LA CORTE DI ASSISE Ha emesso la seguente ordinanza nel processo penale n. 6/1997 mod. 19 nei confronti di: Arces Aldo nato a Canicatti' il 1 agosto 1971, Condello Giuseppe nato a Canicatti' il 17 maggio 1964 entrambi imputati: a) del reato p. e p. dagli artt. 110, 575, 576 n. 1, 577 n. 3 c.p., b) del delitto p. e p. dagli artt. 110, 628 comma primo e terzo n. 1 c.p.; In stato di custodia cautelare in carcere dal 5 aprile 1996; Decidendo sull'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 513 primo comma c.p.p. sollevata dalla p.c. e dal p.m.; O s s e r v a All'udienza del 26 gennaio 1998 l'imputato Arces Aldo rifiutava di sottoporsi all'esame richiesto dal p.m.; di seguito a tale rifiuto il p.m. chiedeva che venisse data lettura delle dichiarazioni rese dal predetto imputato al p.m. in data 6 aprile 1996 e 30 luglio 1996 ed al g.i.p. il 9 aprile 1996 in sede di udienza di convalida; l'imputato Condello Giuseppe non prestava il suo consenso all'utilizzazione nei suoi confronti delle dichiarazioni rese dal coimputato Arces. Nella stessa udienza del 26 gennaio 1998 il difensore della p.c. ed il p.m. eccepivano l'incostituzionalita' dell'art. 513 primo comma c.p.p., il p.m. per i rilievi di cui alla memoria prodotta alla successiva udienza del 3 febbraio 1998. I difensori degli imputati Arces e Condello chiedevano il rigetto dell'eccezione. Tanto premesso, ritiene la Corte che la sollevata questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 513 primo comma c.p.p. e' rilevante ai fini della definizione del presente giudizio. La rilevanza e' chiaramente palese ove si consideri che l'imputato Arces Aldo nelle varie dichiarazioni rese al p.m. ed al g.i.p. nel corso delle indagini preliminari ha formulato accuse di correita' nei confronti del coimputato Condello Giuseppe, raggiunto dalla misura cautelare della custodia cautelare in carcere e tratto a giudizio proprio sulla base di tale chiamata in correita'. Ne deriva l'evidente influenza nella decisione delle dichiarazioni rese dall'Arces, che, allo stato, attesa la mancanza di consenso da parte del Condello, non sono utilizzabili nei confronti del predetto coimputato. La questione, inoltre, non appare manifestamente infondata. La previsione della radicale inutilizzabilita', fissata a priori, in favore del coimputato che non presta il proprio consenso, contrasta, innanzi tutto, con il criterio della ragionevolezza, ledendo il fondamentale principio della non dispersione dei mezzi di prova che e' stato affermato ripetutamente dalla Corte costituzionale. Ha rilevato la Corte nella nota sentenza 3 giugno 1992 n. 255 (con la quale ha dichiarato l'incostituzionalita', per violazione dell'art. 3 Cost., dell'art. 500 comma quarto c.p.p. nella parte in cui non prevedeva l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se utilizzate per le contestazioni previste dal primo e secondo comma, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del p.m.) che l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema processuale, non rappresenta nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento, cio' perche' fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in armonia coi principi della Costituzione) di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente, e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento. Che la volonta' del legislatore esprima anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova - continua la Corte cost. - emerge con evidenza da tutti quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi all'utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di essere surrogati (o compiutamente o genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale: in tal senso depongono le disposizioni, ad es. sugli atti irripetibili (artt. 431 e 512) ecc. Siffatti istituti derogano al principio dell'oralita' e dell'immediatezza dibattimentale che non e' regola assoluta bensi' criterio guida del nuovo processo e tendono a contemperare il rispetto del metodo orale con l'esigenza di evitare la "perdita", ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. La Corte aveva avuto gia' modo di sottolineare l'importanza del principio di non dispersione dei mezzi di prova: la dichiarazione di illegittimita' costituzionale del quarto comma dell'art. 195 consente ora, attraverso la testimonianza de relato della polizia giudiziaria il recupero di elementi probatori acquisiti nella fase delle indagini; del pari con sentenza n. 254 del 1992 veniva dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 comma secondo, per violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedeva che il giudice disponeva la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo articolo, rese dalle persone indicate nell'art. 210, che si avvalgono della facolta' di non rispondere. Nella sentenza 255/1992 la Corte costituzionale ha, dunque, concluso con l'affermare che il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all'esigenza di ricerca della verita', ma accanto al principio dell'oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale. Nella sentenza n. 254 del 3 giugno 1992 citata, la Corte rileva che il legislatore delegato, nel dettare l'art. 513 primo comma c.p.p., il quale consentiva la lettura delle dichiarazioni precedentemente rese dall'imputato qualora questi era contumace, assente ovvero si rifiutava di sottoporsi all'esame, ha inteso comprendere nei casi di sopravvenuta impossibilita' di ripetizione dell'atto (di cui alla direttiva 76 della legge delega) anche l'indisponibilita' dello stesso imputato all'esame; e cio' in linea con il criterio, rinvenibile in varie disposizioni del codice, tendente a contemperare il rispetto del principio guida dell'oralita' con l'esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. Ancora piu' recentemente, proseguendo nella strada di indicare principi costituzionali certi in materia di acquisizione ed utilizzabilita' delle prove, la Corte costituzionale, sempre sulla base del principio secondo il quale fine centrale del processo e' la ricerca della verita', con la sentenza n. 179 del 16 maggio 1994 ha confermato il proprio orientamento relativamente all'ipotesi dell'esercizio della facolta' di astenersi dal deporre riservata dall'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato. Cio' posto, il principio della non dispersione dei mezzi di prova, che ha alla base la funzione primaria dell'ordinamento processuale che e' quella dell'accertamento della verita', non puo' ora non essere richiamato, dato che il complessivo assetto dell'ordinamento non ha subito modifiche diverse da quelle introdotte dalla legge 7 agosto 1997 n. 267, il cui art. 1 ha modificato l'art. 513 c.p.p. oggetto di censura. Se, dunque, la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 179/1994 ha affermato che l'esercizio del diritto di non rispondere costituisce un'"oggettiva e non prevedibile" causa di "impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo", appare irragionevole, sulla base appunto dei criteri fissati dallo stesso organo costituzionale, escludere l'irripetibilita' delle dichiarazioni precedentemente rese dall'imputato che si rifiuti di sottoporsi all'esame (o dell'imputato di reato connesso che presentandosi si avvalga della facolta' di non rispondere). In entrambi i casi l'atto e' irripetibile e cio' basta, in armonia con i principi fissati dalla Corte costituzionale, perche' il giudice debba potersene avvalere liberamente al fine di pervenire ad una sentenza giusta, adempiendo al precetto costituzionale di cui all'art. 101 comma secondo della Costituzione. La disciplina introdotta dalla legge n. 267/1997 e' affetta, sotto questo profilo, da irragionevolezza violando l'art. 3 della Costituzione e determinando un conflitto ineliminabile tra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisdizionale il cui fine primario e' - come si e' detto - quello della ricerca della verita'. Basti rivelare che qualora uno o piu' imputati si rifiutino di rispondere all'esame dibattimentale determinando, in mancanza di consenso, una inutilizzabilita' incrociata delle loro precedenti dichiarazioni, comunque valide contra se, il giudice si trovera' in una situazione paradossale, in cui, pur conoscendo tutta la realta' probatoria accaduta precedentemente al dibattimento, acquisita legittimamente in quella fase, ed utilizzata per come previsto dalla legge, non potra' conoscerla e porla a fondamento della propria decisione, anche se le dichiarazioni siano coincidenti, decisive e fornite di elementi di riscontro. In altri casi si verifichera' che il patrimonio conoscitivo utilizzabile del giudice per la sua decisione, pur essendo il medesimo, possa essere diverso per ciascun imputato, a secondo della utilizzabilita' o meno delle dichiarazioni, dipendente dal potere dispositivo concesso alle parti private dall'art. 513 c.p.p. Appare dunque evidente che in siffatta situazione si determina un contrasto tra il fine imposto al giudice della ricerca della verita' e gli strumenti processuali che gli sono offerti; situazione che contrasta con i principi costituzionali, poiche' la legge tutelando sino all'estremo limite il diritto al contraddittorio finisce per sacrificare l'esercizio della stessa giurisdizione, quando un ordinamento improntato al principio di legalita' e di obbligatorieta' dall'azione penale, che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate, non puo' tollerare norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione. La violazione del principio di non dispersione delle prove non appare affatto scongiurata - a giudizio di questa Corte di assise - dalla previsione del meccanismo dell'incidente probatorio, benche' svincolato dai requisiti previsti in via generale dall'art. 392 c.p.p., poiche' in tale sede resta comunque ferma la facolta' di non rendere dichiarazioni; e' evidente, dunque che l'adozione di tale meccanismo, prescelto dal legislatore della novella proprio per rifuggire da accuse di incostituzionalita', anziche' tradursi in valvola di sicurezza del sistema, si riduce ad una mera anticipazione della prova, senza assicurare tuttavia l'effettiva acquisizione al processo. E nel caso di specie nulla autorizza ad ipotizzare che l'Arces avrebbe tenuto un atteggiamento diverso se si fosse trovato non in dibattimento dinanzi alla Corte, ma in sede di incidente probatorio avanti al giudice per le indagini preliminari. Va, inoltre, osservato che il legislatore riservando all'insindacabile scelta delle parti private l'utilizzazione delle dichiarazioni rese in precedenza, ha rimesso in definitiva alla totale disponibilita' delle parti l'ingresso della prova in dibattimento, condizionando l'esercizio stesso dell'azione penale e rendendo disponibile la stessa res iudicanda. La Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 24-26 marzo 1993, premesso che il processo penale italiano, come "processo di parti", nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano, non puo' non considerare che il pubblico ministero e' un magistrato indipendente appartenente all'ordine giudiziario "che non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge", ha escluso che il nostro ordinamento processuale sia improntato al principio dispositivo in materia di prova, riconoscendo "incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta' dell'azione penale concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. Cio' invero significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire, dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita' penale sia riconosciuta sono per i fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile della liberta' personale. Sotto questo profilo, e' significativo che il nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti svincoli il giudice sul merito della decisione; prova ne sia che ad un simile esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta. .... Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva nonche' sul terreno del giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita'formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito da principio di obbligatorieta' dell'azione penale". Spetta, pertanto, al giudice - rileva la Corte costituzionale - il "potere-dovere di integrazione anche di ufficio delle prove, per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione, dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione". La funzione del giudice, dunque, puo' e deve essere anche di supplenza dell'inerzia delle parti e deve esplicarsi in modo che tutto il tema della decisione gli possa essere chiarito. Con l'avere condizionato l'utilizzo da parte del giudice di elementi di prova irripetibili raccolti durante le indagini al consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi spiegano la loro efficacia probatoria, si consente all'imputato stesso, discrezionalmente ed immotivamente di impedire l'accertamento del fatto e vietare al giudice di pervenire all'accertamento della verita'. Si consente all'imputato, disponendo della prova a suo carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del processo, in violazione degli artt. 3 Cost. (violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza poiche' si lede il principio di parita' tra accusa e difesa e perche' ad un'analogia di posizioni sostanziali tra imputati potrebbe far riscontro una diversita' di situazioni processuali), 101 e 111 (disattendendo il duplice canone della sottoposizione del giudice alla sola legge e del libero motivato apprezzamento, facendo dipendere l'esercizio della giurisdizione non dal convincimento del giudice, formulato sulla base delle prove raccolte, bensi' dal consenso immotivato dell'imputato o degli imputati interessati), 102 (poiche' la funzione giurisdizionale non puo' essere razionalmente esercitata se al giudice viene resa impossibile una compiuta conoscenza delle circostanze su cui deve pronunciarsi), 2 e 24 (poiche' tra i soggetti che hanno diritto a far valere giudizialmente le proprie pretese, sono ricomprese indubbiamente anche le persone offese dai reati e tra queste lo Stato con il suo diritto-dovere alla persecuzione degli autori dei reati) e 112 (poiche' il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale resterebbe vanificato dalle scelte discrezionali delle parti). Ulteriore aspetto di incostituzionalita' dell'art. 513 primo comma c.p.p. concerne le evidenti disparita' di trattamento che si verificano in relazione ad altre situazioni. In primo luogo non appare giustificato il diverso trattamento che viene riservato dall'art. 513 primo comma al caso in cui l'imputato si avvalga del diritto al silenzio, rispetto alle altre ipotesi, previste dal secondo comma, in cui non sia possibile ottenere la presenza in dibattimento, per fatti imprevedibili, dell'imputato di reato connesso, che determinano l'acquisibilita' delle sue dichiarazioni al fascicolo per il dibattimento senza alcuna necessita' di consenso. Altra disparita' di trattamento si ha con l'ipotesi prevista dall'art. 503 c.p.p. in base a tale articolo qualora l'imputato non rifiuti l'esame ne' si avvalga della facolta' di non rispondere ma, sottoponendosi all'esame dibattimentale, nega in tutto o in parte il contenuto delle dichiarazioni rese in precedenza, queste ultime possono essere utilizzate attraverso il meccanismo della contestazione ai sensi del comma quinto, mentre invece la nuova formulazione dell'art. 513 preclude in assoluto qualsiasi possibilita' di utilizzazione nell'ipotesi del rifiuto a deporre: in questo modo si perviene ad un esito apparentemente paradossale, poiche' se l'imputato resta in silenzio il giudice non potra' fare uso, nei confronti di altri che non prestano il loro consenso, delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini; se invece l'imputato parla per negare quanto riferito in precedenza i verbali delle dichiarazioni pregresse sono utilizzabili ai fini della prova, anche per dimostrare il contrario di quello che ha detto nel dibattimento. Altra irragionevole disparita' di trattamento si ha rispetto al regime previsto dall'art. 503 comma quinto per l'ipotesi di rifiuto da parte dei testi, quando risulta che il teste e' stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilita'. Cio' integra una evidente disparita', non essendo consentito al giudice alcun controllo sulla spontaneita' del rifiuto di rispondere, sulla presenza di forme di intimidazione, ne' al p.m. o alle altre parti private di poter provare eventuali forme di pressione sull'imputato gia' dichiarante al fine di ottenere il suo silenzio. Per le considerazioni che precedono la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 primo comma c.p.p. sollevata dalla parte civile e dal pubblico ministero va ritenuta rilevante e non manifestamente infondata. Ai sensi dell'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87 gli atti riguardanti l'imputato Condello Giuseppe vanno trasmessi alla Corte costituzionale ed il giudizio che riguarda il predetto imputato va sospeso fino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale.