IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la   seguente   ordinanza   sulla   questione   di
 legittimita'  costituzionale dell'art. 513 c.p.p., nella formulazione
 risultante dalle modifiche operate con l'art. 1, legge 7 agosto 1997,
 n. 267, per violazione degli artt. 2, 3,  24,  25,  101,  112  Cost.,
 sollevata  dal  pubblico  ministero all'udienza del 19 dicembre 1997,
 nel procedimento penale nei confronti di  Di  Giorgio  Tommaso  +  2,
 generalizzati in atti;
   Imputati dei reati di cui ai decreti che dispongono il giudizio.
   Premessa.
   Come  appreso dall'esposizione introduttiva del pubblico ministero,
 il presente procedimento, relativo a piu' associazioni  a  delinquere
 finalizzate   alla   commissione   di   numerose  rapine  e  connesse
 ricettazioni, trae la sua origine dallo sviluppo delle  dichiarazioni
 accusatorie  rese  da  originari  coimputati, gia' giudicati in altri
 procedimenti ed  attualmente  ammessi  dal  tribunale,  nel  presente
 procedimento,   quali   prove   orali   ritenute  rilevanti  ai  fini
 dell'accertamento dei fatti contestati.
   All'odierna  udienza  del  19  dicembre  1997   gli   imputati   di
 procedimento  connesso  Meschini Giulio e Catalano Nicola, sentiti ex
 art.  210  cpp,  si  avvalevano  entrambi  della  facolta'   di   non
 rispondere.   Il   p.m.      chiedeva   quindi  l'acquisizione  delle
 dichiarazioni dagli stessi rese nel corso delle indagini preliminari.
    Poiche'   nessuna   delle   parti   private   prestava    consenso
 all'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle
 indagini  preliminari  dai  due  citati  "collaboratori", il pubblico
 ministero chiedeva a questo tribunale di dichiarare rilevante  e  non
 manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
 della nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p.
   Sulla rilevanza.
   Tenuto conto della indicazione delle fonti di prova  contenuta  nel
 decreto  che dispone il giudizio, dei dati rappresentati dal pubblico
 ministero  nel  corso  della  relazione  introduttiva  nonche'  delle
 richieste  di  prova  dallo  stesso  formulate ai sensi dell'art. 493
 c.p.p. (e accolte dal tribunale con l'ordinanza ex art.  495  c.p.p.)
 appare  evidente la rilevanza della dedotta questione di legittimita'
 costituzionale  nei  limiti  in  cui  viene   riferita   alla   nuova
 formulazione  del  comma  2  dell'art.  513  c.p.p.,  trattandosi  di
 processo nel quale l'impianto accusatorio poggia in larga parte sulle
 dichiarazioni di soggetti che si trovano nelle  condizioni  descritte
 dall'art.  210  c.p.p.  Tali  dichiarazioni,  in  applicazione  della
 impugnata norma,  non  possono  trovare  ingresso  nel  dibattimento,
 stante  l'esercizio,  da parte dei dichiaranti, della facolta' di non
 rispondere, e l'assenza  dell'accordo  delle  parti  in  ordine  alla
 acquisizione  dei  verbali  delle dichiarazioni rese dai medesimi nel
 corso delle indagini preliminari.
   Sulla non manifesta infondatezza.
   E' avviso del Collegio che la norma impugnata abbia sostanzialmente
 ripristinato quel vizio di manifesta irragionevolezza cui  la  stessa
 Corte  costituzionale  aveva posto rimedio con la sentenza n. 254 del
 1992, attraverso la quale  era  stata  dichiarata  la  illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  513  comma  2 c.p.p. nella formulazione in
 allora vigente "nella parte  in  cui  non  prevede  che  il  giudice,
 sentite  le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni
 ...  rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste
 si avvalgano della facolta' di non rispondere".
   In quella occasione, la  Corte  osservo'  che  il  principio  guida
 dell'oralita'  deve  essere contemperato con l'esigenza di evitare la
 perdita ai  fini  della  decisione  di  quanto  acquisito  prima  del
 dibattimento  e  che in tale sede sia irripetibile, rimarcando che in
 tale   categoria   gia'   la   legge   delega   ricomprendeva   anche
 l'indisponibilita' dell'imputato all'esame.
   E  proseguendo  nella  strada  di  indicare principi costituzionali
 certi in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova, la
 Corte,  con   una   successiva   sentenza   (n.   255/92)   attribui'
 esplicitamente  rilievo costituzionale al "principio di conservazione
 della  prova",   osservando   che   "...   il   sistema   accusatorio
 positivamente    instaurato    ha   prescelto   la   dialettica   del
 contraddittorio    dibattimentale    quale    criterio    rispondente
 all'esigenza  di ricerca della verita'; ma accanto al principio della
 oralita' e' presente, nel nuovo  sistema  processuale,  il  principio
 della  non  dispersione  degli elementi di prova non compiutamente (o
 non genuinamente) acquisibili con il metodo orale ...".
   Ancora piu' di recente,  e  avendo  sempre  presente  il  principio
 secondo  il  quale  fine  centrale  del  processo e' la ricerca della
 verita', la Corte con la sentenza n. 179 del 1994, relativamente alla
 ipotesi, invero in tutto e per tutto analoga a quella che ci  occupa,
 dell'esercizio  della  facolta'  di  astenersi dal deporre, riservata
 dall'art.  199  c.p.p.  ai  prossimi  congiunti   dell'imputato,   ha
 confermato il proprio orientamento.
   Muovendo  da  una  fattispecie  concreta in relazione alla quale il
 giudice a quo  aveva  sollevato  la  questione  di  costituzionalita'
 reputando non applicabile la disciplina prevista dall'art. 512 c.p.p.
 nel  caso di prossimo congiunto che, dopo avere reso dichiarazioni in
 sede di indagini preliminari, si avvalga della citata  facolta'  solo
 in sede dibattimentale, la Corte dichiarava la questione non fondata,
 ricorrendo  ad  una  pronuncia  c.d.  "interpretativa di rigetto" che
 concludeva  nel  senso  che  "la  testimonianza  cosi'  acquisita  e'
 legittimamente,   e   soprattutto,   stabilmente  acquisita"  ed  "e'
 certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale
 legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita'
 di una successiva invalidazione da parte del teste, nel  caso  di  un
 suo  tardivo  esercizio  della  facolta'  di  astensione:  non esiste
 nell'ordinamento alcuna disposizione che autorizzi un'interpretazione
 del genere". Nell'impostazione del giudice delle  leggi,  dunque,  in
 casi  consimili,  e sebbene in presenza dell'esercizio di un diritto,
 si determina una "oggettiva  e  non  prevedibile"  impossibilita'  di
 ripetizione  dell'atto  dichiarativo.    La conclusione cui la citata
 sentenza perviene (ossia  la  lettura,  ex  art.  512  c.p.p.,  delle
 dichiarazioni  in  precedenza  rese)  si pone in linea con quello che
 deve essere senz'altro definito un caposaldo della elaborazione della
 giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice  di
 procedura  penale del 1988, secondo il quale occorre "contemperare il
 rispetto del principio dell'oralita' con  l'esigenza  di  evitare  la
 perdita,  ai  fini  della  decisione,  di  quanto acquisito prima del
 dibattimento e che sia irripetibile in tale sede".
   Del resto, diversamente  opinando,  l'oralita'  si  atteggerebbe  a
 principio  fine  a  se stesso, al quale verrebbe sacrificato lo scopo
 essenziale del processo penale, che - come  il  Collegio  non  reputa
 possa  revocarsi  in  dubbio - consiste nella ricerca della verita' e
 nella pronuncia di una giusta decisione. Per un elementare  principio
 di   civilta'  giuridica,  affermato  dalla  Corte  costituzionale  e
 divenuto  patrimonio  comune,  l'impossibilita'  di   consentire   la
 dispersione  della  prova  ha  imposto  al legislatore di prevedere e
 rendere  possibile  la  lettura  di  atti  formati   nelle   indagini
 preliminari,  allorche'  per quasivoglia ragione (che puo' consistere
 anche nel puro arbitrio del soggetto) l'atto non  sia  ripetibile  in
 dibattimento.
   E cosi', di fronte al testimone che opponga un irremovibile rifiuto
 di  testimoniare,  nell'alternativa  tra il disperdere la prova e non
 fare giustizia (id est: ricercare  la  verita'  e  pervenire  ad  una
 sentenza giusta) e valorizzare invece gli atti formati anteriormente,
 il  legislatore  ha  operato  questa  seconda  scelta, consentendo la
 lettura e quindi l'utilizzazione delle dichiarazioni rese.
   Orbene, anche nel caso delle  persone  indicate  nell'articolo  210
 c.p.p.  si  e'  in presenza di soggetti che nella fase delle indagini
 preliminari non si sono avvalse della facolta' di  non  rispondere  e
 che  hanno  esercitato  tale  diritto in dibattimento rendendo l'atto
 "oggettivamente e imprevedibilmente" irripetibile.
   Nemmeno risponde a logica che le  dichiarazioni  rese  in  fase  di
 indagini preliminari possano essere utilizzate tout court qualora non
 sia  possibile  ottenere  la presenza della persona in dibattimento o
 non sia  possibile  escuterlo  a  domicilio  o  con  altra  specifica
 modalita'  (art.  513 comma 2 prima parte) e invece occorra l'accordo
 delle parti qualora la persona si presenti in udienza  e  rifiuti  di
 rispondere (art. 513 comma 2 seconda parte).
   In   entrambi  i  casi  l'atto  e'  irripetibile  oggettivamente  e
 imprevedibilmente e  tanto  basta  perche'  in  armonia  ai  principi
 costituzionali  fissati  in materia dalla Corte (sentenza nn. 254/92;
 255/92; 179/94), il giudice se ne possa avvalere liberamente al  fine
 di  adempiere  il  precetto costituzionale racchiuso all'articolo 101
 comma 2 della Costituzione pervenendo a una sentenza giusta. Anche da
 questo punto di vista, la norma pecca di assoluta irragionevolezza.
   La norma impugnata appare altresi' in  evidente  contrasto  con  il
 disposto   dell'art.   101   comma   secondo   e   112  Cost.:  nella
 giurisprudenza  costituzionale  ormai  consolidata,  infatti,  i  due
 canoni finiscono per confondersi l'uno nell'altro, laddove portano ad
 affermare l'inesistenza di un pieno potere dispositivo delle parti in
 ordine alla prova.
   Invero,  la  Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare come il
 potere di decisione del giudice del  merito  della  causa  non  possa
 essere  vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere
 delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche
 immotivate, di costoro. E' evidente, infatti, come il precetto di cui
 all'art.  101  comma  secondo  Cost.  precluda  una   esasperata   ed
 estremistica  applicazione  del  principio  dispositivo  del processo
 penale, in ragione della indisponibilita' degli interessi pubblici  e
 delle  posizioni soggettive che di questo costituiscono l'oggetto; la
 disponibilita' della prova renderebbe disponibile, indirettamente, la
 stessa  res iudicanda. Come chiaramente affermato nella nota sentenza
 (sempre appartenente al genus delle interpretative di rigetto:  Corte
 cost.   n. 111/1993) relativa alla definizione del potere istruttorio
 suppletivo riservato al giudice dibattimentale dall'art. 507  c.p.p.,
 nel  nuovo  codice  di  rito "il metodo dialogico di formazione della
 prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti
 ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile  pieno
 accertamento,   e  non  come  strumento  per  far  programmaticamente
 prevalere  una  verita'  formale  risultante   dal   mero   confronto
 dialettico  tra  le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe
 risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che  discende
 dal  principio  di  legalita'  e  da  quel  suo  particolare  aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale".
   Se e' vero che un potere dispositivo della prova  nel  processo  e'
 negato  alle  parti, a maggior ragione cio' deve valere per chi, come
 le persone di cui all'art. 210 c.p.p., e' per definizione estraneo al
 processo nell'ambito del quale sia chiamato a rendere dichiarazioni.
   La norma impugnata, al contrario, consente di sottrarre  una  prova
 al   vaglio   dibattimentale,   a   seguito   di  un  atto  meramente
 discrezionale - e dunque potenzialmente immotivato  e  capriccioso  -
 compiuto  da un soggetto che neppure riveste la qualita' di parte del
 procedimento, come avviene nel caso in cui la  persona  esaminata  ex
 art.  210 c.p.p.  si avvalga della facolta' di non rispondere. A cio'
 il legislatore del 1997 ha ritenuto di dover aggiungere un  ulteriore
 sbarramento  all'ingresso  della fonte di prova, riservando (nel caso
 in cui il dichiarante, in sede dibattimentale, si sia  avvalso  della
 facolta'   di   non  rispondere)  la  possibilita'  di  acquisire  le
 precedenti dichiarazioni all'accordo (rectius, al  gradimento)  delle
 parti.
   Tali  scelte,  alla  stregua  della norma della cui legittimita' in
 questa  sede  il  Collegio  dubita,  condizionano  l'esercizio  della
 giurisdizione,  incidendo  in  misura determinante sulla liberta' del
 giudice,  nel  significato  che  tale  concetto  ha   assunto   nella
 giurisprudenza costituzionale.
   Conseguenze  che  non  vengono  scongiurate  dalla  previsione  del
 meccanismo  dell'incidente  probatorio  -  benche',  in  virtu'   del
 disposto  dell'art.    4, legge n. 267/1997, lo stesso sia esperibile
 indipendentemente dalla sussistenza dei  requisiti  previsti  in  via
 generale, dall'art.  392 c.p.p. - poiche' in tale sede resta comunque
 ferma la facolta' di non rendere dichiarazioni: e' evidente, percio',
 come   l'adozione   di   tale  meccanismo,  lungi  dal  poter  essere
 considerata alla stregua di "valvola di sicurezza"  del  sistema,  si
 riduca  alla  mera  anticipazione  dei  tempi di assunzione di quella
 prova,  senza  tuttavia  garantirne   l'effettiva   acquisizione   al
 processo.
   L'avere riservato alla insindacabile scelta del soggetto di rendere
 o  meno  dichiarazioni  e  alla  volonta'  delle parti processuali di
 consentire alla lettura  di  dichiarazioni  in  precedenza  rese,  ha
 finito   per   rimettere  nella  totale  disponibilita'  delle  parti
 l'ingresso  di  una  prova  nel  dibattimento  e,  in  definitiva,  a
 condizionare  l'esercizio  stesso  dell'azione  penale. Che e' quanto
 accaduto nell'odierna udienza quando tutti i  difensori,  preso  atto
 del  rifiuto  dei  dichiaranti  di  sottoporsi  all'esame,  non hanno
 consentito  alla lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni gia'
 rese.
   Si puo'  dunque  concludere,  con  le  parole  della  stessa  Corte
 costituzionale, che "ad un ordinamento costituzionale che sancisce il
 principio di obbligatorieta' dell'azione penale, ma e' prima di tutto
 improntato  alla  tutela  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo  ed al
 principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono
 consone norme di  metodologia  processuale  che  ostacolino  in  modo
 irragionevole   il   processo   di  accertamento  del  fatto  storico
 necessario per pervenire ad una giusta decisione" (cfr.  Corte  cost.
 n. 241/1994; nello stesso senso, gia' Corte cost. n. 111/1993).