione globalmente considerata, di situazioni diverse, addirittura, considerando la vasta gamma delle condotte astrattamente possibili, di situazioni estremamente differenziate, sia sul piano dell'elemento psicologico, sia sul piano oggettivo, non giustificabile col richiamo al valore ultimo oggetto di tutela (in taluni casi, neppure messo in pericolo). Da tutto cio' discende, necessariamente, il dubbio sulla razionalita' del sistema sanzionatorio, in rapporto all'art. 3, comma primo, Cost. Detto sistema, caratterizzato da predeterminazione di minimi rigidi ed elevati, sia a livello di pena principale che accessoria, a fronte di fatti di portata marginale, pone poi ulteriori dubbi di coerenza della norma in esame con l'art. 3, comma primo, Cost., sotto il diverso profilo del rispetto del canone di proporzionalita'. Non vi e', infatti, dubbio che la pena, secondo Costituzione, debba essere proporzionata al disvalore dell'illecito. La portata pratica di detto principio consente di sindacare e, quindi, di censurare, tutte quelle "incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa', sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni" (cosi' ex sentenza n. 409/1989). In presenza di fatti di minimo rilievo offensivo, non puo' non porsi il dubbio che il sacrificio di diritti fondamentali della persona (quali la liberta' personale, ex art. 13 Cost., il diritto al lavoro, ex art. 4 Cost.), nei termini previsti dall'art. 17, legge n. 107/1990, sia palesemente e irragionevolmente sproporzionato rispetto alle finalita' di tutela perseguite. Tale considerazione non puo', poi, non riflettersi su altro profilo di costituzionalita' ravvisabile nella normativa in esame, cioe' il rispetto della funzione rieducativa della pena, ex art. 27, comma terzo, Cost., canone non limitato esclusivamente alla fase esecutiva, ma direttamente operante gia' a livello di astratta previsione normativa del meccanismo sanzionatorio globalmente inteso (cfr., tra le altre, sentenza n. 341/1994. In presenza di fatti di minor entita', (spesso anche mere violazioni formali, astrattamente ipotizzabili ex art. 17, comma primo, legge n. 107/1990 e art. 1 e seguenti d.m. 27 dicembre 1990, non assistite dal fine del profitto e prive di diretta incidenza sul bene della salute), e' difficile ricollegare una funzione rieducativa alla reclusione per mesi dodici e alla interdizione professionale per due anni. Sulla base di tali considerazioni, deve ritenersi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 17, legge n. 107/1990, nella sua parte sanzionatoria, in relazione agli artt. 3, comma primo, e 27, comma terzo, Cost., con conseguente sospensione del procedimento e trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.