IL TRIBUNALE Decidendo sull'atto di appello ex art. 310 c.p.p., presentato il 18 dicembre 1997 dal pubblico ministero presso il tribunale di Brindisi avverso l'ordinanza del 9 dicembre 1997 con cui il giudice dell'udienza preliminare presso quel tribunale ha disposto la revoca della misura della custodia cautelare in carcere alla quale era sottoposto Tedesco Nicola, nato a Brindisi il 19 giugno 1963; Esaminati gli atti del procedimento, trasmessi dall'autorita' giudiziaria procedente e qui pervenuti il 27 dicembre 1997; Sentite le parti nell'odierna udienza in camera di consiglio, osserva quanto segue. Il Tedesco e' stato sottoposto una prima volta alla misura della custodia cautelare in carcere in esecuzione dell'ordinanza emessa il 15 aprile 1997 dal g.i.p. presso il tribunale di Brindisi nel procedimento n. 2844/96 r.g.n.r. nel quale era indagato per aver partecipato ad un'associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri provvedendo a riciclare gli illeciti capitali prodotti dal contrabbando depositandoli presso banche con richiesta di emissione e/o di rimborso di certificati di deposito al portatore e/o di libretti di deposito e/o di titoli di Stato (capo d'imputazione BC), nonche' per un tentativo di riciclaggio di quel danaro concretizzatosi nel formulare richieste di emissione di certificati di deposito presso la filiale di Brindisi di un istituto di credito (capo BD). Successivamente, in esecuzione di una seconda ordinanza emessa dal medesimo g.i.p. il 28 giugno 1997 nel procedimento n.2844/96 r.g.n.r. (ma sulla base degli atti di indagine in gran parte eseguiti in altro procedimento, recante il n. 1093/97 r.g.n.r.) e' stata disposta nei confronti del Tedesco l'applicazione della stessa misura della custodia cautelare in carcere in relazione ai reati di cui il riciclaggio di danaro proveniente dai delitti di contrabbando di tabacchi lavorati esteri e di estorsione aggravata, mediante il compimento di una serie di operazioni bancarie (capi A, B) ovvero mediante l'acquisto di due motobarche (capo C). Con provvedimento emesso il 9 dicembre 1997 nel corso dell'udienza preliminare il giudice, sostenendo l'esistenza di una connessione ex art.12, lett. b), c.p.p., tra i reati contestati con le due distinte ordinanze, ha ritenuto la configurabilita' di una ipotesi di "contestazione a catena" ai sensi dell'art. 297, comma 3, c.p.p. e, di conseguenza, ha ordinato l'immediata scarcerazione degli sindacato stabilendo che il termine di custodia per i fatti contestati con la seconda ordinanza era di corso dalla data di esecuzione della prima (29 aprile 1997) e, quindi, era scaduto il 29 ottobre 1997 (data in cui la misura disposta per i primi fatti aveva perso efficacia). Avverso tale decisione ha proposto appello il p.m. chiedendo il ripristino della misura cautelare, sostenendo che tra i delitti oggetto di due provvedimenti coercitivi non vi sarebbe alcun nesso di continuazione e, comunque, che la seconda ordinanza del 28 giugno 1997 riguarderebbe i fatti accertati dagli inquirenti in epoca successiva all'emissione della prima ordinanza del 15 aprile 1997: quindi non erano desumibili dagli atti acquisiti all'epoca dell'adozione di questa iniziale decisione cautelare. Sulla base di una cognizione degli atti trasmessi che, in questa sede, non puo' che essere necessariamente sommaria, ritiene il tribunale che esiste una connessione ex art. 12, lett. b), c.p.p., tra i delitti contestati al Tedesco con la prima ordinanza e quelli riportati nella seconda ordinanza. E' evidente, infatti, come la parziale identita' degli autori delle operazioni di riciclaggio del denaro, la provenienza di tale denaro, per la gran parte costituente il profitto dell'indicata attivita' di contrabbando, ma soprattutto le modalita', sostanzialmente sempre analoghe, di compimento di quelle operazioni - concretizzatesi in una serie di atti di investimento, sostituzione e trasferimento di danaro tesi ad ostacolare eventuali accertamenti sulla relativa provenienza delittuosa - rappresentano circostanze che inducono fondatamente a ritenere che tali reati furono tutti commessi dal Tedesco in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Programma unitario avente come fine quello di riciclare gli illeciti capitali prodotti principalmente dalla lucrosa attivita' di contrabbando, riciclaggio realizzato, di regola, mediante l'acquisto di certificati di deposito bancari o l'apertura di libretti di deposito, quindi attraverso procedimenti che avrebbe dovuto garantire la "pulitura dal denaro sporco", ma anche mediante l'investimento di tale danaro in una s.r.l. partecipata dal D'Oriano (coimputato del Tedesco) oppure con l'acquisto di imbarcazioni da destinare, quali beni strumentali, all'esercizio una specifica attivita' d'impresa. Sul punto non appaiono condivisibili le valutazioni dell'appellante circa le differenti concrete modalita' di impiego di quel danaro, diversita' che - secondo il p.m. - sarebbe indicativa di distinti programmi delittuosi: ed invero e' proprio la scelta fatta dal p.m. di contestare, con la seconda ordinanza, il reato di riciclaggio di cui all'art. 648-bis c.p. invece che quello - pure astrattamente configurabile - di impiego in attivita' economiche di danaro di provenienza illecita di cui al sotto successivo art. 648-ter, e' un dato sintomatico della identita' del fine, quindi dell'unicita' del disegno criminoso cui poi riferire le singole iniziative delittuose ascritte al Tedesco. Riconosciuta la sussistenza di una connessione per continuazione tra tali reati sembrerebbe corretta la decisione adottata dal primo giudice a norma dell'art. 297, comma 3, c.p.p., perche' in effetti, al momento della emissione nei confronti del Tedesco della seconda ordinanza cautelare, non era ancora intervenuto il rinvio a giudizio per reati oggetto della prima ordinanza: con la conseguenza che dovrebbe trovare l'applicazione la disciplina dettata nel primo periodo del citato comma 3 che prevede il principio dell'automatica retrodatazione della decorrenza del termine di durata della misura cautelare disposta con il secondo provvedimento. Una piu' attenta esegesi dell'art. 297, comma 3, c.p.p. mette, pero', in luce delle palesi incongruenze, idonee a determinare ingiustificate disparita' di trattamento in situazioni analoghe ovvero a provocare una uniformita' applicativa in casi profondamente diversi: norma, quindi, di cui e' fondato ritenere la illegittimita' perche' in contrasto con il principio di ragionevolezza garantito dall'art. 3 della Carta costituzionale. Il comma 3, dell'art. 297 del codice di rito disciplina - come e' noto - l'istituto cosi' detto della "contestazione a catena" o della "contestazione a grappolo", prevedendo una deroga alla regola generale, vigente in materia cautelare, dell'autonoma decorrenza dei termini di durata delle misure disposte con distinti provvedimenti: norma derogatrice e con la quale sia voluto contrastare il fenomeno dell'inammissibile prolungamento dell'efficacia delle misure cautelari dovuto all'artificioso frazionamento nel tempo degli interventi in relazione a fatti-reato diversi ma collegati tra loro e, soprattutto, gia' accertati nei loro elementi costitutivi fin dal momento dell'emissione della prima ordinanza. La previsione della retrodatazione della decorrenza della durata della misura cautelare applicata con un provvedimento di cui sia stata ritardata l'adozione, e che invece poteva essere messo fin dall'epoca in cui era stata adottata una precedente ordinanza per fatti "connessi", ha la finalita' di porre rimedio a possibili abusi - volontari o meno - dell'autorita' giudiziaria. Tale articolo e' stato modificato dall'art. 12 della legge n. 332 del 1995 con l'introduzione di una disposizione che distingue nettamente l'ipotesi in cui le due - o piu' - ordinanze cautelari (concernenti lo stesso fatto o fatti connessi ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. b) e c), limitatamente ai casi di reati connessi per eseguirne altri) siano state emesse, nei confronti della stessa persona, tutte nella fase delle indagini, dall'ipotesi in cui per i reati oggetto della prima ordinanza sia gia' intervenuto il rinvio a giudizio: nel primo caso e' prevista l'operativita' senza alcun correttivo o riserva, del principio della retrodatazione, con la conseguenza che il termine di durata della misura applicata con la successiva ordinanza decorre dalla data di esecuzione o notifica della prima ordinanza; nel secondo caso, invece, la retrodatazione non si verifica laddove risulti che i fatti oggetto dell'ordinanza posteriore non erano desumibili dagli atti del processo prima del rinvio a giudizio per i reati di cui all'ordinanza anteriore. E' pacifico che l'intendimento della novella del 1995 sia stato quello di garantire le ragioni dell'indagato, nella convinzione che per assicurare una maggiore e piu' efficace tutela della sua liberta' personale fosse necessario stabilire in maniera precisa gli ambiti applicativi della disciplina codicistica della durata della custodia cautelare: al fine cosi' di evitare che, con regole dai contorni discutibili ed indeterminati, potessero rimanere margini inammissibili forme di frazionamento nel tempo degli interventi cautelari. Ci si sarebbe pero' attesi che il legislatore, facendo "tesoro" dei piu' attenti ed accreditati orientamenti esegetici offerti dalla giurisprudenza di legittimita' (reiterati anche nelle piu' recenti pronunce della suprema Corte: si vedano, tra le altre, Cass., sez. I, 23 marzo 1996, Grimaldi; Cass., sez. VI, 29 agosto 1996, Tommaso; Cass., sez. V, 25 marzo 1997, Foria; Cass., sez. I, 7 maggio 1997, Schettini; Cass., sez. VI, 14 maggio 1997, Ametrano; e Cass., sez. V, 24 luglio 1997, Burgio), valorizzasse il principio della esistenza e "rilevabilita'" degli indizi posti a fondamento della successiva ordinanza cautelare gia' all'epoca della richiesta o della emissione della precedente ordinanza, l'unico principio che puo' legittimare una deroga cosi' pregnante alla citata regola generale della autonoma decorrenza di titoli cautelari: poiche' solo se quegli indizi erano gia' rilevabili - e cioe' solo gli stessi erano gia' a disposizione dell'autorita' giudiziaria - si puo' sostenere che nei confronti dell'indagato doveva essere emesso fin dall'origine un unico provvedimento cautelare e che, percio', la decorrenza del termine di durata di una misura disposta con una successiva ordinanza deve essere retrodatata al momento della esecuzione o della notificazione della prima. Il legislatore del 1995, invece, distinguendo i due casi innanzi delineati (corrispondenti alle ipotesi rispettivamente descritte nella prima e nella seconda parte del piu' volte citato comma 3) ha adottato una soluzione poco comprensibile: per un verso escludendo qualsivoglia valore del criterio della "rilevabilita'" quando le due o piu' ordinanze vengono emesse, per fatti "connessi", tutte nella fase delle indagini preliminari o, comunque, prima che per taluni dei delitti contestati sia intervenuto il rinvio a giudizio; per altro verso ammettendo la operativita' di quello stesso criterio laddove per i reati oggetto della prima ordinanza sia appunto intervenuto il rinvio a giudizio. Aspetti questi che appaiono entrambi carenti di quella ragionevolezza che deve assistere tutte le scelte del legislatore, anche se di natura ed a contenuto tendenzialmente discrezionale. Ed infatti la disciplina contenuta nel primo periodo dell'art. 297, comma 3, negando in assoluto la possibilita' di una verifica dell'esistenza di una tempestiva iniziativa ovvero di una censurabile inerzia o di un colpevole ritardo del p.m. nel richiedere l'adozione di una misura cautelare per fatti diversi "connessi" a quelli gia' contestati con una precedente ordinanza, finisce per fondare la sua ratio - come acutamente sottolineato da alcuni commentatori - su una inammissibile presunzione di indebito prolungamento della custodia cautelare. Di talche' retrodatare, sempre e in ogni caso, al momento della esecuzione o della notifica della prima ordinanza la decorrenza del termine di custodia cautelare per reati "connessi", oggetto di una successiva ordinanza, determina una inaccettabile parificazione tra situazioni profondamente differenti: quelli in cui il p.m. pur disponendo fin dall'origine negli elementi per contestare tutti i reati - tra loro "connessi" nel senso innanzi precisato - configurabili a carico di uno stesso indagato, abbia "diluito" nel tempo i vari interventi cautelari, rispetto alla situazione del p.m. che abbia scoperto nuovi elementi indiziari concernenti taluni reati in epoca sicuramente successiva alla presentazione della richiesta di emissione della precedente ordinanza cautelare, avente ad oggetto altri reati "connessi". Trasferendo il risultato di tali considerazioni il caso di specie - anche allo scopo di evidenziare la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale che il tribunale intende sollevare - appare chiaro quanto inique siano le conseguenze di una pedissequa applicazione della regola in esame: posto che, come si evince dagli atti a disposizione, il 14 giugno 1997 il p.m. si determino' a chiedere al g.i.p. l'applicazione nei confronti del Tedesco della misura della custodia cautelare in carcere (applicazione poi disposta con la ordinanza emessa il 28 giugno 1997) sulla base dei risultati di una serie di indagini cui lo stesso p.m. ha dimostrato aver avuto contezza solo nel maggio dello stesso anno, quindi posteriormente alla data di richiesta (28 marzo 1997), ed anche di quella di emissione (15 aprile 1997), della prima ordinanza cautelare attinente reati riconosciuti connessi per continuazione agli altri. Retrodatare la decorrenza della durata della seconda misura cautelare "automaticamente" e senza tenere in alcuna considerazione l'innanzi tratteggiata ricostruzione cronologica (sintomatica della tempestivita' e correttezza delle scelte fatte dal p.m.), significa parificare ingiustificatamente tale situazione a quella - ipotetica - del p.m. che, avendo fin dall'inizio tutti gli elementi per operare una contestazione unitaria di tutti i reati, avesse frazionato nel tempo gli interventi cautelari. Retrodatazione che, peraltro, finisce per sacrificare in maniera inammissibile le esigenze cautelari che si e' reputato di soddisfare con l'emissione della seconda ordinanza, la cui efficacia viene ex lege limitata nel tempo e persino negata laddove - per ipotesi - sia gia' decorso il termine di durata della misura disposta con il precedente provvedimento cautelare. Altrettanto irragionevole e' la disciplina contenuta nel secondo periodo dell'art. 297, comma 3, li' dove la deroga all'operativita' del principio della retrodatazione e' stata ancorata al "limite oggettivo ed ineludibile" dell'intervenuto rinvio a giudizio per i reati "connessi" di cui alla prima ordinanza cautelare. Soluzione questa che, ispirata si' al tentativo di fissare il riferimento ad un ben preciso momento del procedimento, appare invero poco comprensibile: tanto piu' ove si rammenti che il rinvio a giudizio - facendo decorrere per i relativi reati un nuovo termine di "fase" di durata della custodia cautelare, ex art. 303, primo comma, lette. b), c.p.p. - rende meno sentita l'esigenza di impedire artificiosi prolungamenti della durata di efficacia delle misure cautelari dovuti all'emissione ritardata di nuove ordinanze. Sicche' non si capirebbe perche', intervenuto il rinvio a giudizio, venga riconosciuto comunque al giudice la facolta' di verificare la desumibilita' dei "nuovi" fatti-reato dagli atti gia' acquisiti prima di quel momento. Senza dire - e questa appare riflessione dagli effetti decisivi - che e' ben possibile che la misura disposta con riferimento ai reati per i quali viene emesso il decreto di rinvio a giudizio, sia stata gia' revocata o abbia perso altrimenti efficacia: come si e' verificato nel caso del Tedesco il quale, alla data di svolgimento dell'udienza preliminare (9 dicembre 1997, era stato gia' formalmente scarcerato con riferimento alle imputazioni contestategli con il primo provvedimento coercitivo del 15 aprile 1997 che, eseguito il 29 aprile 1997, aveva perso efficacia il 29 ottobre 1997. A cio' si aggiunga che il discrimine individuato dal legislatore con riferimento al momento del rinvio a giudizio invece che fornire maggiori garanzie all'imputato, comporta maggiori incertezze (quindi possibili abusi, consapevoli o meno) in quanto correlato alla scelta del p.m., sostanzialmente insindacabile, di chiedere il rinvio a giudizio per alcuni dei piu' reati "connessi". Cosi', ad esempio, nel caso di specie il p.m. avrebbe potuto "aggirare" l'ostacolo posto dall'art. 297, comma 3, chiedendo e ottenendo il rinvio a giudizio del Tedesco per i reati allo stesso contestati con l'ordinanza cautelare del 15 aprile 1997, prima che emergessero i gravi indizi per gli altri reati "connessi", e quindi prima di chiedere nei riguardi del medesimo imputato l'immissione di una seconda ordinanza cautelare che avrebbe avuto una autonoma decorrenza del termine di efficacia: situazione questa tutt'altro che ipotetica, tenuto conto che nella fattispecie la seconda ordinanza del 28 giugno 1997 e' stata adottata nei confronti del solo Tedesco e di un suo coindagato sulla base dei risultati di indagine emersi in epoca successiva al 15 aprile 1997 in altro procedimento (il n. 1093/97 rgnr) e poi - con apprezzabile correttezza - fatti confluire dal p.m. nel procedimento principale recante il n. 2844/96. In tale ottica sembra lecito dubitare della rispondenza ai parametri dell'art.3 della Carta costituzionale della norma contenuta nell'art. 297, comma 3, c.c.p., ed in specie della parte finale di tale norma in cui e' prevista una deroga al principio della automatica retrodatazione per le "ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione": laddove sarebbe piu' plausibile ammettere la inoperativita' di quel principio di retrodatazione per le "le ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima della presentazione della richiesta di applicazione di una misura cautelare disposta per il fatto con il quale sussiste connessione". E' appena il caso di aggiungere che e' ben nota a questo giudice l'esistenza di una precedente sentenza (la n. 89 del 25-28 marzo 1996) con la quale la Corte costituzionale ha gia' dichiarato la infondatezza di una analoga questione di legittimita' costituzionale. Cio' pero' non sembra possa ostacolare una nuova verifica della fondatezza della esposta questione sia perche' la struttura motivazionale di quella sentenza, pur partendo da validissime premesse di carattere generale, giunge - come e' stato posto in risalto anche da autorevoli commentatori - a conclusioni davvero poco convincenti; sia perche' nella presente ordinanza sono contenuti spunti di valutazione (come quelli concernenti il richiamo al momento del rinvio a giudizio) assenti nel provvedimento di remissione con il quale venne a suo tempo sollecitato quell'intervento della Consulta. Non va infine trascurato che questa sentenza e' stata adottata dalla Corte costituzionale quasi due anni fa, sicche' sarebbe opportuna una rivisitazione della materia pure alla luce delle argomentazioni contenute nelle pronunce nel frattempo emesse dalla Corte di cassazione. E', ad esempio, significativa la sentenza adottata delle sezioni unite il 25 giugno 1997 nel processo Atene (segnalata anche nell'odierno appello) nella quale, risolvendo il conflitto giurisprudenziale circa l'applicabilita' della disciplina della "contestazione a catena" nel caso di reati "connessi" scoperti in procedimenti diversi, pur con affermazioni di natura incidentale sono stati formulati principi di diritto che in sostanza sembrano confermare la validita' delle considerazioni sopra esposte. In particolare la suprema Corte scegliendo una impostazione esegetica tesa alla individuazione della ratio dell'intera disposizione in esame, ha sostenuto che "la desumibilita' dagli atti espressamente richiamata nel secondo periodo del comma 3, (costituisce) criterio applicativo dell'intera previsione del comma 3, dell'art. 297, ad essa conferendo razionalita' e certezza, e nel contempo costituisce garanzia verso applicazioni improntate ad un irragionevole automatismo"; ed ancora come "la desumibilita' degli atti (...) ai fini dell'applicazione del disposto di cui al secondo periodo del comma 3, deve farsi risalire ad epoca anteriore al "disposto" rinvio a giudizio - che segna il termine massimo di fase ai sensi dell'art. 303, comma 1, lett. b) - cosi' la desumibilita' dagli atti di cui al primo periodo della citata norma deve essere riferita ad epoca anteriore alla emissione della prima ordinanza cautelare. Altrimenti verrebbe meno la ratio dell'intera disposizione, ed il tutto risulterebbe davvero affidato ad un paradossale ed irragionevole automatismo. D'altra parte, e sempre in linea con il dato letterale e con il significato complessivo della norma rispetto alla sua finalita', appare evidente che le situazioni apprezzabili come presupposti per l'emissione delle successive ordinanze, la cui efficacia va retrodatata, debbano avere caratteristiche e consistenza tali da legittimare l'adozione della misura cautelare sin dall'epoca della prima ordinanza. Non e' sufficiente, pertanto, che, entro i limiti temporali di cui al primo e al secondo periodo del comma 3, dell'art. 297, sia stata acquisita risulti dagli atti la mera notizia del fatto-reato, essendo invece indispensabile che sussista il quadro legittimante l'adozione della misura cautelare sin dall'epoca dell'emissione della prima ordinanze, ovvero dall'epoca del rinvio a giudizio (...)". La questione di legittimita' costituzionale e' chiaramente rilevante nel caso di specie poiche' dal riconoscimento della sua fondatezza deriverebbe l'accoglimento dell'appello proposto dal p.m. e, quindi, il ripristino della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti del Tedesco.