IL TRIBUNALE
   Ha  emesso  la  seguente  ordinanza nel giudizio penale n. 268/1995
 r.g.t. a carico di  Barile  Giuseppe  +  4,  imputati  dei  reati  di
 falsita'  ideologica  ed abuso di ufficio (artt. 110, 476, 323, comma
 2, c.p.)  commessi in Terlizzi il 4 dicembre 1992,  veniva  citato  a
 comparire  all'udienza  per  rendere l'esame il sig. De Sario Angelo,
 nella sua qualita' di indagato per i medesimi fatti nei cui confronti
 era stato richiesto all'esito delle indagini preliminari  e  disposto
 dal g.i.p.  il provvedimento di archiviazione ex art. 408 c.p.p.
   In  sede  dibattimentale  il De Sario si avvaleva dalla facolta' di
 non rispondere, riconosciutagli dall'art. 210, comma 4, c.p.p., ed il
 p.m. chiedeva che fossero acquisite  le  dichiarazioni  dallo  stesso
 rese  in  sede  di  interrogatorio  e  contenute  nel verbale redatto
 davanti al p.m.  in  data  27  gennaio  1993,  con  l'assistenza  del
 difensore dell'indagato.
   I    difensori    degli    odierni    imputati   non   consentivano
 all'acquisizione ed alla lettura  del  suddetto  atto,  a  mente  del
 disposto  dell'art.  513, comma 2, c.p.p. come sostituito dall'art. 1
 della legge 7 agosto 1997, n. 267,  di  immediata  applicabilita'  al
 processo in corso.
   Di  conseguenza  il  p.m.  ha sollevato questione di illegittimita'
 costituzionale della suddetta norma  per  contrasto  con  i  principi
 ricavabili dagli artt. 3, 97 e 112 della Costituzione.
   Argomenta  l'organo dell'accusa che e' manifestamente irragionevole
 e fonte di disparita' di trattamento tra  le  parti  in  un  processo
 penale  costringere il magistrato inquirente ad assumere, in forme di
 legge  vincolate  e  garantite,  atti  di  indagine   preliminare   e
 successivamente  rimettere  alla  mera volonta' del soggetto fonte di
 prova e/o dello stesso imputato  la  possibilita'  di  utilizzare  il
 materiale conoscitivo raccolto ovvero renderlo totalmente irrilevante
 ai   fini   dell'accertamento   della  verita'  processuale,  con  la
 conseguente possibile svalutazione di  elementi  probatori  che,  nel
 frattempo,  hanno imposto al p.m. di esercitare l'azione penale ed al
 g.u.p. di introdurre la fase dibattimentale, senza parlare  dei  casi
 in cui si siano adottate misure cautelari a carico degli imputati.
   Osserva  il  p.m.  che  siffatta situazione incide pesantemente sul
 buon andamento dell'amministrazione della giustizia, nel  momento  in
 cui  si  permette  di vanificare i risultati di un'indagine, che puo'
 essere stata anche  complessa  e  dispendiosa,  senza  consentire  di
 sottoporre   alla  valutazione  dell'organo  decidente  il  materiale
 probatorio raccolto, con evidente spreco di attivita' giudiziaria.
   Cio', oltretutto,  influisce  in  maniera  decisiva  sull'esercizio
 obbligatorio  dell'azione  penale,  nel  momento  in  cui  vi  e'  la
 possibilita'  che  muti,  in  maniera  non  prevedibile,  il   quadro
 processuale di riferimento.
   Nel  caso  di specie, inoltre, il p.m. rileva che, essendo stato il
 dibattimento gia' aperto nella prima udienza del giorno  15  febbraio
 1996,  ma  non  essendo  stato  ancora chiamato il De Sario a deporre
 (cosa che e' avvenuta, si ripete, per  la  prima  volta  nell'odierna
 udienza),  non  sarebbe  applicabile  ne' la norma transitoria di cui
 all'art. 6,  commi  2  e  5,  legge  n.  267/1997  (che  consente  di
 recuperare  a  certe condizioni il materiale probatorio di cui si sia
 in precedenza gia' data lettura in dibattimento), ne'  il  meccanismo
 previsto  dal  primo  comma  del  citato art. 6, posto che al momento
 dell'entrata  in  vigore  della  legge  novellatrice  la  fase  delle
 indagini  preliminari  e  la  stessa  fase  degli atti preliminari al
 dibattimento erano gia' esaurite con la conseguente impossibilita' di
 recuperare la prova con il ricorso all'incidente probatorio.
   Ha segnalato  ancora  il  p.m.  come  in  riferimento  al  disposto
 dell'art.    513  c.p.p. nella formulazione antecedente alla novella,
 fossero intervenute le sentenze della Corte costituzionale n. 254 del
 3 giugno 1992 e n. 60 del 24 febbraio 1995 che affermano principi  di
 cui il legislatore del 1997 non pare abbia tenuto debito conto.
   Alle  prospettazioni  del  p.m.  si  sono opposti i difensori degli
 imputati, chiedendo  che  questo  tribunale  dichiari  manifestamente
 infondata la questione incidentale di costituzionalita' sollevata.
   Osserva   il   collegio   che   la   questione   di  illegittimita'
 costituzionale sollevata dal p.m. e' rilevante e  non  manifestamente
 infondata.
   Sotto  il  primo  aspetto  si  rileva  che  il  diritto al silenzio
 esercitato dal De Sario Angelo e la  conseguente  impossibilita',  in
 assenza  dell'accordo delle parti, di utilizzare le sue dichiarazioni
 rese nel corso delle indagini preliminari impediscono di acquisire al
 processo una fonte di prova, emersa in modo rituale nel  corso  delle
 indagini e sottoposta al vaglio del g.u.p. ai fini della decisione in
 ordine  al  rinvio  a giudizio, e pertanto incidono sulla completezza
 dell'accertamento dei fatti oggetto delle contestazioni.
   Sotto il profilo della non manifesta infondatezza si rileva  quanto
 segue.
   Appare  ravvisabile  la violazione del principio di cui all'art.  3
 della  Costituzione  con  riferimento  alla  irragionevolezza   della
 disparita'  di  trattamento  fra  situazioni  processuali equivalenti
 giacche',  mentre  nel  caso  in  cui  il  testimone  si  rifiuti  di
 rispondere  possono,  ai  sensi del comma 2-bis dell'art. 500 c.p.p.,
 recuperarsi le sue  dichiarazioni,  viceversa  nel  caso  in  cui  il
 dichiarante  ex art. 210 c.p.p. (che sostanzialmente altri non e' che
 un testimone seppur fornito di particolari garanzie)  si  rifiuta  di
 rispondere, il recupero delle sue dichiarazioni non puo' avvenire che
 con l'accordo delle parti.
   Ne'  a  superare  la  perplessita'  di  cui  sopra  puo'  valere la
 considerazione che il dichiarante  ex  art.  210  c.p.p.,  in  quanto
 indagato  e/o imputato dello stesso reato o di un reato connesso, non
 puo' essere obbligato a rendere dichiarazioni a se'  pregiudizievoli,
 in  quanto  il principio per il quale nessuno puo' essere costretto a
 rendere  dichiarazioni  integranti  una  sua  responsabilita'  e'  di
 carattere  generale ed e' espressamente previsto per il testimone del
 comma secondo dell'art.  198 c.p.p.
   In altri termini, il dichiarante ex art.  210  c.p.p.,  allorquando
 riferisce  di  fatti riguardanti la responsabilita' di terzi, trovasi
 in una situazione perfettamente equiparabile a quella  del  testimone
 ed,  alla  luce  di  tanto,  la diversita' di disciplina in ordine al
 recupero delle sue dichiarazioni desta perplessita'.
   In  verita',  come  e'  agevole  comprendere,  cio'  che  viene  in
 discussione  e'  proprio "la facolta' di non rispondere" riconosciuta
 al dichiarante ex art. 210 c.p.p. con riferimento a  fatti  attinenti
 la  responsabilita'  di  terzi  ed,  apparendo tale facolta' fonte di
 disparita' di trattamento con  riguardo  all'omologa  situazione  del
 testimone,  il  collegio  ritiene  di  dovere  d'ufficio sollevare la
 questione di illegittimita' costituzionale anche dell'art. 210 c.p.p.
 per contrasto con l'art. 3 della Costituzione  nei  riflessi  che  lo
 stesso  provoca  sull'attuale  disciplina dell'art.   513 c.p.p. come
 novellato.
   Altra ipotesi di violazione dell'art. 3 della Costituzione,  sempre
 sotto  il  profilo di una irragionevole disparita' di trattamento fra
 situazioni  processuali  equipollenti,  si  ravvisa   con   specifico
 riferimento alla disciplina transitoria prevista dall'art. 6 legge n.
 267/1997  che  comporta  l'immediata applicazione del testo novellato
 dell'art.  513 c.p.p. ai giudizi di primo grado in corso nei quali il
 dichiarante venga esaminato dopo l'entrata in  vigore  della  novella
 (come  nel  caso  di  specie)  e  si  avvalga  della  facolta' di non
 rispondere, senza prevedere alcuna  normativa  di  salvaguardia  come
 quella  dettata  dai  commi  2 e 5 dell'art. 6 citato per il caso del
 dichiarante gia' esaminato  in  dibattimento  prima  dell'entrata  in
 vigore  della  legge,  e  cio' nonostante che il p.m. non abbia avuto
 alcuna concreta possibilita' di assicurare il mezzo di prova  con  il
 ricorso  all'incidente  probatorio,  essendo gia' esaurite le fasi in
 cui tale mezzo e' consentito.
   Parimenti violati, a parere di questo  collegio,  sono  i  principi
 sanciti  dagli  artt.  97 e 112 della Costituzione, di buon andamento
 dell'amministrazione  e   dell'esercizio   obbligatorio   dell'azione
 penale.
   E'   evidente  l'incongruenza  della  situazione  che  si  viene  a
 determinare  in  ordine  all'esercizio  dell'azione  penale  previsto
 obbligatoriamente dall'art. 112 della Costituzione: detta norma viene
 tradotta  in  pratica dal combinato disposto degli artt. 408 c.p.p. e
 125 disp. di att.  al c.p.p. che, nel prevedere che  il  p.m.  chieda
 l'archiviazione  tutte  le  volte  che ritenga di non avere materiale
 probatorio  sufficiente  per  sostenere  l'accusa  in   dibattimento,
 dimostra, per contrario, come detto organo sia obbligato a promuovere
 l'azione penale tutte le volte in cui disponga di tale materiale.
   Sicche'   la   sottrazione   anche  di  parte  di  detto  materiale
 probatorio,  rimessa  alla  semplice   volonta'   della   controparte
 processuale  ovvero  alla  facolta' di non rispondere di un soggetto,
 che potrebbe anche essere stato esposto a minacce o  altri  mezzi  di
 inquinamento  della  prova,  produce l'effetto di paralizzare ex post
 una iniziativa penale che  per  il  p.m.  aveva  costituito  un  atto
 doveroso,  cosi'  di  fatto  ponendosi  in contrasto con il principio
 costituzionale che logicamente comporta,  come  suo  corollario,  che
 l'organo  dell'accusa  sia  messo  nelle  condizioni  processuali  di
 validamente esercitare l'azione promossa.
   Tale irragionevole situazione viola anche in  maniera  evidente  il
 principio sancito dall'art. 97 della Costituzione in quanto determina
 un   rilevante   spreco   di  attivita'  amministrativa,  finalizzata
 all'espletamento  delle  indagini  e  all'introduzione  del  giudizio
 dibattimentale,   allorche'   tale   attivita'  venga  vanificata  in
 conseguenza della impossibilita' non prevedibile di poter  utilizzare
 una  fonte  di  prova  che  puo'  aver costituito il fondamento della
 stessa attivita' processuale.