IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
   Con reclamo avanzato ai sensi dell'art. 35, della legge  26  luglio
 1975,  n.  354  (cd.  ordinamento  penitenziario), pervenuto a questo
 ufficio il 13 ottobre 1997, il detenuto Pagano Massimiliano,  nato  a
 Rho  il  9  febbraio  1971, ristretto presso la casa di reclusione di
 Padova, lamentava che la direzione di tale istituto penitenziario non
 gli consentiva l'accesso alla stampa pornografica: le riviste vietate
 ai minori degli anni 16 o 18, speditegli  o  in  abbonamento  postale
 ovvero  da  parte  dei  familiari,  gli venivano infatti regolarmente
 "confiscate" dalla direzione.
    Analogo reclamo perveniva a questo ufficio in data 1 dicembre 1997
 da parte del detenuto Moschini Marco, nato a Bussolengo il 29  maggio
 1974, anch'egli ristretto presso la casa di reclusione di Padova: per
 motivi  di  connessione  oggettiva  i  due  reclami  venivano  dunque
 riuniti.
   Questo magistrato richiedeva allora le opportune informazioni  alla
 direzione dell'istituto di pena interessato.
   Con nota del 1 dicembre 1997, la direzione della casa di reclusione
 di  Padova,  trasmettendo a questo ufficio altra nota del 6 settembre
 1997 dalla stessa inviata  al  Ministero  di  grazia  e  giustizia  -
 Dipartimento  dell'amministrazione  penitenziaria,  deduceva  che  le
 riviste pornografiche  sarebbero  state  a  ragione  "trattenute"  in
 quanto  le  medesime non avrebbero potuto considerarsi come periodici
 in libera vendita per i seguenti testuali motivi:
     1) perche' sono vietate ai minori di anni 18;
     2) perche' la loro esposizione e' vietata ai sensi  dell'articolo
 unico, terzo comma, legge 17 luglio 1975, n. 355;
     3)  perche'  sono  esenti  da  responsabilita' solo i rivenditori
 dello stesso periodico e i librai.
   Unitamente alla nota in questione veniva  anche  trasmessa  lettera
 prot.  n.  545812  dell'11  settembre  1997,  con cui il Dipartimento
 dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio centrale detenuti affari
 generali rep. II, esprimeva condivisione per la lodevole  "iniziativa
 di   trattenimento"  delle  riviste  pornografiche  intrapresa  dalla
 direzione della casa di reclusione padovana.
   Questo magistrato deve ora decidere in  ordine  alla  fondatezza  o
 meno  del  sopra  citato  reclamo,  dovendo  -  all'evidenza  -  fare
 applicazione del disposto del sesto comma dell'art. 18 o.p.,  secondo
 cui  "i  detenuti e gli internati sono autorizzati a tenere presso di
 se' i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all'esterno
 e ad avvalersi di altri mezzi di informazione".
   Si tratta di decidere attorno ad una fattispecie incidente su  beni
 direttamente  ed  immediatamente  costituenti  oggetto  di protezione
 costituzionale (viene invero in  questione  l'applicazione  dell'art.
 21    della    Costituzione,    con    tutto   il   variegato   gioco
 interpretativo-applicativo, specialmente riferibile all'ultimo  comma
 della  norma  afferente  la  stampa  contraria al buon costume, quale
 derivante dal lento evolversi dell'abbondante mole di  giurisprudenza
 e   dottrina   formatesi   sul   punto,  anche  in  correlazione  con
 l'elaborazione della fattispecie delittuosa di cui all'art. 528 c.p.,
 come da ultimo lumeggiata dalle note pronunce della suprema  Corte  a
 sezioni unite).
   Ritiene  a  tal  proposito questo magistrato di sollevare d'ufficio
 una questione di  legittimita'  costituzionale  del  citato  art.  35
 dell'ordinamento penitenziario.
   Osserva  il  magistrato come - allo stato della vigente normativa -
 egli sarebbe tenuto a decidere il reclamo in questione con  procedura
 de plano.
   La  decisione sul reclamo e' infatti giurisdizionalizzata, ai sensi
 dell'art 69 dell'ordinamento penitenziario, solo in determinati  casi
 (tra cui non rientra quello oggi in esame), vale a dire nelle ipotesi
 in cui il reclamo medesimo concerna le materie indicate nelle lettere
 a)  e  b) del sesto comma della norma medesima (cioe' nei casi in cui
 il  reclamo  attenga   all'inosservanza   delle   norme   riguardanti
 l'attribuzione   della   qualifica   lavorativa,   la  mercede  e  la
 remunerazione, nonche' lo svolgimento delle attivita' di tirocinio  e
 di  lavoro  e  le  assicurazioni  sociali (lett. a), ovvero ancora la
 materia disciplinare (lett. b)).
   Accade, dunque,  che  allorche'  un  detenuto  lamenti  ad  esempio
 l'illegittimita'  dell'esercizio  dell'azione disciplinare esercitata
 nei suoi confronti (ad es.:  dolendosi  della  mancata  contestazione
 dell'addebito), la legge prevede la fissazione di un'apposita udienza
 avanti   il   magistrato  di  sorveglianza  in  funzione  di  giudice
 monocratico,  con  la  presenza  del  rappresentante   del   pubblico
 ministero  e  del  difensore,  cosi'  come  prevede  il  terzo  comma
 dell'art. 14-ter dell'ordinamento penitenziario (richiamato dal sesto
 comma dell'art. 69 o.p.): si incardina per tale via un vero e proprio
 giudizio, nel quale - oltre ad essere previsto l'intervento del  p.m.
 -  sia  l'interessato  sia  l'amministrazione  penitenziaria  possono
 presentare memorie giusta il disposto del terzo comma, seconda parte,
 del teste' citato art. 14-ter o.p.
   L'ordinanza che decide  tale  fase  di  giudizio  e'  espressamente
 dichiarata  impugnabile,  sia pure soltanto per cassazione, dal sesto
 comma dell'art.  69 o.p.
   Ebbene, ritiene  il  remittente  non  manifestamente  infondata  la
 questione  di  costituzionalita' dell'art. 69 o.p. nella parte in cui
 non prevede che la procedura di cui all'art. 14-ter o.p. si  applichi
 anche  nelle ipotesi in cui il reclamo del detenuto abbia ad oggetto,
 come avviene nel caso di specie,  la  dedotta  lesione,  immediata  e
 diretta, di un bene (o di un diritto) costituzionalmente garantito.
   Qui  si  deve decidere se il comportamento dell'amministrazione, la
 quale nega decisamente che sia diritto del detenuto tenere presso  di
 se'  stampa pornografica, e che anzi e' convinta che l'immissione nel
 circuito carcerario della medesima potrebbe configurare un reato, sia
 o meno legittimo: il comportamento dell'Amministrazione - che  appare
 ictu  oculi (a ragione od a torto: non interessa in questa fase) come
 immediatamente incidente su di un diritto costituzionalmente protetto
 - dovrebbe essere valutato  da  questo  magistrato  de  plano,  senza
 garanzie,  senza l'intervento della parte pubblica, nell'ambito di un
 procedimento degiurisdizionalizzato, il  quale  dovrebbe  concludersi
 con  la  pronuncia  di  una decisione da un lato inoppugnabile (cosi'
 Cass. pen., sez. I, 19 aprile 1997, n. 296,  in  CED),  e  dall'altro
 destinata  a  restar pressocche' lettera morta, dato che la legge non
 prevede nemmeno che la stessa debba assumere la forma  dell'ordinanza
 (contestandocisi - in dottrina - di ritenere che la medesima abbia il
 valore  di  una  sollecitazione all'amministrazione, utile soltanto a
 produrre una segnalazione alle  superiori  autorita'  gerarchiche  in
 caso  di inottemperanza, salva ed impregiudicata restando ovviamente,
 in questa sede,  la  piu'  generale  questione  degli  effetti  della
 decisione  del  magistrato  di sorveglianza sul reclamo, la quale non
 appare comunque porsi qui in termini diversi rispetto a quanto,  gia'
 non  avvenga  in relazione alle materie indicate nelle citate lettere
 a) e b) del sesto comma dell'art. 69 o.p.).
   Valuti dunque il giudice delle leggi se si ponga in  contrasto  con
 l'art.   3   della   Costituzione   un   sistema   che   prevede   la
 giurisdizionalizzazione del reclamo avente  ad  oggetto  materie  non
 sempre direttamente incidenti su beni od interessi costituzionalmente
 protetti  (quale tipicamente deve considerarsi l'esercizio del potere
 disciplinare intramurario), e che non prevede la medesima  necessita'
 nell'ipotesi,  ben  piu'  importante  e  di  spessore  giuridicamente
 strategico, in cui il magistrato di sorveglianza, per legge  preposto
 alla  tutela dei diritti del detenuto, sia chiamato a pronunciarsi su
 di una questione  rispetto  alla  quale  venga  invocata  la  lesione
 immediata e diretta di un diritto costituzionalmente protetto.
   Circa  la  posizione  del  magistrato di sorveglianza quale giudice
 preposto  per  legge  alla  tutela  dei  diritti   costituzionalmente
 garantiti del detenuto, quale nitidamente emergente anche da numerose
 pronunce  della  Corte  costituzionale,  non si puo' che rimandare in
 questa sede all'impegnativa ricostruzione operata nell'impianto della
 parte motiva della sentenza emessa  dalla  Corte  costituzionale  con
 sentenza 14-18 ottobre 1996, n. 351 (in Gazzetta Ufficiale, - 1 serie
 speciale - del 23 ottobre 1996, n. 43).
   Non sembra al remittente che si tratti di ipotizzare scelte rimesse
 alla  discrezionalita'  del  legislatore  o  di  apportare interventi
 additivi, ma di ricondurre a razionalita' un sistema  che  sembra  in
 parte   qua   inficiato  da  un'evidente  disparita,  tutelando  esso
 posizioni "deboli"  o  affievolite  in  maniera  assai  piu'  robusta
 rispetto  a situazioni "forti" senza che sia dato cogliere una valida
 ragione  discriminatrice  idonea  a  giustificare  la  diversita'  di
 trattamento.
   Si  potrebbe obiettare che la questione e' sollevata nell'ambito di
 un procedimento  la  cui  qualificazione  come  "giudizio"  in  senso
 tecnico    appare   discutibile:   ma   oggetto   del   sospetto   di
 incostituzionalita'  e'  proprio  che  questo  procedimento  non  sia
 considerato  dal legislatore un giudizio in senso tecnico, ragion per
 cui tale questione puo' a ragione  considerarsi  rilevante,  evidente
 essendo  che  -  in  caso  di  accoglimento  - il remittente dovrebbe
 osservare la procedura di cui all'art.  14-ter  o.p.,  disponendo  la
 comparizione  delle  parti,  dandone  avviso  al  p.m., decidendo con
 ordinanza ricorribile in cassazione, ecc.
   Non puo' del resto sottacersi come la  Corte  costituzionale  abbia
 spesso  esaminato e deciso questioni di costituzionalita' postele dal
 magistrato di sorveglianza nel corso "di giudizi" aventi  ad  esempio
 ad  oggetto  la  concessione  dei  permessi-premio previsti dall'art.
 30-ter o.p. (procedimenti, questi, del pari non  giurisdizionalizzati
 se  non  in  caso di successivo reclamo), superando implicitamente la
 questione dell'ammissibilita' di tali questioni siccome non sollevate
 nel corso di un "giudizio" in senso strettamente tecnico.
   La figura del magistrato di sorveglianza invece e' tutta imperniata
 sulla sua funzione di garante dei diritti: basterebbe citare, tra  le
 tante,  la  norma  di cui all'art. 69, quinto comma o.p., secondo cui
 tale magistrato approva  il  programma  di  trattamento,  ovvero,  se
 ravvisa   elementi  che  costituiscono  violazione  dei  diritti  del
 condannato o dell'internato, lo restituisce con osservazioni al  fine
 di  una  nuova  formulazione, ovvero ancora impartisce, nel corso del
 trattamento, disposizioni dirette ad eliminare  eventuali  violazioni
 dei diritti dei condannati e degli internati (di qui la posizione del
 tutto  anomala  che  tale  figura  di  giudice  assume  nei  riguardi
 dell'autorita' amministrativa, in una  prospettiva  che  si  pone  in
 termini  davvero  peculiari  rispetto  a  quelli contrassegnati dalla
 legge abolitiva del contenzioso amministrativo, la quale consente  la
 mera  disapplicazione  nel caso concreto dell'atto amministrativo che
 si reputi affetto da vizio di illegittimita').
   E' d'altronde troppo nota, per essere citata  in  questa  sede,  la
 crescente   tendenza   della   giurisprudenza  (sia  della  Corte  di
 cassazione sia della Corte costituzionale) a configurare  l'attivita'
 della  magistratura  di sorveglianza come rientrante nella nozione di
 giurisdizione vera e  propria,  sottraendola  dall'ambito  della  cd.
 amministrazione,  nelle  cui  secche  essa  e'  stata  troppo a lungo
 ingiustamente    relegata,    in    ossequio    ad   una   tradizione
 storico-culturale   che,   irrogata   la   pena,   voleva   riservata
 all'autorita'  amministrativa  (salvo  eccezioni) il completo governo
 della  fase  esecutiva,  di  talche'  quand'anche  era  prevista   la
 competenza  dell'allora  giudice  di  sorveglianza,  si  affermava la
 natura per l'appunto amministrativa della medesima.
   Se dunque si ritiene che il giudice naturale dei diritti  coinvolti
 nel  corso ed a causa del trattamento penitenziario sia il magistrato
 di sorveglianza, e non il giudice per cosi' dire ordinario (civile  o
 penale) ovvero quello amministrativo (ai quali in ipotesi si potrebbe
 ritenere  che il detenuto potrebbe rivolgersi), si deve convenire che
 la su prospettata questione - al di la'  del  profilo  procedurale  -
 assume valenza di tutto rilievo, toccando la medesima molto da vicino
 il  significato stesso che si voglia oggi attribuire a tale figura di
 magistrato.
   In caso di accoglimento infatti le decisioni assunte dal magistrato
 di sorveglianza in sede di  reclamo  avente  ad  oggetto  la  lesione
 (denunciata  come  immediata e diretta) di diritti costituzionalmente
 garantiti sarebbero precedute da  una  fase  giurisdizionale  vera  e
 propria   avente  le  garanzie  del  contraddittorio  costituirebbero
 oggetto di una vera e propria decisione in senso tecnico assunta  con
 la  forma  dell'ordinanza  (con  tutte  le  conseguenze  del  caso) e
 soprattutto   sarebero   ricorribili   presso   il   giudice    della
 nomofilachia:  con  la conseguenza che suprema Corte diverrebbe anche
 in questa materia garante dell'uniforme applicazione del diritto,  il
 che  oggi le viene invece precluso in radice da quella che si ritiene
 essere un'ingiustificata privazione in procedendo  il  cui  perdurare
 nel  sistema  ha  fin  qui  impedito  la  formazione  di un substrato
 giurisprudenziale di un qualche spessore in una materia  (quella  del
 rispetto   dei   diritti   fondamentali   del   detenuto  nell'ambito
 penitenziario) alla quale si fa purtuttavia sovente  riferimento  per
 giudicare il grado di civilta' di un popolo.