Ricorso per conflitto di attribuzioni della regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della Giunta regionale pro-tempore Antonio La Forgia, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale n. 2584 del 22 dicembre 1997 (doc. 1), rappresentata e difesa - come da mandato a margine del presente atto - dagli avvocati Giandomenico Falcon di Padova e Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Manzi, via Confalonieri, 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione che non spetta allo Stato di stabilire con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri le "Modalita' di esercizio delle deroghe di cui all'art. 9 della direttiva 409/79/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici", nonche' per il conseguente annullamento del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 28 settembre 1997, avente tale oggetto, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 254 del 30 ottobre 1997, per violazione: dell'art. 117, comma primo, della Costituzione; dell'art. 118, comma primo, della Costituzione; dell'art. 125, comma primo, della Costituzione; degli artt. 4 e 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86; degli artt. 6 e 99 del decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977; della legislazione statale ordinaria nel settore della caccia, legge n. 157 del 1992, e in particolare dell'art. 18, comma 3; dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 143 del 1997; dell'art 8 della legge n. 59 del 1997; dei principi e regole costituzionali attinenti al rapporto tra Stato e regioni e in particolare dei principi di legalita' e di leale collaborazione; per i profili e nei modi di seguito illustrati. F a t t o Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri qui impugnato interviene a disciplinare - come detto nel titolo - le "Modalita' di esercizio delle deroghe di cui all'art. 9 della direttiva 409/79/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici". Piu' precisamente, l'art. 1 enuncia che, "al fine di garantire l'omogeneita' di applicazione della normativa comunitaria volta alla conservazione degli uccelli selvatici", il decreto impugnato "disciplina le modalita' per l'esercizio delle deroghe, di cui all'art. 9, paragrafo l, lett. c), della direttiva del Consiglio n. 409/79/CEE". Ora, l'intero decreto e' totalmente illegittimo ed arbitrario, in quanto privo, come piu' ampiamente si dira', di qualunque fondamento normativo e di qualunque base giuridica. Esso e' anche gravemente lesivo delle attribuzioni della ricorrente regione stabilite in materia di caccia dall'art. 117, comma primo, e 118, comma primo, della Costituzione (nonche' dalla legislazione attuativa), non solo e non tanto per la disciplina sostanziale delle deroghe in essa recata sia all'art. 1, commi 2 e 3, che all'art. 2 e all'art. 3 - disciplina che in larga misura ricalca quella gia' direttamente operativa stabilita dalla direttiva comunitaria sopra citata - quanto per il fatto che in sostanza espropria le regioni dal potere di decidere la deroga, sulla base della verifica locale delle rigide condizioni stabilite dalla normativa comunitaria, sottoponendolo sia all'intesa con il Ministro dell'ambiente e con il Ministro per le politiche agricole prevista dall'art. 2, comma primo, sia al potere dell'Istituto nazionale per la fauna selvatica di "dichiarare che le condizioni stabilite ai sensi degli artt. 2 e 3, sono realizzate". Cosi' facendo non solo sul piano del fatto il potere di deroga diviene una cassaforte a quadrupla chiave, praticamente impossibile da aprire, ma soprattutto, sul piano del diritto, viene gravissimamente alterato il riparto di competenze stabilito dalla Costituzione, attribuendo agli organi centrali dello Stato il potere di gestione diretta della caccia nel territorio regionale. L'impugnato d.P.C.M. 28 settembre 1997 risulta dunque illegittimo e lesivo delle prerogative costituzionali della ricorrente regione per le seguenti ragioni di D i r i t t o 1. - Quadro generale. A) Il sistema italiano stabilito dalla legge n. 157 del 1997 e la sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996. Conviene in primo luogo, ad avviso della ricorrente regione, chiarire il quadro normativo comunitario e nazionale al cui interno il decreto qui impugnato si colloca o si vorrebbe collocare. Esso infatti costituisce un tentativo di far fronte alla responsabilita' comunitaria dello Stato, e di cio' va tenuto conto; ma si tratta di un tentativo condotto in modo del tutto improprio e con esiti assolutamente inaccettabili, per le ragioni che di seguito si argomenteranno. E' ben noto che la direttiva del Consiglio n. 409/79/CEE, dopo avere disposto il divieto di caccia di alcune specie e di uso di alcuni mezzi di cattura (artt. 5, 6, 7 e 8, nonche' allegati di riferimento), prevede tuttavia all'art. 9, par. 1, lett. a), b) e c) che, in assenza di diversa soluzione soddisfacente, a tali divieti possa derogarsi per le ragioni ivi testualmente indicate, ed in particolare; nell'interesse della salute, della sicurezza pubblica, della sicurezza area, per evitare gravi danni alle culture, al bestiame, ai boschi, alla pesca, alle acque, per la protezione delle flora e della fauna (lett. a); a fini di ricerca e insegnamento, di ripopolamento o reintroduzione e per l'allevamento connesso a tali operazioni (lett. b); per consentire in condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo la cattura, la detenzione e altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantita' (lett. c). Lo stesso art. 9 della direttiva specifica anche le condizioni e regole modali delle deroghe: che siano menzionate le specie e i mezzi, impianti e metodi di cattura autorizzati, le condizioni di rischio e le circostanze di tempo e di luogo, l'autorita' abilitata a dichiarare che le condizioni sono realizzate ed a decidere quali mezzi, impianti e metodi possono essere autorizzati, i relativi limiti, le persone cui e' affidato il controllo. La legge italiana 11 febbraio 1992, n. 157, ha disciplinato l'intera materia della protezione della fauna selvatica e del prelievo venatorio, espressamente provvedendo (art. 1, comma 4) a recepire la direttiva comunitaria; ma non ha tuttavia disciplinato in alcun modo le deroghe di cui all'art. 9. Per tale profilo, dunque, la direttiva e' rimasta inattuata dalla legge statale. La legittimita' comunitaria di tale difetto di attuazione fu portata all'attenzione della Corte di giustizia delle Comunita' europee in un giudizio in via incidentale (causa n. 118/94) ai sensi dell'art. 177 Tratt. CE. Ivi si pose la seguente domanda, che sia consentito riportare dall'inizio delle conclusioni dell'avvocato generale Fennelly: "puo' uno Stato membro fondarsi sull'art. 9 della direttiva sugli uccelli selvatici al fine di giustificare la delega, operata da una legge nazionale, alle autorita' regionali o provinciali del potere di consentire la caccia di specie di uccelli non incluse nell'allegato alla direttiva, che ne autorizza la caccia, anche se detta legge intende obbligare le stesse autorita' all'osservanza sia della direttiva sia delle disposizioni legislative nazionali?" (Racc. 1996, I, 1225). Nel contesto delle proprie conclusioni sul tema l'avvocato generale ricorda tra l'altro che "le condizioni per la trasposizione non devono naturalmente frapporsi alle competenze di attuazione delegate da uno Stato membro ad autorita' regionali o provinciali" e che e' "giurisprudenza costante che ciascuno Stato e' libero di attribuire come meglio crede le competenze sul piano interno ed attuare una direttiva mediante provvedimenti adottati dalle autorita' regionali o locali" (Racc. 1996, I, 1236). Libero, ovviamente sul piano del diritto comunitario, mentre e' pacifico che sul piano del diritto interno la Stato e' tenuto ad attenersi al proprio diritto costituzionale, come confermato anche dalla sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n. 126 del 1996. Sia consentito riportare, prima della decisione della Corte di giustizia, ancora la conclusione dell'avvocato generale. Esso chiede alla Corte di stabilire, in primo luogo, che "non e' possibile invocare l'art. 9 della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, n. 79/409/CEE ... al fine di giustificare determinate disposizioni di una normativa nazionale che deleghino alle autorita' regionali e provinciali la competenza ad autorizzare la caccia di specie di uccelli non incluse nei pertinenti allegati della direttiva, quando tali disposizioni non contengono chiari criteri oggettivi per stabilire che le condizioni per il ricorso alla deroga consentite in forza di tale articolo sono state soddisfatte, o non limitano la caccia a quanto strettamente indispensabile al fine di poter operare con precisi requisiti e specifiche situazioni, o non individuano con sufficiente chiarezza gli obblighi delle autorita' regionali di osservare quelle condizioni" (ivi, 1241). Al tempo stesso l'avvocato generale chiedeva tuttavia anche che in difetto di tali disposizioni nella legge statale di recepimento (cioe' in concreto nella legge n. 157 del 1992) si stabilisse che, "quando il giudice nazionale non e' in grado di stabilire se un atto amministrativo che fissi un calendario venatorio per gli uccelli selvatici sia conforme alle disposizioni legislative nazionali che si prefiggono di attuare la direttiva" (dato che disposizioni specifiche sul punto mancano), esso giudice "ha l'obbligo di accertare la sostanziale conformita' dell'atto amministrativo ai termini della direttiva stessa". Conviene sottolineare che in tutte tali conclusioni la competenza regionale istituita dalla legge italiana e' considerata pacifica e di per se' piu' che legittima; che cio' che viene rimproverato alla legge statale e' in sostanza di non aver vincolato espressamente le regioni al pieno rispetto dell'art. 9 della direttiva; che in mancanza di tale pur necessario vincolo l'avvocato generale ritiene che l'art. 9 della direttiva operi ugualmente quale parametro sostanziale della legittimita' degli atti assunti dalle regioni. La Corte di giustizia nella sentenza pronunciata il 7 marzo 1996 non smentisce affatto i principi enunciati dall'avvocato generale, ma preferisce centrare la decisione su un particolare profilo e caratteristica che l'art. 18 della legge italiana n. 157 del 1992 allora presentava. Esso infatti includeva in generale tra le specie cacciabili diverse specie di uccelli che la direttiva comunitaria rendeva in via di principio non cacciabili, mentre solo con una circolare ministeriale (precisamente, la circolare del Ministero dell'agricoltura 29 gennaio 1993, n. 3, in Gazzetta Ufficiale 16 febbraio 1993, n. 38) specificava che le regioni avrebbero potuto includere tali specie nei calendari venatori soltanto nel rispetto delle condizioni stabilite dalla direttiva. Il sistema italiano era dunque quasi il contrario di quello previsto dalla direttiva; questa considerava le specie in questione come non cacciabili, ma ammetteva all'art. 9 limitate e motivate deroghe; quello considerava tali specie cacciabili, sia pure alla (implicita) condizione che fosse rispettata la direttiva, e dunque anche l'art. 9 sulle deroghe. La Corte di giustizia ritiene - come diversamente non poteva essere - che tale sistema costituisse non una attuzione ma una violazione della direttiva, e stabili' pertanto che "una normativa nazionale che autorizza la caccia di diverse specie di uccelli non comprese nell'elenco di cui all'allegato II della direttiva, senza pero' enunciare i criteri della deroga ne' obbligare le regioni in modo chiaro e preciso a tener conto di siffatti criteri ed applicarli, non soddisfa le condizioni cui soggiacciono le deroghe previste all'art. 9 della direttiva", potendo solo tale normativa nazionale prevedere la possibilita' di "derogare al divieto generale di caccia delle specie protette, derivante dagli artt. 5 e 7 della stessa direttiva, soltanto mediante misure che comportino un riferimento adeguatamente circostanziato, agli elementi di cui ai nn. 1 e 2 del medesimo art. 9". Puo' agevolmente essere osservato che anche la sentenza non contesta affatto ed anzi indirettamente conferma la piena legittimita' della competenza regionale alle deroghe, e contesta invece la illegittimita' della legge statale n. 157 del 1992 proprio in quanto da una lato operava un illegittimo ampliamento delle specie cacciabili, dall'altro non vincolava espressamente le regioni a conformarsi all'art. 9 della direttiva. Dunque, a prescindere dalla possibilita' di ritenere che l'art. 9 andasse comunque rispettato ed applicato (secondo l'indicazione dell'avvocato generale Fennelly), era certo che la legislazione nazionale risultava illegittima in quanto non vincolava espressamente le regioni a quel rispetto. Dal che consegue anche che per "sanare" tale illegittimita' sarebbe state necessaria e sufficiente una sola breve disposizione, che stabilisse in modo chiaro al livello legislativo quei divieti generali e quei vincoli per le deroghe. B) Sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n. 272 del 1996. Praticamente coeva alla sentenza della Corte di giustizia ora ricordata e' la sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n. 272 del 1996, la quale si trovava a giudicare - la precisazione e' essenziale per intendere la portata della decisione - della legittimita' del calendario venatorio di una regione, che includeva tra le specie cacciabili "in deroga alla direttiva CEE n. 409/1979" (|) il fringuello, considerato invece non cacciabile non solo dalla direttiva, ma dallo stesso art. 18 della legge n. 157 del 1992 (che pure includeva tra le cacciabili molte specie non cacciabili ai sensi della direttiva). Codesta ecc.ma Corte costituzionale, in tale contesto, sentenzio' che secondo la legge n. 157 del 1992 "i divieti posti dalla direttiva in tema di specie cacciabili sono suscettibili di modifica solo nei limiti del potere di variazione degli elenchi delle specie medesime, riservato allo Stato dall'art. 18, comma 3, legge n. 157 del 1992". In questo modo, la sentenza veniva assimilando le deroghe di cui all'art. 9, con l'estensione delle specie cacciabili da parte della legislazione nazionale rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria. Non puo' sfuggire che tale assimilazione, pur ammesso che possa giustificarsi quale interpretazione del sistema della legge n. 157 del 1992, rende tale legge ancora piu' contrastante con il sistema della direttiva comunitaria, secondo i principi sanciti dalla Corte di giustizia. In altre parole, codesta ecc.ma Corte costituzionale - che non era ovviamente chiamata ad una valutazione sul piano del diritto comunitario - ha sancito la legittimita' di diritto interno di una soluzione che tuttavia in realta' sul piano del diritto comunitario era gia' stata condannata come non conforme alla direttiva. In particolare, espressamente aveva sancito la sentenza della Corte di giustizia che il regime di deroga previsto dalle norme comunitarie si prefiggeva "solo un'applicazione concreta e puntuale per soddisfare precise esigenze e situazioni specifiche" (Racc., I - 1249). C) L'evoluzione successiva e la situazione giuridica attuale. Dopo la sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996, che come detto aveva sancito l'illegittimita' comunitaria del sistema italiano di recepimento del meccanismo specie cacciabili - deroghe, non poteva essere dubbio che la procedura di infrazione gia' iniziata dalla Commissione europea nel 1993 si sarebbe anch'esso concluso con la condanna dell'Italia. Per conformarsi alla sentenza gia' emanata ed evitare una nuova condanna fu emanato il d.P.R. 21 marzo 1997, con il quale l'elenco delle specie cacciabili di cui all'art. 18 della legge n. 157 del 1992 fu riportato a quello previsto dall'allegato II della direttiva comunitaria. Veniva cosi' meno quella sorta di curiosa "statuizione in generale" delle deroghe operata mediante l'elenco delle specie cacciabili, che costituiva il bersaglio primo della sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996. A seguito di cio' poteva correttamente prendere vita il meccanismo delle deroghe vere e proprie, nel rispetto ovviamente dell'art. 9 della direttiva; e tra le altre, anche la ricorrente regione con la legge n. 30 del 25 agosto 1997 stabili' una deroga alla caccia di alcune specie, ormai di regola non cacciabili (passera mattutina, passero, storno, taccola), entro limiti di luogo tempo, misura e modo ben definiti, essenzialmente in relazione alla necessita' di impedire danni alle culture agricole e di conseguenza alla produzione alimentare. Conviene ricordare che ancora prima di tale legge era entrato in vigore il decreto legislativo n. 143 del 1997, il quale ridefiniva ex novo il riparto di competenze tra Stato e regioni anche nella materia in questione, riservando allo Stato esclusivamente la definizione delle "specie cacciabili ai sensi dell'art. 18, comma 3, della legge 11 febbraio 1992, n. 157" (art. 2, comma 2). E' palese percio' che oggi la deroga non si fa piu', e non si puo' piu' fare secondo il diritto comunitario, manovrando le specie cacciabili, ma operando in concreto in relazione alle specifiche situazioni locali, e che le determinazioni in materia di deroga spettano alle autorita' locali - e pertanto alle regioni, ai sensi dell'art. 117, comma primo, e 118, comma primo della Costituzione - e che ovviamente le deroghe devono essere individuate in conformita' alla normativa comunitaria. D) Il parere motivato della Commissione del 7 agosto 1997. Il nuovo punto della situazione dell'Italia in relazione al recepimento del diritto comunitario operato dalla Commissione CE nel parere motivato del 7 agosto 1997, sempre nell'ambito della procedura di infrazione iniziata nel 1993. In esso si prende atto (punto 6) che l'elenco delle specie cacciabili di cui alla legislazione italiana e' ormai (dopo il d.P.C.M. 21 marzo 1997) conforme alla direttiva comunitaria, e concentra la sua attenzione in modo esclusivo sull'art. 4, comma 4, e sull'art. 5 della legge n. 157 del 1992: lamentando come ancora non conforme al regime di divieto salvo deroga previsto dal diritto comunitario la circostanza che la prima disposizione "autorizza la cattura per cessione a fini di richiamo di esemplari delle specie passer Italiae, passer montanus", e che la seconda disposizione "autorizza le regioni a disciplinare la detenzione di esemplari delle due specie appena menzionate, da utilizzare come richiami vivi di cattura". Su questa base, ribadito che il regime di deroga "si presta soltanto ad applicazioni concrete e puntuali, subordinate al rigoroso rispetto di precise esigenze e situazioni specifiche, e non puo' costituire il fondamento di un regime normativo generale di deroga ai divieti posti dalla direttiva" (punto 4), il parere motivato conclude nel senso che "autorizzando con la legge 11 febbraio 1992, n. 157, la cattura in vista della cessione e la detenzione a fini di richiamo delle specie del passer Italiae, passer montanus non comprese nell'allegato II della direttiva, autorizzando il ricorso alla deroga prevista dall'art. 9 della menzionata direttiva, senza assicurare il rigoroso rispetto delle esigenze, situazioni e condizioni previste da tale disposizione, la Repubblica italiana e' venuta meno agli obblighi che le incombono in virtu' del diritto comunitario". 2. - Illegittimita' ed arbitrarieta' del 27 settembre 1997. A) Totale assenza di fondamento giuridico. Se si considera il d.P.C.M. 27 settembre 1997, qui impugnato, nel quadro generale sopra tracciato, apparira' evidente che esso costituisce da un lato un tentativo - volonteroso quanto inidoneo - di adeguare la normativa italiana alle esigenze comunitarie espresse nel parere motivato della Commissione sopra richiamato, dall'altro un tentativo - questo totalmente ingiustificato ed arbitrario - di mantenere al centro competenze che non solo spettano alle regioni per Costituzione e legge ordinaria, ma spettano alla sede locale per la stessa logica del loro esercizio. Che il tentativo sia del tutto inidoneo risulta dalla semplice constatazione che la Commissione europea contestava il tenore delle disposizioni degli artt. 4 e 5 della legge n. 157 del 1992, disposizioni che non vengono - ovviamente - minimamente toccate dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma la stessa circostanza risulta altrettanto ovvia se si considera che il decreto qui' impugnato e' stato emanato al di fuori di qualunque base giuridica: al punto che l'elenco delle disposizioni invocate in premessa quale suo fondamento finisce per coincidere in buona parte con l'elenco delle disposizioni da esso violate. E' del tutto evidente, in particolare, che il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri qui' impugnato non puo' trovare fondamento alcuno nell'art. 18, comma 3, della stessa legge n. 157 del 1992, ai sensi del quale "con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ... vengono recepiti i nuovi elenchi delle specie di cui al comma 1, entro sessanta giorni dall'avvenuta approvazione comunitaria o dall'entrata in vigore delle convenzioni internazionali", e secondo il quale, ancora, "il Presidente del Consiglio dei Ministri ... dispone variazioni dell'elenco delle specie cacciabili in conformita' alle vigenti direttive comunitarie e alle convenzioni internazionali sottoscritte". La tesi espressa nelle premesse dell'atto qui' impugnato secondo cui tale potere "puo' essere utilizzato al fine di introdurre deroghe ai divieti e di verificarne il rispetto, in applicazione dell'art. 9 della citata direttiva n. 409/79/CEE" non e' altro che un tentativo di sostituire semplici parole al necessario fondamento normativo. E' evidente invece che il potere, o piuttosto il compito, previsto dall'art. 18, comma 3, non e' altro che un meccanismo di rapido recepimento delle variazioni intervenute a livello comunitario o internazionale, alle quali l'Italia e' tenuta ad adeguarsi, e non e' affatto un potere di disciplina sostanziale della materia: meno ancora un potere di integrare o precisare sotto profili diversi dal puro elenco le disposizioni della legge n. 157 del 1992, e meno ancora un potere di disciplinare in qualunque modo le relazioni tra le regioni, titolari costituzionali della materia, e lo Stato. Totalmente privo di fondamento normativo, il decreto qui' impugnato non puo' essere giustificato con generici richiami all'interesse nazionale. E' anche troppo ovvio che la cura dell'interesse nazionale spetta allo Stato, ma cio' nel quadro degli strumenti a questo fine previsti e costituiti, e non certo mediante atti extra ordinem autogiustificati. Se davvero vi fosse un interesse nazionale indilazionabile ed urgente, che non puo' trovare soddisfazione attraverso gli ordinari strumenti costituiti, la Costituzione italiana consentirebbe al Governo di soddisfarlo attraverso il ricorso al decreto-legge, ma non certo in via meramente amministrativa. Ne' l'atto impugnato puo' giustificarsi con un semplice richiamo alla necessita' di adeguarsi al parere motivato della Commissione europea. Infatti, a parte la circostanza che il d.P.C.M. 27 settembre 1997 contiene disposizioni lesive per le regioni (che costituiscono il fondamentale oggetto del presente conflitto) che nulla hanno a che fare con quanto richiesto dal parere motivato, ed a parte la circostanza, pure gia' rilevata, che l'atto e' comunque inidoneo a portare la legislazione italiana in linea con il diritto europeo; a parte tutto cio', e' chiaro che anche il processo di adeguamento del diritto italiano al diritto europeo deve seguire il tracciato previsto dalla legge, ed in particolare dalla legge n. 86 del 1989. Tale legge prevede quali strumenti di attuazione delle direttive sia la legge che il regolamento, ciascuno i con suoi caratteristici effetti; ma non prevede affatto l'attuazione delle direttive tramite decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Neppure infine l'atto impugnato potrebbe giustificarsi quale atto di indirizzo e coordinamento. Per vero, esso neppure pretende di qualificarsi come tale, mentre di un ipotetico futuro atto di indirizzo e coordinamento si parla (quale proposito del Ministero dell'agricoltura) nel parere motivato della Commissione CE (punto 13). Resta il fatto che da una parte neppure come tale esso avrebbe la minima base normativa nell'ordinamento italiano, in violazione del principio di legalita' sostanziale piu' volte affermato da codesta ecc.ma Corte costituzionale; che inoltre esso non e' stato sottoposto alla procedura di intesa prevista dall'art. 8 della legge n. 59 del 1997; che infine il contenuto di un atto di indirizzo non potrebbe essere mai la limitazione delle competenze regionali mediante strumenti di cogestione e di controllo non previsti da alcuna norma, quali le intese di cui all'art. 2 e per estensione all'art. 3, ne' la previsione di competenze di organismi centrali come accade all'art. 4. In quanto totalmente privo di fondamento giuridico, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri qui impugnato e' illegittimo nella sua totalita'. Si noti che l'illegittimita' colpisce di per se', sotto il gravissimo profilo indicato, anche quella parte della normativa disposta dal decreto la quale si limita a recepire letteralmente, introducendole nell'ordinamento italiano, le disposizioni di cui all'art. 9 della direttiva comunitaria. Infatti, tale forma di introduzione e' del tutto impropria ed arbitraria. D'altronde, le disposizioni dell'art. 9 della direttiva sono di per se' gia' operanti, secondo i principi generali sulla applicazione diretta delle direttive comunitarie nei rapporti tra amministrati e autorita' amministrative, in quanto le direttive siano dettagliate e siano scaduti i termini del recepimento; come espressamente ricordato, in relazione alla questione specifica delle deroghe, anche nella sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996 (punto 19). Da questo punto di vista il c.d. "recepimento" con il bizzarro atto qui impugnato non aggiunge ne' toglie nulla al diritto sostanziale e modale da applicare alle deroghe. Quello che e' e rimane illegittimo, dal punto di vista del diritto interno, e' la pretesa di "scrivere" una disciplina che dovra' essere attuata dalle regioni mediante un semplice atto amministrativo del Presidente del Consiglio. B) Lesivita' ed illegittimita' dei poteri statali di cui agli artt. 2, 3 e 4. Ferma l'illegittimita' dell'intero decreto, e ferma comunque la diretta applicabilita' dell'art. 9 della direttiva (e comunque la facolta' delle regioni di darvi esse stesse specificazione attuativa, s'intende rigorosamente attenendovisi), vistosamente lesivi dell'autonomia regionale - oltre che illegittimi ed arbitrari - sono i poteri che il decreto riserva agli organi centrali dello Stato ed in particolare la sottoposizione ad "intesa" con i Ministri dell'ambiente e delle politiche agricole della adozione delle deroghe da parte delle regioni (art. 2, primo comma, prima frase, e per rinvio art. 3). L'intesa realizza un procedimento di codecisione che, nel caso specifico, equivale ad un controllo di merito. La sua illegittimita' e' palese sotto un duplice profilo. In primo luogo, come ora detto, tali poteri sono creati in via amministrativa con un atto totalmente privo di base normativa. Si noti che la base normativa, inesistente nel diritto nazionale, e' altrettanto inesistente se pure si volesse cercarla nel diritto comunitario; nel quale non esiste nessun elemento che possa fare anche lontanamente supporre la necessita' di un simile potere. In secondo luogo, tali poteri sono comunque illegittimi e lesivi delle prerogative costituzionali delle regioni in quanto realizzano una sovrapposizione dello Stato in scelte necessariamente puntuali e specifiche, correlate alle condizioni locali, in violazione dell'art. 117, comma 1, e 118, comma 1, della Costituzione. Inoltre, essi rappresentano anche un sostanziale controllo di merito, su valutazioni che non possono che basarsi, come detto e come sottolineato anche dalla giurisprudenza comunitaria, su elementi esistenti localmente ed apprezzabili solo a partire dalla diretta conoscenza delle situazioni reali e specifiche; valutazioni sulle quali il "sindacato" delle autorita' centrali verrebbe cosi' a sovrapporsi, totalmente al di fuori del ristretto ambito in cui il controllo di merito e' consentito dall'art. 125 della Costituzione. Altrettanto illegittima, per lo stesso doppio ordine di ragioni, e' la riserva all'Istituto nazionale per la fauna selvatica del potere di "dichiarare che le condizioni stabilite ai sensi degli artt. 2 e 3 sono realizzate". Qui' va solo aggiunto che anche tale potere non trova affatto fondamento nel diritto comunitario, e che la' dove la direttiva afferma che ogni Stato membro dovra' indicare l'autorita' nazionale cui spetta tale competenza, essa non intende affatto affermare ne' che debba trattarsi di una autorita' centrale ne' che lo Stato sia libero nel determinarla. Al contrario, e ovvio che lo Stato dovra' attenersi al proprio diritto, cosi' come statuito anche dalla sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n. 126 del 1996.