ha pronunciato la seguente Sentenza nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 33, comma 1, del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promossi con n. 12 ordinanze emesse il 16 e 22 ottobre 1996 ed il 26 novembre 1996 dalla Commissione tributaria regionale di Milano, iscritte ai nn. da 257 a 262, 271, 272 e da 581 a 584 del registro ordinanze 1997 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 21 e 38 dell'anno 1997. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Udito nella camera di consiglio del 28 gennaio 1998 il Giudice relatore Annibale Marini. Ritenuto in fatto 1. - Con dodici ordinanze di identico contenuto, la Commissione tributaria regionale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 101, primo comma, 53, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 33, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), "laddove subordina la pubblicita' dell'udienza in cui si svolge la trattazione della causa alla previa tempestiva istanza di almeno una delle parti". 2. - Premette la Commissione rimettente che questa Corte, sotto il vigore della previgente disciplina del contenzioso tributario, con sentenza n. 50 del 1989 ebbe a dichiarare la illegittimita' costituzionale dell'art. 39, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), nella parte in cui escludeva la applicabilita' ai giudizi che si svolgevano dinanzi alle commissioni tributarie di primo e secondo grado dell'art. 128 cod. proc. civ. e, quindi, del principio di pubblicita' dell'udienza nello stesso articolo enunciato. Ad avviso della Commissione rimettente le stesse argomentazioni poste a base della citata decisione sorreggerebbero la censura di costituzionalita' dell'art. 33, comma 1, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che rimette alla valutazione discrezionale delle parti costituite la pubblicita' della udienza di trattazione delle controversie tributarie. In particolare, secondo il giudice a quo la norma denunciata violerebbe: l'art. 101, primo comma, della Costituzione in quanto, trovando fondamento l'amministrazione della giustizia nella sovranita' popolare, dovrebbe ritenersi implicito in siffatto precetto la regola generale della pubblicita' dei dibattimenti giudiziari; l'art. 53, primo comma, della Costituzione, in quanto il principio di trasparenza dell'obbligazione tributaria, enunciato nella citata sentenza n. 50 del 1989, risulterebbe incompatibile con l'esclusione della pubblicita' della udienza; l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto la norma, secondo quanto disposto dagli artt. 33, comma 2, e 35, comma 1, del citato d.lgs. n. 546 del 1992, impedirebbe alle parti, sia in proprio che mediante i loro difensori, di essere presenti nella camera di consiglio prima della decisione e subordinerebbe la discussione in pubblica udienza ad una apposita istanza da depositare in segreteria e notificare alle altre parti costituite entro un breve termine di decadenza. Disciplina, conclude la Commissione rimettente, "quanto mai singolare alla luce anche della pregressa giurisprudenza tributaria che aveva sottolineato la particolare rilevanza ai fini della decisione della presenza delle parti in udienza, giungendo ad individuare l'obbligo del presidente di rinviare la discussione, pena la nullita' della decisione, quando il rappresentante dell'ufficio non aveva potuto partecipare all'udienza di discussione a causa dell'astensione dal lavoro del personale dell'amministrazione finanziaria". La rilevanza della questione di costituzionalita' discenderebbe dalla circostanza che, non avendo nessuna delle parti costituite presentato istanza di discussione della controversia in pubblica udienza, sarebbe necessario stabilire la legittimita' della trattazione della controversia con il rito, alternativo, della camera di consiglio. 3. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione. La difesa erariale rileva che il sistema attuale del contenzioso tributario, prevedendo a differenza della previgente disciplina - la discussione in pubblica udienza su richiesta delle parti, si sottrae alle censure di costituzionalita' poste a base della sentenza n. 50 del 1989 richiamata dalla Commissione rimettente. La disciplina in vigore, seguendo quell'indirizzo di economicita' e rapidita' del giudizio adottato di recente dal legislatore anche nel processo civile (v. artt. 190-bis e 275 cod. proc. civ.), troverebbe il suo fondamento nell'esigenza di agevolare la definizione del contenzioso tributario accelerando il corso del processo. Reputa infine l'Avvocatura che l'aver subordinato l'udienza pubblica ad una istanza di parte, da presentarsi entro un termine perentorio, non violi alcun precetto costituzionale (ed in particolare quello sussunto sotto l'art. 24, secondo comma, della Costituzione), essendo connaturata a qualsiasi sistema processuale la fissazione di termini di decadenza. Considerato in diritto 1. - I giudizi hanno ad oggetto questioni identiche e vanno percio' riuniti per essere decisi con unica pronunzia. 2. - La Commissione tributaria regionale di Milano dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 33, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) che disciplina il regime di trattazione delle controversie tributarie. La disposizione denunciata, nella parte in cui subordina la trattazione della controversia in pubblica udienza alla istanza di almeno una delle parti, appare al giudice rimettente in contrasto: con la regola generale della pubblicita' dei dibattimenti giudiziari sussunta sotto l'art. 101, primo comma, della Costituzione; con il principio della trasparenza dell'imposizione tributaria di cui all'art. 53, primo comma, della Costituzione (cosi' come enunciato da questa Corte nella sentenza n. 50 del 1989); con il principio dell'inviolabilita' del diritto di difesa contenuto nell'art. 24, secondo comma, della Costituzione. 3. - La questione non e' fondata. Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, trovando fondamento l'amministrazione della giustizia nella sovranita' popolare, in base al precetto dell'art. 101, primo comma, della Costituzione, deve ritenersi implicita nei princi'pi costituzionali che disciplinano l'esercizio della giurisdizione la regola generale della pubblicita' dei dibattimenti giudiziari, la quale, peraltro, puo' subire eccezioni in riferimento a determinati procedimenti, quando abbiano obiettiva e razionale giustificazione (sentenza n. 50 del 1989). Sulla base di detta regola, questa Corte, riaffermata la natura giurisdizionale delle commissioni tributarie, e' pervenuta, con la citata sentenza n. 50 del 1989, alla declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 39, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, nella parte in cui escludeva l'applicabilita' ai giudizi tributari di primo e secondo grado dell'art. 128 del cod. proc. civ. che sancisce il principio di pubblicita' della udienza in cui si svolge la discussione della causa. Nella nuova disciplina del processo tributario dettata dal d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la pubblicita' dell'udienza risulta non gia' esclusa, come accadeva nella normativa previgente alla citata sentenza, bensi' condizionata alla presentazione da almeno una delle parti di un'apposita istanza di discussione, prevedendosi, in mancanza di tale istanza, la trattazione della controversia in camera di consiglio (art. 33, comma 1). Sicche' puo' dirsi che nel nuovo processo tributario i due riti, in pubblica udienza e in camera di consiglio, coesistono in rapporto di alternativita'. Quel che si deve allora stabilire, in aderenza ai veri termini della questione sollevata dal rimettente, e' se l'ammissibilita', nel senso precisato, del rito camerale, risulti lesiva del principio di cui all'art. 101, primo comma, della Costituzione. In proposito, si puo' escludere, in conformita' a quanto piu' volte affermato da questa Corte, la illegittimita' del rito camerale in quanto tale, dovendo a tal fine valutarsi la sua rispondenza ad obiettive ragioni giustificatrici ed in primo luogo alla natura del processo in cui tale rito si svolge (ordinanza n. 587 del 1989). Il processo tributario e' conformato dal legislatore, sia sotto l'aspetto probatorio che difensivo, come processo documentale. E cio' nel senso che si svolge attraverso atti scritti mediante i quali le parti provano le rispettive pretese o spiegano le relative difese (ricorsi, memorie). Mentre resta esclusa, in relazione alla natura di tale processo, l'ammissibilita' sia della prova testimoniale che del giuramento (art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992). In relazione a cio' non puo', allora, apparire irragionevole la previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte della discussione della causa. In assenza della discussione, infatti, la trattazione in pubblica udienza finirebbe per ridursi alla sola relazione della causa e cioe' ad un atto che, in quanto espositivo dei fatti e delle questioni oggetto del giudizio, e' comunque riprodotto nella decisione e reso conoscibile alla generalita' con il deposito della stessa. D'altra parte, questa Corte ha affermato che il principio di pubblicita' puo' avere differenti modalita' di attuazione in relazione alla natura particolare del processo (ordinanza n. 121 del 1994). Nella specie, il rito in camera di consiglio e' caratterizzato dalla pubblicita' degli atti depositati nel fascicolo di causa e accessibili a chiunque vi abbia interesse e dalla pubblicita' della decisione che deve essere motivata nell'osservanza del canone di congruita' argomentativa (ordinanza citata n. 121 del 1994). E dunque puo' dirsi che, nel rito camerale, l'esigenza di conoscenza delle vicende tributarie e di controllo dell'opinione pubblica risulta, avuto riguardo alla natura propria del processo tributario, sufficientemente garantita. E' stato, altresi', sottolineato piu' volte da questa Corte come l'ammissibilita' del rito camerale rinvenga una coerente e logica motivazione nell'interesse generale ad un piu' rapido funzionamento del processo (sentenza n. 543 del 1989). Interesse che assume particolare rilievo per il processo tributario, gravato da un contenzioso di dimensioni particolarmente ingenti e caratterizzato da tempi di decisione egualmente abnormi. Ove, pertanto, si consideri sia la natura che l'esigenza di rapidita' del processo tributario, a tutela dei diritti dei cittadini e del fisco, occorre concludere che la previsione del rito camerale unitamente a quello, sempre ammissibile, della pubblica udienza, risponde a ragionevoli criteri di politica legislativa e si sottrae in quanto tale a censura di legittimita' costituzionale. 4. - Anche il dubbio di legittimita' formulato in riferimento al diverso parametro dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione risulta privo di fondamento. Il termine di dieci giorni liberi prima della data di trattazione entro il quale l'istanza di discussione in pubblica udienza deve essere depositata in segreteria e notificata alle altre parti costituite non puo' ritenersi lesivo del diritto di difesa, potendo le parti provvedere ad assolvere siffatti oneri, secondo una diffusa opinione, sin dal primo scritto difensivo e, comunque, durante tutto il non breve periodo di tempo intercorrente tra la fissazione dell'udienza di trattazione e i dieci giorni liberi prima di tale data. Sotto un diverso aspetto, i menzionati oneri sono immuni da ogni censura di costituzionalita' rinvenendo la loro giustificazione nella necessita' di garantire a tutte le parti un pari esercizio del diritto di difesa oltre che nell'esigenza di carattere organizzativo degli uffici giudiziari di conoscere con ragionevole anticipo di tempo il rito, camerale o in pubblica udienza, di trattazione della controversia. 5. - L'assenza delle parti nella camera di consiglio, prevista dal comma 2, dell'art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, lungi, poi, dal rappresentare, come ritiene la Commissione rimettente, una singolarita' della disciplina in vigore, rinviene in quest'ultima una logica e coerente motivazione. Diversamente da quanto disposto dalla normativa previgente, le parti hanno, infatti, ai sensi della disposizione denunciata, la facolta' di presentare istanza di discussione in pubblica udienza e di svolgere pubblicamente dinanzi al collegio le loro difese. La mancata presentazione nel termine di legge della istanza di discussione in pubblica udienza, implicando l'assenza di interesse delle parti ad essere presenti alla trattazione della causa, rende del tutto ingiustificata la loro successiva partecipazione alla camera di consiglio. 6. - Priva di fondamento e', infine, la censura di illegittimita' della norma denunciata sotto il profilo della violazione dell'art. 53, primo comma, della Costituzione. Se, infatti, e' vero che "in base all'art. 53 della Costituzione l'imposizione tributaria e' soggetta al canone della trasparenza dal momento che i suoi effetti riguardano la generalita' dei cittadini" (sentenza n. 50 del 1989), le considerazioni svolte circa la pubblicita' degli atti di causa e della decisione tributaria e la necessita' di una congrua motivazione della stessa valgono ad escludere la violazione, in mancanza della pubblica udienza, del canone della trasparenza della imposizione e del principio costituzionale della corrispondenza del prelievo alla capacita' contributiva.