Ricorso per conflitto di attribuzioni della regione Emilia-Romagna,
 in  persona del presidente della Giunta regionale pro-tempore Antonio
 La Forgia, autorizzato con deliberazione della  Giunta  regionale  n.
 2584  del 22 dicembre 1997 (doc. 1), rappresentata e difesa - come da
 mandato a margine del presente atto  -  dagli  avvocati  Giandomenico
 Falcon  di Padova e Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma
 presso lo studio dell'avv. Manzi,  via  Confalonieri,  5,  contro  il
 Presidente  del  Consiglio  dei Ministri per la dichiarazione che non
 spetta allo  Stato  di  stabilire  con  decreto  del  Presidente  del
 Consiglio  dei  Ministri  le "Modalita' di esercizio delle deroghe di
 cui  all'art.    9  della  direttiva   409/79/CEE,   concernente   la
 conservazione  degli  uccelli  selvatici", nonche' per il conseguente
 annullamento del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 28
 settembre 1997, avente tale oggetto, pubblicato in Gazzetta Ufficiale
 n. 254 del 30 ottobre 1997, per violazione:
      dell'art. 117, comma primo, della Costituzione;
     dell'art. 118, comma primo, della Costituzione;
     dell'art. 125, comma primo, della Costituzione;
     degli artt. 4 e 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86;
     degli artt. 6 e 99 del decreto del Presidente della Repubblica n.
 616 del 1977;
     della legislazione statale ordinaria nel  settore  della  caccia,
 legge n. 157 del 1992, e in particolare dell'art. 18, comma 3;
     dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 143 del 1997;
     dell'art 8 della legge n. 59 del 1997;
     dei  principi  e  regole costituzionali attinenti al rapporto tra
 Stato e regioni e in particolare dei principi di legalita' e di leale
 collaborazione;
     per i profili e nei modi di seguito illustrati.
                               F a t t o
   Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri qui  impugnato
 interviene  a disciplinare - come detto nel titolo - le "Modalita' di
 esercizio delle deroghe di cui all'art. 9 della direttiva 409/79/CEE,
 concernente  la  conservazione   degli   uccelli   selvatici".   Piu'
 precisamente,   l'art.   1   enuncia   che,  "al  fine  di  garantire
 l'omogeneita' di applicazione della normativa comunitaria volta  alla
 conservazione   degli   uccelli   selvatici",  il  decreto  impugnato
 "disciplina le  modalita'  per  l'esercizio  delle  deroghe,  di  cui
 all'art.  9,  paragrafo l, lett. c), della direttiva del Consiglio n.
 409/79/CEE".
   Ora,  l'intero  decreto e' totalmente illegittimo ed arbitrario, in
 quanto privo, come piu' ampiamente si dira', di qualunque  fondamento
 normativo  e  di  qualunque  base giuridica. Esso e' anche gravemente
 lesivo delle  attribuzioni  della  ricorrente  regione  stabilite  in
 materia  di  caccia  dall'art.  117, comma primo, e 118, comma primo,
 della Costituzione (nonche' dalla legislazione attuativa), non solo e
 non tanto per la disciplina sostanziale delle deroghe in essa  recata
 sia  all'art.    1,  commi  2  e  3,  che  all'art.  2 e all'art. 3 -
 disciplina che in  larga  misura  ricalca  quella  gia'  direttamente
 operativa stabilita dalla direttiva comunitaria sopra citata - quanto
 per  il  fatto  che  in  sostanza  espropria le regioni dal potere di
 decidere la deroga, sulla base della  verifica  locale  delle  rigide
 condizioni  stabilite dalla normativa comunitaria, sottoponendolo sia
 all'intesa con il Ministro dell'ambiente e con  il  Ministro  per  le
 politiche  agricole  prevista dall'art. 2, comma primo, sia al potere
 dell'Istituto nazionale per la fauna selvatica di "dichiarare che  le
 condizioni  stabilite ai sensi degli  artt.  2 e 3, sono realizzate".
 Cosi' facendo non solo sul  piano  del  fatto  il  potere  di  deroga
 diviene  una  cassaforte a quadrupla chiave, praticamente impossibile
 da  aprire,  ma   soprattutto,   sul   piano   del   diritto,   viene
 gravissimamente  alterato  il  riparto  di competenze stabilito dalla
 Costituzione, attribuendo agli organi centrali dello Stato il  potere
 di gestione diretta della caccia nel territorio regionale.
   L'impugnato d.P.C.M. 28 settembre 1997 risulta dunque illegittimo e
 lesivo  delle prerogative costituzionali della ricorrente regione per
 le seguenti ragioni di
                             D i r i t t o
   1. - Quadro generale.
   A) Il sistema italiano stabilito dalla legge n. 157 del 1997  e  la
 sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996.
   Conviene  in  primo  luogo,  ad  avviso  della  ricorrente regione,
 chiarire il quadro normativo comunitario e nazionale al  cui  interno
 il  decreto  qui  impugnato  si colloca o si vorrebbe collocare. Esso
 infatti costituisce un tentativo di far fronte  alla  responsabilita'
 comunitaria  dello  Stato, e di cio' va tenuto conto; ma si tratta di
 un tentativo condotto  in  modo  del  tutto  improprio  e  con  esiti
 assolutamente  inaccettabili,  per  le  ragioni  che  di  seguito  si
 argomenteranno.
   E' ben noto che la direttiva  del  Consiglio  n.  409/79/CEE,  dopo
 avere  disposto  il  divieto  di  caccia di alcune specie e di uso di
 alcuni mezzi di cattura (artt. 5, 6,  7  e  8,  nonche'  allegati  di
 riferimento),  prevede tuttavia all'art. 9, par. 1, lett. a), b) e c)
 che, in assenza di diversa soluzione soddisfacente,  a  tali  divieti
 possa  derogarsi  per  le  ragioni  ivi  testualmente indicate, ed in
 particolare; nell'interesse della salute, della  sicurezza  pubblica,
 della  sicurezza  area,  per  evitare  gravi  danni  alle culture, al
 bestiame, ai boschi, alla pesca, alle acque, per la protezione  delle
 flora  e  della fauna (lett. a); a fini di ricerca e insegnamento, di
 ripopolamento o reintroduzione e per l'allevamento  connesso  a  tali
 operazioni  (lett.  b);  per  consentire  in  condizioni  rigidamente
 controllate e in modo selettivo la cattura,  la  detenzione  e  altri
 impieghi  misurati di determinati uccelli in piccole quantita' (lett.
 c).
   Lo  stesso  art.  9 della direttiva specifica anche le condizioni e
 regole modali delle deroghe: che  siano  menzionate  le  specie  e  i
 mezzi,  impianti  e  metodi  di cattura autorizzati, le condizioni di
 rischio e le circostanze di tempo e di luogo, l'autorita' abilitata a
 dichiarare che le condizioni sono  realizzate  ed  a  decidere  quali
 mezzi,  impianti  e  metodi  possono  essere  autorizzati, i relativi
 limiti, le persone cui e' affidato il controllo.
   La legge  italiana  11  febbraio  1992,  n.  157,  ha  disciplinato
 l'intera  materia  della  protezione  della  fauna  selvatica  e  del
 prelievo venatorio, espressamente provvedendo (art.  1,  comma  4)  a
 recepire la direttiva comunitaria; ma non ha tuttavia disciplinato in
 alcun modo le deroghe di cui all'art. 9. Per tale profilo, dunque, la
 direttiva e' rimasta inattuata dalla legge statale.
   La  legittimita'  comunitaria  di  tale  difetto  di  attuazione fu
 portata all'attenzione  della  Corte  di  giustizia  delle  Comunita'
 europee  in un giudizio in via incidentale (causa n. 118/94) ai sensi
 dell'art.  177 Tratt. CE. Ivi si pose la seguente  domanda,  che  sia
 consentito  riportare  dall'inizio  delle  conclusioni  dell'avvocato
 generale Fennelly:  "puo' uno Stato membro fondarsi sull'art. 9 della
 direttiva sugli uccelli selvatici al fine di giustificare la  delega,
 operata   da   una   legge  nazionale,  alle  autorita'  regionali  o
 provinciali del potere di consentire la caccia di specie  di  uccelli
 non incluse nell'allegato alla direttiva, che ne autorizza la caccia,
 anche   se   detta   legge  intende  obbligare  le  stesse  autorita'
 all'osservanza sia della direttiva sia delle disposizioni legislative
 nazionali?" (Racc. 1996, I, 1225).
   Nel contesto delle proprie conclusioni sul tema l'avvocato generale
 ricorda tra l'altro che  "le  condizioni  per  la  trasposizione  non
 devono  naturalmente frapporsi alle competenze di attuazione delegate
 da uno Stato membro ad autorita' regionali o provinciali"  e  che  e'
 "giurisprudenza  costante  che ciascuno Stato e' libero di attribuire
 come meglio crede le competenze sul  piano  interno  ed  attuare  una
 direttiva mediante provvedimenti adottati dalle autorita' regionali o
 locali"  (Racc.    1996,  I,  1236). Libero, ovviamente sul piano del
 diritto comunitario, mentre e' pacifico che  sul  piano  del  diritto
 interno   la   Stato  e'  tenuto  ad  attenersi  al  proprio  diritto
 costituzionale, come  confermato  anche  dalla  sentenza  di  codesta
 ecc.ma Corte costituzionale n. 126 del 1996.
   Sia  consentito  riportare,  prima  della  decisione della Corte di
 giustizia, ancora la conclusione dell'avvocato generale. Esso  chiede
 alla  Corte  di  stabilire,  in  primo  luogo,  che "non e' possibile
 invocare l'art. 9 della direttiva del Consiglio  2  aprile  1979,  n.
 79/409/CEE  ...  al  fine di giustificare determinate disposizioni di
 una normativa nazionale che  deleghino  alle  autorita'  regionali  e
 provinciali  la  competenza  ad  autorizzare  la  caccia di specie di
 uccelli non incluse nei pertinenti allegati della  direttiva,  quando
 tali   disposizioni  non  contengono  chiari  criteri  oggettivi  per
 stabilire che le condizioni per il ricorso alla deroga consentite  in
 forza  di  tale  articolo  sono  state soddisfatte, o non limitano la
 caccia a quanto strettamente indispensabile al fine di poter  operare
 con  precisi requisiti e specifiche situazioni, o non individuano con
 sufficiente chiarezza  gli  obblighi  delle  autorita'  regionali  di
 osservare quelle condizioni" (ivi, 1241).
   Al  tempo stesso l'avvocato generale chiedeva tuttavia anche che in
 difetto di tali  disposizioni  nella  legge  statale  di  recepimento
 (cioe'  in  concreto  nella legge n. 157 del 1992) si stabilisse che,
 "quando il giudice nazionale non e' in grado di stabilire se un  atto
 amministrativo  che  fissi  un  calendario  venatorio per gli uccelli
 selvatici sia conforme alle disposizioni legislative nazionali che si
 prefiggono di attuare la direttiva" (dato che disposizioni specifiche
 sul punto mancano),  esso  giudice  "ha  l'obbligo  di  accertare  la
 sostanziale  conformita'  dell'atto  amministrativo  ai termini della
 direttiva stessa".
   Conviene sottolineare che in tutte tali conclusioni  la  competenza
 regionale istituita dalla legge italiana e' considerata pacifica e di
 per  se'  piu'  che  legittima;  che cio' che viene rimproverato alla
 legge statale e' in sostanza di non aver vincolato  espressamente  le
 regioni  al  pieno  rispetto  dell'art.  9  della  direttiva;  che in
 mancanza di tale pur necessario vincolo l'avvocato  generale  ritiene
 che  l'art.  9  della  direttiva  operi  ugualmente  quale  parametro
 sostanziale della legittimita' degli atti assunti dalle regioni.
   La Corte di giustizia nella sentenza pronunciata il  7  marzo  1996
 non smentisce affatto i principi enunciati dall'avvocato generale, ma
 preferisce   centrare  la  decisione  su  un  particolare  profilo  e
 caratteristica che l'art. 18 della legge italiana  n.  157  del  1992
 allora presentava.
   Esso infatti includeva in generale tra le specie cacciabili diverse
 specie  di  uccelli  che  la  direttiva comunitaria rendeva in via di
 principio non cacciabili, mentre solo con una circolare  ministeriale
 (precisamente, la circolare del Ministero dell'agricoltura 29 gennaio
 1993,   n.  3,  in  Gazzetta  Ufficiale  16  febbraio  1993,  n.  38)
 specificava che le regioni avrebbero potuto includere tali specie nei
 calendari venatori soltanto nel rispetto delle  condizioni  stabilite
 dalla direttiva.
   Il  sistema  italiano  era  dunque  quasi  il  contrario  di quello
 previsto dalla direttiva; questa considerava le specie  in  questione
 come  non  cacciabili,  ma  ammetteva  all'art. 9 limitate e motivate
 deroghe; quello considerava tali specie  cacciabili,  sia  pure  alla
 (implicita)  condizione  che  fosse rispettata la direttiva, e dunque
 anche l'art.  9 sulle deroghe.
   La Corte di giustizia ritiene - come diversamente non poteva essere
 - che tale sistema costituisse non una attuzione  ma  una  violazione
 della direttiva, e stabili' pertanto che "una normativa nazionale che
 autorizza  la  caccia  di  diverse  specie  di  uccelli  non comprese
 nell'elenco di cui  all'allegato  II  della  direttiva,  senza  pero'
 enunciare  i  criteri  della  deroga ne' obbligare le regioni in modo
 chiaro e preciso a tener conto di siffatti criteri ed applicarli, non
 soddisfa le condizioni cui soggiacciono le deroghe previste  all'art.
 9  della  direttiva", potendo solo tale normativa nazionale prevedere
 la possibilita' di "derogare al  divieto  generale  di  caccia  delle
 specie  protette, derivante dagli artt. 5 e 7 della stessa direttiva,
 soltanto mediante misure che comportino un riferimento  adeguatamente
 circostanziato,  agli  elementi di cui ai nn. 1 e 2 del medesimo art.
 9".
   Puo'  agevolmente  essere  osservato  che  anche  la  sentenza  non
 contesta   affatto   ed   anzi   indirettamente   conferma  la  piena
 legittimita' della competenza  regionale  alle  deroghe,  e  contesta
 invece  la illegittimita' della legge statale n. 157 del 1992 proprio
 in quanto da una lato operava un illegittimo ampliamento delle specie
 cacciabili,  dall'altro  non  vincolava  espressamente  le  regioni a
 conformarsi all'art. 9 della direttiva.
   Dunque, a prescindere dalla possibilita' di ritenere che l'art.   9
 andasse  comunque  rispettato  ed  applicato  (secondo  l'indicazione
 dell'avvocato generale  Fennelly),  era  certo  che  la  legislazione
 nazionale risultava illegittima in quanto non vincolava espressamente
 le  regioni  a quel rispetto. Dal che consegue anche che per "sanare"
 tale illegittimita' sarebbe state necessaria e sufficiente  una  sola
 breve   disposizione,  che  stabilisse  in  modo  chiaro  al  livello
 legislativo quei divieti generali e quei vincoli per le deroghe.
   B) Sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n. 272 del 1996.
   Praticamente coeva alla  sentenza  della  Corte  di  giustizia  ora
 ricordata  e'  la  sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n.
 272 del 1996, la quale si trovava a giudicare -  la  precisazione  e'
 essenziale   per   intendere  la  portata  della  decisione  -  della
 legittimita' del calendario venatorio di una regione,  che  includeva
 tra  le  specie cacciabili "in deroga alla direttiva CEE n. 409/1979"
 (|) il fringuello, considerato invece non cacciabile non  solo  dalla
 direttiva,  ma  dallo stesso art. 18 della legge n. 157 del 1992 (che
 pure includeva tra le cacciabili molte specie non cacciabili ai sensi
 della direttiva).
   Codesta ecc.ma Corte costituzionale, in tale  contesto,  sentenzio'
 che secondo la legge n. 157 del 1992 "i divieti posti dalla direttiva
 in  tema  di specie cacciabili sono suscettibili di modifica solo nei
 limiti del potere di variazione degli elenchi delle specie  medesime,
 riservato allo Stato dall'art. 18, comma 3, legge n. 157 del 1992".
   In  questo  modo,  la sentenza veniva assimilando le deroghe di cui
 all'art. 9, con l'estensione delle specie cacciabili da  parte  della
 legislazione  nazionale  rispetto  a  quanto previsto dalla normativa
 comunitaria.
   Non puo' sfuggire che tale assimilazione,  pur  ammesso  che  possa
 giustificarsi  quale  interpretazione  del sistema della legge n. 157
 del 1992, rende tale legge ancora piu' contrastante  con  il  sistema
 della  direttiva  comunitaria, secondo i principi sanciti dalla Corte
 di giustizia. In altre parole, codesta ecc.ma Corte costituzionale  -
 che  non  era  ovviamente  chiamata  ad una valutazione sul piano del
 diritto comunitario - ha sancito la legittimita' di  diritto  interno
 di  una  soluzione  che  tuttavia  in  realta'  sul piano del diritto
 comunitario  era  gia'  stata  condannata  come  non  conforme   alla
 direttiva.  In  particolare,  espressamente aveva sancito la sentenza
 della Corte di giustizia che il regime di deroga previsto dalle norme
 comunitarie si prefiggeva "solo un'applicazione concreta  e  puntuale
 per  soddisfare precise esigenze e situazioni specifiche" (Racc., I -
 1249).
   C) L'evoluzione successiva e la situazione giuridica attuale.
   Dopo la sentenza della Corte di giustizia del  7  marzo  1996,  che
 come  detto  aveva  sancito  l'illegittimita' comunitaria del sistema
 italiano di recepimento del meccanismo specie cacciabili  -  deroghe,
 non poteva essere dubbio che la procedura di infrazione gia' iniziata
 dalla  Commissione europea nel 1993 si sarebbe anch'esso concluso con
 la condanna dell'Italia.
   Per  conformarsi  alla  sentenza  gia' emanata ed evitare una nuova
 condanna fu emanato il d.P.R. 21 marzo 1997, con  il  quale  l'elenco
 delle  specie  cacciabili  di  cui all'art. 18 della legge n. 157 del
 1992 fu riportato a quello previsto dall'allegato II della  direttiva
 comunitaria.  Veniva  cosi' meno quella sorta di curiosa "statuizione
 in generale" delle deroghe operata  mediante  l'elenco  delle  specie
 cacciabili,  che  costituiva  il bersaglio primo della sentenza della
 Corte di giustizia del 7 marzo 1996.
   A seguito di cio' poteva correttamente prendere vita il  meccanismo
 delle  deroghe  vere  e  proprie, nel rispetto ovviamente dell'art. 9
 della direttiva; e tra le altre, anche la ricorrente regione  con  la
 legge  n.  30  del  25 agosto 1997 stabili' una deroga alla caccia di
 alcune specie, ormai di regola  non  cacciabili  (passera  mattutina,
 passero, storno, taccola), entro limiti di luogo tempo, misura e modo
 ben definiti, essenzialmente in relazione alla necessita' di impedire
 danni   alle  culture  agricole  e  di  conseguenza  alla  produzione
 alimentare.
   Conviene ricordare che ancora prima di tale legge  era  entrato  in
 vigore il decreto legislativo n. 143 del 1997, il quale ridefiniva ex
 novo il riparto di competenze tra Stato e regioni anche nella materia
 in  questione,  riservando  allo  Stato esclusivamente la definizione
 delle "specie cacciabili ai sensi dell'art. 18, comma 3, della  legge
 11  febbraio  1992,  n. 157" (art. 2, comma 2). E' palese percio' che
 oggi la deroga non si fa piu', e non si puo'  piu'  fare  secondo  il
 diritto  comunitario, manovrando le specie cacciabili, ma operando in
 concreto in relazione alle specifiche situazioni  locali,  e  che  le
 determinazioni  in materia di deroga spettano alle autorita' locali -
 e pertanto alle regioni, ai sensi dell'art. 117, comma primo, e  118,
 comma  primo  della Costituzione - e che ovviamente le deroghe devono
 essere individuate in conformita' alla normativa comunitaria.
   D) Il parere motivato della Commissione del 7 agosto 1997.
   Il  nuovo  punto  della  situazione  dell'Italia  in  relazione  al
 recepimento del diritto comunitario  operato dalla Commissione CE nel
 parere motivato del 7 agosto 1997, sempre nell'ambito della procedura
 di infrazione iniziata nel 1993.
   In  esso  si  prende  atto  (punto  6)  che  l'elenco  delle specie
 cacciabili di cui  alla  legislazione  italiana  e'  ormai  (dopo  il
 d.P.C.M.  21  marzo  1997)  conforme  alla  direttiva  comunitaria, e
 concentra la sua attenzione in modo esclusivo sull'art. 4, comma 4, e
 sull'art. 5 della legge n. 157 del 1992: lamentando come  ancora  non
 conforme  al  regime  di  divieto  salvo  deroga previsto dal diritto
 comunitario la circostanza che la prima  disposizione  "autorizza  la
 cattura  per  cessione  a  fini di richiamo di esemplari delle specie
 passer Italiae, passer  montanus",  e  che  la  seconda  disposizione
 "autorizza le regioni a disciplinare la detenzione di esemplari delle
 due  specie  appena  menzionate,  da utilizzare come richiami vivi di
 cattura".
   Su questa base,  ribadito  che  il  regime  di  deroga  "si  presta
 soltanto ad applicazioni concrete e puntuali, subordinate al rigoroso
 rispetto  di  precise  esigenze  e  situazioni specifiche, e non puo'
 costituire il fondamento di un regime normativo generale di deroga ai
 divieti posti dalla direttiva" (punto 4), il parere motivato conclude
 nel senso che "autorizzando con la legge 11 febbraio 1992, n. 157, la
 cattura in vista della cessione e la detenzione a  fini  di  richiamo
 delle  specie  del  passer  Italiae,  passer  montanus  non  comprese
 nell'allegato II della direttiva, autorizzando il ricorso alla deroga
 prevista  dall'art. 9 della menzionata direttiva, senza assicurare il
 rigoroso rispetto delle esigenze, situazioni e condizioni previste da
 tale  disposizione,  la  Repubblica  italiana  e'  venuta  meno  agli
 obblighi che le incombono in virtu' del diritto comunitario".
   2. - Illegittimita' ed arbitrarieta' del 27 settembre 1997.
   A) Totale assenza di fondamento giuridico.
   Se  si  considera il d.P.C.M. 27 settembre 1997, qui impugnato, nel
 quadro  generale  sopra  tracciato,  apparira'  evidente   che   esso
 costituisce  da  un lato un tentativo - volonteroso quanto inidoneo -
 di adeguare la normativa italiana alle esigenze comunitarie  espresse
 nel parere motivato della Commissione sopra richiamato, dall'altro un
 tentativo  -  questo  totalmente  ingiustificato  ed  arbitrario - di
 mantenere al centro competenze che non solo spettano alle regioni per
 Costituzione e legge ordinaria, ma spettano alla sede locale  per  la
 stessa logica del loro esercizio.
   Che  il  tentativo  sia  del  tutto inidoneo risulta dalla semplice
 constatazione che la Commissione europea contestava il  tenore  delle
 disposizioni  degli  artt.  4  e  5  della  legge  n.  157  del 1992,
 disposizioni che non vengono - ovviamente - minimamente  toccate  dal
 decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri. Ma la stessa
 circostanza risulta altrettanto ovvia se si considera che il  decreto
 qui'  impugnato  e'  stato  emanato  al  di  fuori  di qualunque base
 giuridica: al punto  che  l'elenco  delle  disposizioni  invocate  in
 premessa  quale  suo fondamento finisce per coincidere in buona parte
 con l'elenco delle disposizioni da esso violate.
   E'  del  tutto  evidente,  in  particolare,  che  il  decreto   del
 Presidente del Consiglio dei Ministri qui' impugnato non puo' trovare
 fondamento  alcuno  nell'art.  18, comma 3, della stessa legge n. 157
 del 1992,  ai  sensi  del  quale  "con  decreto  del  Presidente  del
 Consiglio  dei  Ministri  ...  vengono recepiti i nuovi elenchi delle
 specie di  cui  al  comma  1,  entro  sessanta  giorni  dall'avvenuta
 approvazione  comunitaria  o dall'entrata in vigore delle convenzioni
 internazionali", e secondo  il  quale,  ancora,  "il  Presidente  del
 Consiglio  dei  Ministri  ...  dispone  variazioni  dell'elenco delle
 specie cacciabili in conformita' alle vigenti direttive comunitarie e
 alle convenzioni internazionali sottoscritte".
   La tesi espressa nelle premesse dell'atto  qui'  impugnato  secondo
 cui tale potere "puo' essere utilizzato al fine di introdurre deroghe
 ai divieti e di verificarne il rispetto, in applicazione dell'art.  9
 della  citata  direttiva n. 409/79/CEE" non e' altro che un tentativo
 di sostituire semplici parole al necessario fondamento normativo.  E'
 evidente invece che il  potere,  o  piuttosto  il  compito,  previsto
 dall'art.  18,  comma  3,  non  e'  altro che un meccanismo di rapido
 recepimento delle variazioni  intervenute  a  livello  comunitario  o
 internazionale,  alle quali l'Italia e' tenuta ad adeguarsi, e non e'
 affatto un potere  di  disciplina  sostanziale  della  materia:  meno
 ancora  un  potere di integrare o precisare sotto profili diversi dal
 puro elenco le disposizioni della legge  n.  157  del  1992,  e  meno
 ancora  un  potere di disciplinare in qualunque modo le relazioni tra
 le regioni, titolari costituzionali della materia, e lo Stato.
   Totalmente privo di fondamento normativo, il decreto qui' impugnato
 non puo' essere  giustificato  con  generici  richiami  all'interesse
 nazionale. E' anche troppo ovvio che la cura dell'interesse nazionale
 spetta  allo  Stato, ma cio' nel quadro degli strumenti a questo fine
 previsti  e  costituiti,  e  non  certo  mediante  atti extra ordinem
 autogiustificati.    Se  davvero  vi  fosse  un  interesse  nazionale
 indilazionabile  ed  urgente,  che  non  puo'  trovare  soddisfazione
 attraverso  gli  ordinari  strumenti  costituiti,   la   Costituzione
 italiana  consentirebbe  al  Governo  di  soddisfarlo  attraverso  il
 ricorso  al  decreto-legge,   ma   non   certo   in   via   meramente
 amministrativa.
   Ne'  l'atto  impugnato  puo' giustificarsi con un semplice richiamo
 alla necessita' di adeguarsi al  parere  motivato  della  Commissione
 europea. Infatti, a parte la circostanza che il d.P.C.M. 27 settembre
 1997  contiene  disposizioni lesive per le regioni (che costituiscono
 il fondamentale oggetto del presente conflitto) che nulla hanno a che
 fare con  quanto  richiesto  dal  parere  motivato,  ed  a  parte  la
 circostanza,  pure  gia'  rilevata, che l'atto e' comunque inidoneo a
 portare la legislazione italiana in linea con il diritto  europeo;  a
 parte  tutto cio', e' chiaro che anche il processo di adeguamento del
 diritto  italiano  al  diritto  europeo  deve  seguire  il  tracciato
 previsto  dalla  legge, ed in particolare dalla legge n. 86 del 1989.
 Tale legge prevede quali strumenti di attuazione delle direttive  sia
 la  legge  che  il  regolamento,  ciascuno  i con suoi caratteristici
 effetti; ma non prevede affatto l'attuazione delle direttive  tramite
 decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.
   Neppure  infine  l'atto impugnato potrebbe giustificarsi quale atto
 di indirizzo e coordinamento. Per  vero,  esso  neppure  pretende  di
 qualificarsi  come  tale,  mentre  di  un  ipotetico  futuro  atto di
 indirizzo e coordinamento si parla  (quale  proposito  del  Ministero
 dell'agricoltura)  nel  parere  motivato  della Commissione CE (punto
 13). Resta il fatto che da una parte neppure come tale  esso  avrebbe
 la minima base normativa nell'ordinamento italiano, in violazione del
 principio  di  legalita'  sostanziale piu' volte affermato da codesta
 ecc.ma Corte costituzionale; che inoltre esso non e' stato sottoposto
 alla procedura di intesa prevista dall'art. 8 della legge n.  59  del
 1997;  che  infine  il contenuto di un atto di indirizzo non potrebbe
 essere  mai  la  limitazione  delle  competenze  regionali   mediante
 strumenti  di cogestione e di controllo non previsti da alcuna norma,
 quali le intese di cui all'art. 2 e per estensione all'art. 3, ne' la
 previsione di competenze di organismi centrali come  accade  all'art.
 4.
   In  quanto totalmente privo di fondamento giuridico, il decreto del
 Presidente del Consiglio dei Ministri qui  impugnato  e'  illegittimo
 nella sua totalita'.
   Si  noti  che  l'illegittimita'  colpisce  di  per  se',  sotto  il
 gravissimo profilo  indicato,  anche  quella  parte  della  normativa
 disposta  dal  decreto  la  quale si limita a recepire letteralmente,
 introducendole nell'ordinamento  italiano,  le  disposizioni  di  cui
 all'art.  9  della  direttiva  comunitaria.  Infatti,  tale  forma di
 introduzione e' del tutto impropria ed arbitraria.
   D'altronde, le disposizioni dell'art. 9 della direttiva sono di per
 se' gia' operanti, secondo i  principi  generali  sulla  applicazione
 diretta  delle  direttive comunitarie nei rapporti tra amministrati e
 autorita' amministrative, in quanto le direttive siano dettagliate  e
 siano   scaduti   i   termini  del  recepimento;  come  espressamente
 ricordato, in relazione alla questione specifica delle deroghe, anche
 nella  sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996 (punto 19).
 Da questo punto di vista il c.d. "recepimento" con il  bizzarro  atto
 qui  impugnato non aggiunge ne' toglie nulla al diritto sostanziale e
 modale da applicare alle deroghe. Quello che e' e rimane illegittimo,
 dal punto di vista del diritto interno, e' la pretesa  di  "scrivere"
 una  disciplina  che  dovra' essere attuata dalle regioni mediante un
 semplice atto amministrativo del Presidente del Consiglio.
   B) Lesivita' ed illegittimita' dei poteri statali di cui agli artt.
 2, 3 e 4.
   Ferma l'illegittimita' dell'intero decreto,  e  ferma  comunque  la
 diretta  applicabilita'  dell'art.  9  della direttiva (e comunque la
 facolta' delle regioni di darvi esse stesse specificazione attuativa,
 s'intende   rigorosamente   attenendovisi),    vistosamente    lesivi
 dell'autonomia  regionale - oltre che illegittimi ed arbitrari - sono
 i poteri che il decreto riserva agli organi centrali dello  Stato  ed
 in   particolare   la  sottoposizione  ad  "intesa"  con  i  Ministri
 dell'ambiente e delle politiche agricole della adozione delle deroghe
 da parte delle regioni (art. 2,  primo  comma,  prima  frase,  e  per
 rinvio art. 3). L'intesa realizza un procedimento di codecisione che,
 nel caso specifico, equivale ad un controllo di merito.
   La  sua illegittimita' e' palese sotto un duplice profilo. In primo
 luogo, come ora detto, tali poteri sono creati in via  amministrativa
 con  un  atto totalmente privo di base normativa. Si noti che la base
 normativa,  inesistente  nel  diritto   nazionale,   e'   altrettanto
 inesistente  se pure si volesse cercarla nel diritto comunitario; nel
 quale non esiste nessun elemento che possa  fare  anche  lontanamente
 supporre la necessita' di un simile potere.
   In  secondo  luogo,  tali poteri sono comunque illegittimi e lesivi
 delle prerogative costituzionali delle regioni in  quanto  realizzano
 una  sovrapposizione dello Stato in scelte necessariamente puntuali e
 specifiche, correlate alle condizioni locali, in violazione dell'art.
 117, comma 1, e 118, comma 1, della Costituzione.
   Inoltre, essi  rappresentano  anche  un  sostanziale  controllo  di
 merito, su valutazioni che non possono che basarsi, come detto e come
 sottolineato  anche  dalla  giurisprudenza  comunitaria,  su elementi
 esistenti localmente ed apprezzabili solo  a  partire  dalla  diretta
 conoscenza  delle  situazioni  reali  e specifiche; valutazioni sulle
 quali il  "sindacato"  delle  autorita'  centrali  verrebbe  cosi'  a
 sovrapporsi,  totalmente  al  di fuori del ristretto ambito in cui il
 controllo di merito e' consentito dall'art. 125 della Costituzione.
   Altrettanto illegittima, per lo stesso doppio ordine di ragioni, e'
 la riserva all'Istituto nazionale per la fauna selvatica  del  potere
 di "dichiarare che le condizioni stabilite ai sensi degli artt. 2 e 3
 sono  realizzate".  Qui'  va  solo aggiunto che anche tale potere non
 trova affatto fondamento nel diritto comunitario, e che la'  dove  la
 direttiva  afferma  che ogni Stato membro dovra' indicare l'autorita'
 nazionale cui  spetta  tale  competenza,  essa  non  intende  affatto
 affermare  ne'  che debba trattarsi di una autorita' centrale ne' che
 lo Stato sia libero nel determinarla. Al contrario, e  ovvio  che  lo
 Stato  dovra' attenersi al proprio diritto, cosi' come statuito anche
 dalla sentenza di codesta ecc.ma  Corte  costituzionale  n.  126  del
 1996.