IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza (art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87) nel procedimento n. 235/1997 r.g., nei confronti di Giuseppe Falletta, Walter Perrucci e Sergio Ponzano citati a giudizio per rispondere dei delitti di usura e truffa, contestati come commessi "sino al 1 novembre 1990". Nell'ambito della propria esposizione introduttiva, il pubblico ministero ha fatto presente come il decreto di citazione a giudizio sia intervenuto il 5 novembre 1996; mentre in precedenza, e cioe' il 16 gennaio 1995, erano stati delegati al Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di finanza gli interrogatori degli imputati, poi tenutisi tra il 15 febbraio e il 17 marzo 1995. Ha quindi chiesto di sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 160, secondo comma, c.p., nella parte in cui annovera tra gli atti interruttivi della prescrizione il solo interrogatorio reso davanti al pubblico ministero e non invece quello reso davanti alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. La rilevanza della questione, quanto al primo dei reati contestati, e' subordinata alla risoluzione dibattimentale del problema degli effetti della successione di leggi e della novella (legge 7 marzo 1996, n. 108) che ha modificato l'art. 644 c.p., nonche' all'accertamento di fatto necessario all'eventuale applicazioen dell'art. 644-ter c.p. E' invece immediatamente rilevante per valutare la procedibilita' del reato di truffa semplice, punito con reclusione infraquinquennale e quindi soggetto a prescrizione nel termine di cinque anni, ai sensi dell'art. 157, primo comma, n. 4, c.p. Infatti, laddove si ritenesse la prescrizione utilmente interrotta dagli interrogatori delegati del febbraio-marzo 1995, varrebbe il termine di cui all'art. 160, terzo comma, c.p., mentre, escludendo l'efficacia interrutiva di quegli atti, si dovrebbe concludere che il decreto di citazione a giudizio e' intervenuto dopo la scadenza del termine ordinario di prescrizione del reato e dichiarare lo stesso estinto. La questione, rilevante per i motivi sopra esposti, appare anche non manifestamente infondata. La formulazione della norma, secondo cui interrompe la prescrizione "l'interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice" non consente interpretazione estensiva: l'individuazione specifica dei due soggetti "pubblico ministero" e "giudice" e' incompatibile con l'estensione del primo termine ad intendere l'"ufficio del pubblico ministero"; ed anche in tal caso rimarrebbe irrisolto il problema della valenza di attivita' delegate a soggetti appartenenti alla polizia giudiziaria ma non alle sezioni di polizia giudiziaria costituenti, esse sole, articolazione organizzativa delle procedure della Repubblica. Ritiene per contro questo giudice che, in materia di interruzione della prescrizione, la distinzione tra l'altro compiuto diriettamente dal pubblico ministero e quello delegato alla polizia giudiziaria, ricavabile dal testo dell'art. 160, secondo comma, c.p., contrasti con gli artt. 3, 112, 109, 24, secondo comma, della Costituzione. Il codice di procedura penale omologa l'interrogatorio compiuto dal pubblico ministero a quello compiuto dal delegato ai sensi dell'art. 370 c.p.p.; identiche sono, nell'espletamento dell'atto, le garanzie difensive, identici gli effetti processuali. La Corte adita, con sentenza n. 60 del 24 febbraio 1995, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il giudice disponesse - ricorrendone le condizioni - la lettura dei verbali delle dichiarazioni dell'imputato assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero; con argomentazione cui si ritiene di poter fare richiamo, la Corte assumeva come "del tutto priva di razionale giustificazione una disciplina (...) che determina una disparita' nel regime di utilizzazione processuale tra interrogatorio diretto e interrogatorio delegato, in deroga al criterio (...) della assimilazione, anche sotto tale profilo, tra atti diretti ed atti delegati". Non vi sono, ad avviso del rimettente, motivi per pervenire ad apposta conclusione laddove si debba considerare non l'effetto endoprocessuale dell'atto, bensi' l'effetto sulla procedibilita'. D'altro conto l'insieme degli atti interruttivi della prescrizione nei quali si concreta la manifestazione di volonta' punitiva non coincide con l'insieme degli atti di esercizio dell'azione penale, riservati all'autorita' giudiziaria, come risulta dall'elencazione contenuta nel secondo comma; e pertanto da tale novero dobrebbe rimanere escluso l'interrogatorio reso davanti a delegato solo se si ritenesse che l'atto interruttivo della prescrizione deve necessariamente promanare dall'autorita' giudiziaria. Sembra, al contrario, di poter affermare che l'articolazioen delle attivita' del pubblico ministero; resa necessaria dalla natura e misura dei compiti attribuiti a quell'organo, implichi la gia' richiamata omologazione degli effetti degli atti, che, laddove irragionevolmente negata o sottoposta a limiti non espressivi di pari valore costituzionale, comprometterebbe l'esercizo (obbligatorio) dell'azione penale: cosi' avverrebbe nel caso in cui fosse necessario richiedere l'archiviazione per estinzione di un reato - anziche' esercitare l'azione penale - per il solo fatto che il pubblico ministero non ha personalmente svolto l'interrogatorio. Inoltre, se l'autorita' giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, risulta incostituzionale (in quanto svuota di significato il dettato dell'art. 109 Cost.) negare all'autorita' giudiziaria - in specie al pubblico ministero - la possibilita' di conseguire un effetto procedimentale mediante un atto legittimamente delegato alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 370 c.p.p. Va certamente ricordato che la Corte, pronunciandosi in materia di atti interruttivi della prescrizione, ha ritenuto insindacabile la scelta discrezionale del legislatore di escludere un atto dall'elencazione tassativa di cui all'art. 160 c.p. (Corte costituzionale 21 novembre 1973, n. 155, in tema di comunicazione giudiziaria); ed ha dichiarato inammissibile la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 160 c.p. proposta in forma tendente ad ottenere una pronuncia additiva in materia penale (Corte costituzionale 23 aprile 1993, n. 188, in tema di richiesta di emissione di decreto penale di condanna). Tuttavia, nel caso di specie, gli ipotizzati profili di illegittimita' costituzionale paiono piuttosto derivare da mera incoerenza tra gli interventi del legislatore di modifica dell'art. 160 c.p. (d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271) e successivamente, dell'art. 370 c.p.p. (d.-l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 7 gosto 1992 n. 356); sicche' pare a questo giudice che l'obiettivo incertezza della norma, non risolubile sul piano della mera interpretazione nei limiti cui questa e' affidata al giudice ordinario, ridondi a danno dell'indagato (in violazioen dell'art. 24, secondo comma, Cost.), allo stato della legislazione non in grado di conoscere gli effetti dell'interrogatorio delegato, razionalmente, ma non testualmente, da considerarsi interruttivo della prescrizione. Laddove questa premessa fosse condivisa dalla Corte, pari a decisivo valore avrebbero l'accoglimento dell'eccezione ovvero una sentenza interpretativa di rigetto. Anche a questo fine, sembra utile richiamare la posizione dogmatica (risalente a Carnelutti, Estinzione del reato a accertamento negativo del reato estinto riv. dir. proc., 1950, I, 211) che attribuisce natura giuridica processuale alla prescrizione, come condizione di improcedibilita', sulla base della permanenza di effetti giuridici del reato dichiarato "estinto per prescrizione"; su questa base si puo' quantomeno dubitare della ascrivibilita' al diritto penale sostanziale dell'insieme degli atti interrutivi di cui all'art. 160 c.p., meglio qualificabili come atti di impulso processuale intesi a dar corso al procedimento penale per mantenere integra la potesta' punitiva dello Stato prima dell'intervento degli effetti estintivi di cui all'art. 157 c.p., con conseguente possibilita' di revisione della ricognizione di confini dei propri poteri effettuata dalla Corte con la citata ordinanza n. 188/1993.