IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza premesso che a seguito di decreto che dispone il giudizio del g.i.p. in sede Gagliardi Francesco, Rusciano Rosario, Casagrande Gianfranco, Oliva Nicola, D'Argenio Angelo, Pica Ciamarra Massimo, Guglielmi Michele, D'Ambrosio Ciro, Rinauro Aldo, Martino Arcadio, Bassolino Dario, Del Deo Giovanni, Civiletti Giovanni, Arnese Salvatore, Antonucci Raffaele, Schiano Ernesto, Corsi Giorgio, Scalzone Federico, Ferlaino Corrado, Boldoni Guido, Perrella Leonida, Di Falco Agostino, Buontempo Eugenio e Visconti Luigi venivano rinviati a giudizio innanzi a questa III sezione penale del tribunale di Napoli per rispondere, in concorso tra loro, dei delitti di cui agli art. 323 e 319 c.p. All'udienza del 25 giugno 1996, il tribunale, sentite le parti, ammetteva le prove orali e documentali richieste tra cui l'esame degli imputati in procedimento connesso o collegato ex art. 210 c.p.p. di cui alla liste ritualmente depositate. All'udienza del 4 novembre 1997, il p.m. disponeva la citazione ex art. 210 c.p.p. di Brancaccio Bruno ma questi, ai sensi dell'art. 513 c.p.p., come novellato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, si avvaleva della facolta' di non rispondere. Non avendo i difensori prestato il loro consenso all'acquisizione delle dichiarazioni rese dal Brancaccio nel corso delle indagini preliminari, il p.m. sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. come modificato dall'art. 1 legge n. 267/1997. O s s e r v a Le sollevate questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., come modificato dall'art. 1 legge n. 267/1997, sono rilevanti ai fini della decisione del presente giudizio e non appaiono manifestamente infondate. In ordine al profilo della "rilevanza", esso nel caso che occupa appare incontestabile sol che si consideri che l'esame del Brancaccio e' gia' stato ammesso da tribunale quale mezzo di prova, avendo le sue dichiarazioni al p.m. dato l'avvio alle indagini e avendo esse trovato conforto nelle dichiarazioni di numerosi altri imputati di reato connesso, la cui citazione, pure e' stata disposta a norma dell'art. 210 c.p.p. Ora, essendosi il Brancaccio avvalso della facolta' di non rispondere, l'acquisizione nel fascicolo del dibattimento delle sue dichiarazioni e' subordinata, secondo il dettato del novellato art. 513 c.p.p., al consenso delle parti; e poiche' questo non e' stato dato, non e' riconosciuto al Collegio alcun potere suppletivo. Discende, allora, in tutta evidenza, l'importanza della questione ai fini della decisione poiche', se la Corte ritenesse fondata la questione di costituzionalita' dell'art. 513 c.p.p. comma 2 - nella parte in cui condiziona al consenso delle parti l'acquisizione delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere - verrebbe riproposto un meccanismo di acquisizione di tali dichiarazioni identico a quello del vecchio art. 513 c.p.p., come integrato dalla sentenza n. 254/1992 della Corte medesima. Passando, adesso, al vaglio della fondatezza, per inquadrare compiutamente i termini della questione occorre far richiamo sia ai principi guida dell'ordinamento in tema di prove e di diritto di difesa, sia all'assetto normativo vigente prima della citata legge n. 267/1997. Scopo del processo penale e' senz'altro quello di "accertare i fatti onde pervenire a una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale" e di giungere alla "ricerca della verita'" (sentenza n. 258/1991, n. 255/1992 e n. 111/1993). Il principio rimane, dunque, per la Corte regolatrice sostanzialmente inalterato nella sua portata e nella sua validita' anche nell'attuale processo accusatorio, che prevede la formazione della prova al dibattimento; e non e' contraddetto dalle modifiche recentemente introdotte. Analogamente deve ritenersi immanente nell'ordinamento costituzionale il principio della non dispersione della prova (sentenza n. 255/1992). In tal senso depone l'art. 512 c.p.p., che consente l'utilizzazione per la decisione delle dichiarazioni di coloro la cui presenza al dibattimento sia divenuta impossibile per fatti e circostanze imprevedibili. Parimenti irripetibile - e pertanto "recuperabile" - e' l'interrogatorio dell'imputato che si rifiuti di rispondere in dibattimento. Invero, canone fondamentale del sistema e' quello della conservazione degli atti, che sembra destinato a prevalere sull'estremizzazione del principio del contraddittorio, cosi' che, in caso di impossibilita' sopravvenuta di ripetizione di un mezzo di prova, l'atto assunto dev'essere "conservato". In coerenza con detti princi'pi, la Corte si e' gia' pronunciata per l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. nell'originaria formulazione, nella parte in cui esso non prevedeva la possibilita' di dare lettura - e, quindi, di utilizzarle ai fini della decisione - delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento dalle persone indicate dall'art. 210 c.p.p., nel caso in cui queste si fossero avvalse della facolta' di non rispondere: disparita' illogica e ingiustificata rispetto all'ipotesi del primo comma, che contemplava la possibilita' di acquisizione dei verbali di dichiarazioni rese dell'imputato contumace ovvero dall'imputato che avesse esercitato la facolta' di non rispondere. E' proprio a fronte delle enunciazioni gia' fatte dalla Corte nelle richiamate sentenze che il sospetto di illegittimita' dell'art. 513 c.p.p. nell'attuale formulazione appare non manifestamente infondato con riferimento agli artt. 3, 25 comma secondo, 101 comma secondo, 111 comma primo e 112 della Costituzione. Una irragionevole disparita' di trattamento va in primo luogo riscontrata per la situazione di dissonanza esistente tra l'imputato raggiunto da fonti di prova costituite da dichiarazioni di congiunti che hanno il diritto di astenersi e che si avvalgono in dibattimento del diritto di non rispondere (in tal caso, com'e' noto, attraverso il meccanismo della "lettura", le dichiarazioni acquisite nella fase delle indagini preliminari sono pienamente utilizzabili) e quella dell'imputato gravato da fonti di prova costituite dalle dichiarazioni di un imputato di reato connesso non ripetute in dibattimento (in questa evenienza, a norma dell'art. 513 c.p.p., viene meno l'utilizzabilita' dell'atto per la decisione). Altra non giustificata disparita' va ravvisata, ancora, tra l'imputato raggiunto da dichiarazioni di imputato "connesso" assunte in assenza di contraddittorio e divenute irripetibili ai sensi dell'art. 512 c.p.p. - utilizzabili, quindi, per la decisione ex art. 513 c.p.p. - e l'imputato raggiunto da dichiarazioni di imputato "connesso" irripetibili per l'esercizio del diritto di non rispondere; che non sono utilizzabili, invece, per la decisione. Non pare, infatti, che la diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta - naturale (quale il decesso o l'infermita') o giuridica (quale l'esercizio della facolta' di non rispondere) - possa in alcun modo giustificare la diversificazione della disciplina dell'utilizzabilita', sia perche' l'effetto sull'atto e' identico (irripetibilita'), sia perche' l'unica differenza riguarda il dichiarante ma non i soggetti raggiunti dalle sue dichiarazioni, rispetto ai quali le diverse cause di irripetibilita' agiscono in modo identico, rendendo impossibile il contraddittorio. Sempre in rapporto all'art. 3 della Costituzione, una ulteriore critica puo' essere mossa, poi, alla disciplina transitoria nella parte in cui si stabilisce una diversita' di trattamento fra l'imputato raggiunto da dichiarazioni di imputato "connesso" il cui contenuto sia riscontrato da fonti di prova irripetibili formatesi - in assenza di contraddittorio - nella fase delle indagini preliminari (per le quali, anche se hanno natura di dichiarazioni e provengono da imputati "connessi", non scatta il divieto dell'art. 6 della legge n. 267/1997, giacche' ne e' data lettura ex art. 512 c.p.p.) e l'imputato che sia raggiunto da dichiarazioni di imputato "connesso" riscontrate nelle indagini preliminari da dichiarazioni di altri imputati "connessi" che si avvalgono poi della facolta' di non rispondere (per le quali il divieto esiste). Invero, se da un lato non v'e' dubbio che la facolta' di non rispondere e' l'estrinsecazione piu' immediata del diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione: e' pur vero che detto princi'pio non si pone all'apice di ogni altro, ma va bilanciato con quelli dell'accertamento della verita' sostanziale e della non dispersione dei mezzi di prova; anch'essi, come si e' detto, costituzionalmente riconosciuti ed egualmente tutelati. Il quesito che si sottopone al vaglio della Corte e', pertanto, fondamentalmente quello di verificare se - e fino a che punto - allo scopo di tutelare il principio del contraddittorio possano essere introdotti, nell'ambito del vigente sistema accusatorio, dei meccanismi che impediscano l'utilizzabilita', per una "giusta" decisione, delle fonti di prova che sono state raccolte dal p.m. in assenza del contraddittorio; e che, come nella specie, successivamente alla loro assunzione siano divenute irripetibili per volonta' del legislatore. Quanto agli altri profili di illegittimita' appare opportuno ricordare, sia pure brevemente, il quadro tracciato dalla stessa Corte costituzionale nelle numerose pronunzie che hanno contrassegnato gli anni successivi alla entrata in vigore del nuovo codice. La Corte costituzionale ha costantemente affermato la assoluta incompatibilita' con i vigenti principi costituzionali di un processo penale inteso come "tecnica di risoluzione dei conflitti nel cui ambito al giudice sarebbe riservato essenzialmente un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra le parti contrapposte ed il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale ma di attingere - nel presupposto di un'accentuata autonomia finalistica del processo - quella sola ''verita''' processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello" (sentenza n. 111/1993). Tali principi, come si e' gia' avuto modo di sottolineare, sono stati individuati dalla Corte costituzionale nel principio di legalita' (art. 25 C.), che rende "doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale" (sentenza n. 88/1991), nel principio di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale (art. 112 C.), nel principio di uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge penale. La Corte (sentenza n. 111/1993) ha ritenuto "incontroverso" che concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale sarebbe in contrasto con i principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta', in quanto cio' significherebbe "da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita' penale sia riconosciuta solo per i fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile della liberta' personale". Parimenti incompatibile con i suddetti principi e' stata considerata l'operativita' - propria di un processo di parti - "di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio", perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la res iudicanda. Ragionando su tali principi la Corte costituzionale ha quindi ritenuto che l'introduzione nel sistema positivo di un criterio di separazione tra le fasi del procedimento ha lo scopo, nell'ottica di un sistema accusatorio, di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove e di favorire la dialettica del contraddittorio, ma tale opzione metodologica "non ha fatto, ne' poteva far trascurare che ''fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita'''" (sentenza n. 255/1992), e che ad un ordinamento improntato al principio di legalita' (art. 25, secondo comma, della Costituzione) - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate - nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale (cfr. sentenza n. 88/1991 cit.) non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione (cfr. la sentenza n. 255/1992). Simili regole di predeterminazione legale del valore persuasivo delle prove sono, d'altra parte, dissonanti rispetto ai principi di fondo del nuovo codice, che "fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali, non poteva essere altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dar conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti" (art. 192 cod. proc. pen.; cfr. sentenza n. 255/1992, cit.). Piu' in generale - come si e' chiarito nella stessa decisione - il nuovo codice, se ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale ed il metodo orale quali criteri maggiormente rispondenti all'esigenza di ricerca della verita', ha pero' nel contempo provveduto a temperarne opportunamente la portata in riferimento agli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con tale metodo, adottando per essi un principio di non dispersione deli elementi di prova". Cio' posto risulta evidente l'illegittimita' della nuova formulazione dell'art. 513, comma 2 c.p.p., nella parte in cui subordina all'accordo delle parti la lettura delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si siano avvalse della facolta' di non rispondere. Tale previsione appare, invero, in contrasto con l'art. 112 della Costituzione rappresentando un irragionevole ostacolo al razionale esercizio dell'azione penale disporre che atti sui quali il p.m. ha fondato il doveroso esercizio della sua funzione (fondando, ad esempio, su di esse la richiesta di misure cautelari), che sono divenuti imprevedibilmente irripetibili (in quanto collegati all'esercizio di una facolta', che si fonda su interessi strettamente personali non valutabili a priori), siano utilizzabili in dibattimento solo con il consenso di tutte le altre parti processuali, tra le quali gli imputati nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i propri dannosi effetti. Tale meccanismo, inoltre, dando la possibilita' allo stesso p.m. di opporsi all'acquisizione di quelle dichiarazioni finisce con l'attribuire allo stesso una discrezionalita' che e' del tutto incompatibile con il principio in esame. Tale previsione e' altresi in contrasto con gli artt. 25, 111 e 101 della Costituzione in quanto attribuisce alle parti il potere di disporre delle prove e sottrae, senza alcuna possibilita' di rimedio ed irragionevolmente, al convincimento del giudice, e, quindi, ad una razionale e motivata valutazione, elementi legittimamente acquisiti ed utili per la ricerca della verita'. Tali censure di illegittimita' risultano tanto piu' fondate per i processi che, come quello in corso, sono giunti nella fase della istruttoria dibattimentale in epoca antecedente alla introdotta riforma ma l'acquisizione del mezzo di prova e' avvenuta dopo l'entrata in vigore della legge n. 267/1997. Invero l'art. 6 della legge n. 267/1997, che ha ampliato le possibilita' di ricorso all'incidente probatorio (comma 1), riguarda i procedimenti in corso nei quali sia stata esercitata l'azione penale ma non abbia ancora avuto inizio il giudizio, mentre i commi successivi riguardano i giudizi di primo grado in corso quando sia gia' stata data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 513 c.p.p., in base alla previgente disciplina. Nel caso in esame, quindi, - e chiaramente in tutti i casi simili -, in cui trova immediata applicazione la nuova previsione dell'art. 513 c.p.p., nessun rimedio il p.m. avrebbe potuto attivare (ne' aveva motivo di farlo atteso il tenore della disciplina previgente) per scongiurare il pericolo di dispersione degli elementi acquisiti, con evidente lesione di tutti i principi innanzi richiamati.