IL TRIBUNALE Decidendo in ordine alla questione di legittimita' costituzionale sollevata dal pubblico ministero in ordine all'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art.1, legge 7 agosto 1997 n. 267, sentite le altre parti, Osserva Sulla rilevanza Iniziatosi procedimento penale nei confronti degli imputati Zampogna, Baldo e Barberis, per i reati di cui all'art. 216, l.f. il tribunale alla prima udienza dichiarava la contumacia dei primi due e sentite le richieste delle parti emetteva ordinanza di ammissione delle prove tra le quali l'esame degli imputati. Il dibattimento si sviluppava in piu' udienze ed in data 15 gennaio 1998, esaurita l'escussione dei testi e dei consulenti tecnici il p.m. chiedeva l'acquisizione del verbale di interrogatorio reso dinanzi al suo ufficio dall'imputato Zampogna rimasto contumace. Analoga richiesta non formulava per l'imputato Baldo, al momento solo assente, essendo stata revocata la contumacia, perche' lo stesso non era mai stato interrogato. I difensori di Barberis e Baldo non prestavano il consenso all'utilizzabilita' nei confronti dei loro assistiti delle dichiarazioni rese dallo Zampogna ed il p.m. sollevava la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267/79 in riferimento agli artt. 3, 25, 101, 111 e 112 della Costituzione. La dedotta questione di legittimita' costituzionale appare rilevante potendo le dichiarazioni accusatorie dello Zampogna contribuire alla definizione della vicenda fallimentare, delineando lo stesso ruoli ed attivita' svolti da ciascun imputato. Sulla non manifesta infondatezza Il legislatore del 1988 instaurando il sistema accusatorio ha privilegiato la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale strumento piu' idoneo all'accertamento dei fatti ed all'esigenza di ricerca della verita'. La disciplina introdotta dalla legge n. 267/1997, con riferimento alla nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p., pone pero' una drastica limitazione alla funzione conoscitiva del processo prevedendo che "il giudice, se l'imputato e' contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso". Tale riforma, auspicata da molti per porre rimedio alle "deformazioni del modello processuale" che si erano susseguite dopo il 1989, appare finalizzata alla tutela del diritto di difesa, impedendo l'utilizzabilita' delle dichiarazioni rese da un imputato nello stesso procedimento quando il difensore non abbia avuto la possibilita' di interloquire al momento dell'assunzione delle predette dichiarazioni. Il sistema dunque appare coerentemente giustificato dalla necessita' di garantire l'inviolabilita' del diritto di difesa, sennonche' - inserendosi quale regola nella fase di formazione della prova - esso viene a confliggere con i limiti Costituzionali che la Corte stessa ha individuato nell'elaborare i principi fondamentali di questa fase processuale. Sul punto in particolare si veda la sentenza della Corte n. 111 del 1993 nella quale viene affermato: "va premesso, sul piano metodologico, che la considerazione dell'ordinamento processuale-penale italiano va condotta a prescindere da astratte modellistiche, sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non puo' che derivare da un'attenta lettura dei principi e dei criteri direttivi enunciati dalla legge delega e dei principi costituzionali di cui questa, come si e' detto, richiede attuazione. Non va, cioe', dimenticato, che il sistema processuale delineato nella legge delega ed attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato che tende bensi' ad attuare i caratteri del sistema accusatorio, ma secondo i criteri ed i principi direttivi specificati nelle direttive che seguono; e che, poiche' la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di attuare i principi della Costituzione, una adeguata considerazione dell'ordinamento effettivamente vigente non puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si e' trovata a dover apportare". Ripercorrendo brevemente le varie pronunce della Corte costituzionale e' agevole rilevare come la stessa ha affermato piu' volte che lo scopo del processo penale non puo' che individuarsi nella ricerca della verita' (cfr. sentt. nn. 258 del 1991, 111 del 1993, 255 del 1992) e nella pronuncia di una giusta decisione. Conseguentemente la Corte, pur riconoscendo che il processo imperniato sul contraddittorio dibattimentale realizza nel modo migliore lo scopo costituzionalmente assegnato al processo in quanto introduce "un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da pregresse influenze" (sent. n. 111 del 1993) ha, comunque, evidenziato che "l'oralita' non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento". Traendo fondamento da numerosi casi di formazione della prova in deroga al contraddittorio dibattimentale o all'altro aspetto dell'oralita' costituito dall'immediato contatto del giudice con la prova nel momento della sua formazione (artt. 392, 431, 500 comma 4, 503 comma 5 e 6, 512, 513), la Corte ha enunciato il principio "della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale" (sent. n. 255 del 1992). Il contemperamento del rispetto del principio dell'oralita' con l'esigenza di evitare la perdita ai fini della decisione con quanto acquisito prima del dibattimento ed irripetibile in tale sede, aveva condotto la Corte a dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 comma 2 c.p.p. nella formulazione allora vigente "nella parte in cui non prevede che il giudice sentite le parti dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni... rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. qualora queste si avvalgano della facolta' di non rispondere (sent. n. 255 del 1992). Ed ancora piu' recentemente ha confermato il proprio orientamento, sebbene con una sentenza interpretativa di rigetto, dichiarando non fondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 500 comma 2-bis e 512 c.p.p., nel caso di prossimo congiunto dell'imputato che dopo aver reso dichiarazioni in fase di indagini preliminari, si sia poi avvalso al dibattimento della facolta' di astenersi, ritenendo, dunque, che l'esercizio di tale facolta', a fronte di dichiarazioni legittimamente acquisite in fasi diverse, costituisca un'ipotesi di sopravvenuta irripetibilita' dell'atto. Orbene, se l'esercizio del diritto di non rispondere costituisce un fatto non prevedibile nella ipotesi sopra enunciata, di guisa che il meccanismo processuale consente l'acquisizione dell'atto divenuto imprevedibilmente irripetibile, deve ravvisarsi la irragionevole disparita' di trattamento rispetto a situazioni che vedano l'imputato, che abbia precedentemente reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di coimputati e che eserciti la facolta' di non sottoporsi all'esame, anche implicitamente con la mancata presentazione al dibattimento, nel momento in cui l'utilizzabilita' delle dichiarazioni medesime venga subordinata al consenso dei soggetti a carico dei quali sono state rese. Viene, dunque, a configurarsi un potere assolutamente discrezionale dell'imputato e cosi' ampio (si parla di consenso delle parti e non di parti interessate) che si traduce in un'irrazionale ostacolo all'esercizio della funzione giurisdizionale ed in una lesione dei principi costituzionali. La irragionevole disparita' si coglie con maggiore evidenza laddove il sistema processuale diversifichi la disciplina dell'utilizzabilita' degli atti, non sottoponendola ad alcun vincolo, quando la causa di irripetibilita' sopravvenuta consista nel decesso dell'imputato, evento che rende pur sempre impossibile il contraddittorio. La disciplina introdotta dalla legge n. 267/1997 con la nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p. e' idonea, altresi', a violare il principio di obbligatorieta' dell'azione penale nella sua ineliminabile connessione con il principio di legalita'. Il pubblico ministero, in quanto organo giudiziario indipendente esercita l'azione penale obbligatoriamente, acquisendo nel corso delle sue indagini tutti quegli elementi di prova, sia a carico che a favore dell'imputato, rilevanti per una giusta decisione, al fine di sottoporli al vaglio dibattimentale; orbene, la norma di cui si sospetta la illegittimita', impedisce il completo ed esaustivo esercizio dell'azione penale non potendo il p.m. garantire l'utilizzabilita', da parte del giudice del dibattimento, di atti istruttori del tutto legittimi, se non subordinatamente al consenso di soggetti portatori di interessi meramente individuali ed eventualmente confliggenti con quella esigenza di conoscenza del fatto e di accertamento della verita' che e' lo scopo precipuo del processo. Inoltre il riservare all'insindacabile scelta dell'imputato di rendere o meno dichiarazioni ed alla volonta' delle altre parti processuali di consentire all'acquisizione e conseguente utilizzabilita' di dichiarazioni in precedenza rese confligge anche con i principi costituzionali di cui agli artt. 101 secondo comma e 111 della Costituzione, ovvero che il giudice e' soggetto solo alla legge ed esprime il suo convincimento attraverso valutazioni motivate e razionali. Tali principi fondamentali comportano che non puo' esservi un potere di disposizione della prova in capo alle parti. In particolare la Corte, con la sentenza n. 92 del 1992, ha affermato che il potere di decisione del giudice di merito non puo' essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere delle parti ed alle scelte di carattere processuale di costoro. Invece, la normativa in oggetto consente di sottrarre alla valutazione del giudice elementi di prova legittimamente acquisiti dal p.m. di guisa che il dovere di pervenire ad una giusta decisione il piu' possibile rispondente al risultato perseguito dal diritto sostanziale viene ad essere condizionato sia dal verificarsi di una condizione meramente potestativa, costituita dall'esercizio del diritto di non rispondere (o di non partecipare al processo), sia dalla decisione discrezionale ed immotivata dell'imputato sull'utilizzabilita' della prova. La metodologia processuale disciplinata dalle nuove norme appare ostacolo irragionevole al processo di accertamento del fatto storico per pervenire ad una giusta decisione. Ritiene il Collegio che il diritto di difesa, per quanto inviolabile e costituzionalmente garantito, deve essere contemperato con gli altri principi costituzionali che sostengono l'attuale modello processuale, senza, pero', che gli stessi vengano irrazionalmente sacrificati: occorre, quindi, una disciplina meglio articolata e compiuta della fase di acquisizione della prova che garantisca l'esercizio della difesa in modo tale da consentire l'utilizzabilita' di ogni elemento utile all'accertamento della verita' ed alla pronuncia di una giusta decisione.