IL TRIBUNALE
   Decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale  dell'art.
 513 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267/1997, sollevato
 dal  p.m.  all'udienza  del 15 dicembre 1997 nel processo a carico di
 Alvarez Ricardo Mauricio + 30, imputati - la maggior parte dei  quali
 detenuti -, dei reati di cui agli artt. 74 e 73 d.P.R. n. 309/1990;
   Sentite le parti;
   Ha  pronunziato  la  seguente ordinanza all'udienza del 22 dicembre
 1997;
   La questione di legittimita'  costituzionale  di  cui  in  epigrafe
 appare  rilevante  ai  fini  della  decisione  nella presente vicenda
 processuale, e non risulta manifestamente infondata.
                              La rilevanza
   In relazione al  parametro  della  rilevanza,  va  considerato  che
 l'attuale    processo   si   origina   da   un'articolata   attivita'
 investigativa, protrattasi nell'arco di circa un anno, concernente un
 illecito traffico  di  sostanze  stupefacenti  importate  in  Italia,
 attraverso    corrieri   di   nazionalita'   colombiana,   da   paesi
 sudamericani. In particolare, le  indagini  sono  consistite  in  una
 serie  di  intercettazioni  telefoniche,  -  gran  parte delle quali,
 peraltro, sono  state  dichiarate  inutilizzabili  da  questo  stesso
 tribunale  per  insussistenza e/o carenza di motivazione in ordine ai
 relativi decreti autorizzativi e/o di proroga -,  e  in  indagini  di
 p.g.   Altri,   non  secondari  elementi  posti  a  fondamento  della
 prospettazione accusatoria,  risultano  costituiti  da  dichiarazioni
 rese,  nel corso delle indagini preliminari, da taluni dei coindagati
 i quali,  oltre  a  rendere  dichiarazioni  ammissive  della  propria
 responsabilita',   ne   hanno   rese   di   ulteriori,   relative   a
 responsabilita' altrui: cio' in relazione, segnatamente,  all'ipotesi
 accusatoria di cui all'art.  74 d.P.R. n. 309/1990. In tale contesto,
 vanno  segnalati  gli asserti degli attuali imputati Boccia Tommaso e
 Carra Patrizia e quelli di altri coimputati.
   Cio' premesso, alle udienze del 1 dicembre 1997 e 15 dicembre 1997,
 i sovrascritti Boccia e Carra ed altri coimputati, il cui  esame  era
 stato ammesso a richiesta del p.m., si sono rifiutati di sottoporsi a
 tale  mezzo  di  prova,  sicche'  le dichiarazioni da costoro rese in
 costanza  di  indagini   preliminari,   per   effetto   della   nuova
 formulazione  dell'art.  513  c.p.p.,  non risultano utilizzabili nei
 confronti degli altri imputati, avendo costoro - ad eccezione di  due
 di essi - denegato il proprio consenso all'utilizzabilita' stessa.
   Determinatasi  tale  situazione, il p.m., alla medesima udienza del
 15 dicembre 1997, sollevava eccezione di legittimita'  costituzionale
 della  norma di cui all'art. 513 c.p.p., come novellata dalla legge 7
 agosto 1997, n. 267 per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 25,  101  e
 112  della  Costituzione.  Alcuni  difensori interloquivano in ordine
 alla  questione,  gli  altri   venivano   ammessi   a   farlo   anche
 successivamente  a  mezzo  di memorie scritte. All'udienza odierna il
 tribunale riservava la decisione nel merito della questione.
   Tanto premesso, non pare vi possa essere  dubbio  alcuno  circa  la
 rilevanza  della  questione  sollevata dal p.m., essendo evidente che
 l'accoglimento della medesima da parte della Corte  costituzionale  -
 con  conseguente  declaratoria di illegittimita' costituzionale della
 norma nella parte in cui subordina al consenso degli imputati  (comma
 1)  o  all'accordo  delle  parti  (comma 2) l'utilizzabilita' ai fini
 della decisione delle dichiarazioni predibattimentali degli  imputati
 o  delle  persone indicate nell'art. 210 cp.p., che abbiano deciso di
 avvalersi in dibattimento del diritto al silenzio  -,  renderebbe  di
 fatto  nuovamente applicabili il primo e secondo comma dell'art.  513
 previgente, cosi' come  integrato  il  capoverso  dalla  sentenza  n.
 254/1992  della  Consulta,  e,  di  conseguenza,  per  cio'  che  qui
 interessa,  conoscibili  e  valutabili  da  parte  del   giudice   le
 dichiarazioni   rese   nella   fase   delle  indagini  preliminari  o
 all'udienza preliminare del presente processo,  da  parte  di  alcuni
 degli attuali imputati, aventi contenuto accusatorio nei confronti di
 altri.
                     La non manifesta infondatezza
   Ai  fini  della  valutazione  di  non  manifesta infondatezza della
 dedotta questione di  legittimita'  costituzionale  il  giudice  deve
 raffrontare  la  norma  sospettata  di illegittimita' non solo con le
 specifiche disposizioni costituzionali di riferimento, ma  anche  con
 l'interpretazione che delle stesse e' stata fornita, fino a quel dato
 momento,  dalla  Corte  costituzionale  e,  dunque,  con  i  principi
 informatori della Costituzione medesima, quali enucleati dalla  Corte
 costituzionale con la propria giurisprudenza interpretativa.
   E'  proprio  alla  stregua  di  una  tale premessa metodologica   -
 presente anche nella sentenza n. 111/1993 della Corte  costituzionale
 -  che  la questione dedotta va ritenuta non manifestamente infondata
 gia' in forza della considerazione che la nuova disciplina  dell'art.
 513  comma  2  c.p.p.  ripropone, in pratica, l'originaria disciplina
 codicistica gia' ritenuta illegittima dalla Corte costituzionale, per
 contrasto con gli artt. 3 e 76 della Costituzione nella parte in  cui
 non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura
 dei  verbali  di  dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art.
 210 c.p.p., qualora queste si fossero avvalse della facolta'  di  non
 rispondere  (sentenza n. 254/1992). Ne' la ridisegnazione della norma
 dell'art.   513 c.p.p., con  la  previsione  al  comma  1  della  non
 utilizzabilita'  nei  confronti  degli  altri  imputati  che  non  vi
 consentano  delle   dichiarazioni   predibattimentali   dell'imputato
 contumace,  assente  o  che  si  rifiuti  di  sottoporsi  ad esame ha
 eliminato del tutto quella disparita'  di  trattamento  che  derivava
 dalla  differente disciplina apprestata dal primo e dal secondo comma
 dell'art. 513 previgente in ordine alla lettura  delle  dichiarazioni
 rese  prima  del  dibattimento dalle persone imputate in procedimento
 connesso o collegato "a seconda che nei loro confronti si proceda  in
 unico   processo   cumulativo   ovvero   separatamente":      invero,
 l'utilizzazione contra alios  delle  dichiarazioni  predibattimentali
 dell'imputato  che  sia  contumace,  assente  o  che  si  rifiuti  di
 sottoporsi  ad  esame  nel  processo  cumulativo e' subordinata, come
 detto, al mero consenso degli altri  imputati,  quella  invece  delle
 dichiarazioni predibattimentali dell'imputato giudicato separatamente
 dagli  altri,  che  si  avvalga  della facolta' di non rispondere, e'
 subordinata all'accordo di tutte le parti del processo.
   Permane, dunque, in maniera  del  tutto  irragionevole,  una  grave
 disparita'  di trattamento per imputati raggiunti dalle dichiarazioni
 (accusatorie o non) di altri imputati, a seconda  che  questi  ultimi
 siano  giudicati cumulativamente o separatamente, con il pericolo, in
 questa seconda evenienza, di serio pregiudizio anche per  il  diritto
 di difesa e, in genere, per le aspettative difensive di coloro che da
 quelle   dichiarazioni   sono  raggiunti  nel  caso  in  cui,  avendo
 esercitato il dichiarante il diritto al silenzio, non vi sia  accordo
 di tutte le parti ai fini della loro lettura e siano state rese anche
 dichiarazioni favorevoli a tutti o ad alcuni degli imputati.
   Inoltre,  la  nuova  disciplina  del  primo comma e la reviviscenza
 dell'originaria disciplina del secondo comma dell'art. 513 volute dal
 legislatore del '97, non posssono non essere ritenute prive  di  ogni
 ragionevole   giustificazione   alla   stregua  della  giurisprudenza
 costituzionale in tema di atto irripetibile. Nella citata sentenza n.
 254/1992 la Corte costituzionale afferma che tanto l'imputato, quanto
 le persone indicate nell'art. 210 c.p.p.  hanno  la  possibilita'  di
 sottrarsi  in  tutto  o  in parte all'esame, "cosi' determinando, nel
 caso in cui avessero reso  precedenti  dichiarazioni,  quel  tipo  di
 situazione  che  lo stesso legislatore delegato ha inteso qualificare
 come  un'ipotesi  di  impossibilita'  sopravvenuta   di   ripetizione
 dell'atto",   categoria   (di   cui   alla   direttiva  n.  76  della
 legge-delega) in cui il legislatore delegato "ha inteso comprendere -
 appunto - anche l'indisponibilita' dello  stesso  imputato  all'esame
 (cfr.  relazione  al  progetto  preliminare)  e  cio' in linea con il
 criterio ... tendente a contemperare il rispetto del principio  guida
 dell'oralita' con l'esigenza di evitare ... la perdita, ai fini della
 decisione,  di  quanto  acquito  prima  del  dibattimento  e  che sia
 irripetibile in tale sede".
   In pieno contrasto  con  tale  impostazione,  la  nuova  disciplina
 sancisce   che   l'esercizio   del   diritto  al  silenzio  da  parte
 dell'imputato o dell'imputato "connesso", che aveva  reso  prima  del
 dibattimento   dichiarazioni   autoaccusatorie   e   accusatorie  nei
 confronti di altri, non costituisce  sopravvenuta  impossibilita'  di
 ripetizione  dell'atto  e  non  rende  pertanto "recuperabile" l'atto
 stesso in virtu' dell'art. 512  c.p.p.,  tale  potendosi  considerare
 solo  l'impossibilita'  di  ottenere  la  presenza  del dichiarante o
 l'impossibilita' di procedere comunque all'esame dipendente da  fatti
 o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni.
   Poiche',  pero', la diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta -
 naturale  (quale  il  decesso  o  l'infermita')  o  giuridica  (quale
 l'esercizio  del  diritto  al  silenzio)  -  non  puo'  in alcun modo
 giustificare   la    diversificazione    della    disciplina    della
 utilizzabilita',   sia   perche'   l'effetto  sull'atto  e'  identico
 (irripetibilita'),  sia  perche'  l'unica  differenza   riguarda   il
 dichiarante  ma  non  i  soggetti  raggiunti dalle sue dichiarazioni,
 rispetto ai quali le diverse cause di irripetibilita' agiscono  nella
 stessa  maniera, rendendo impossibile il contraddittorio, e' evidente
 la irragionevole disparita' di trattamento esistente  fra  l'imputato
 raggiunto  da  fonti  di  prova  acquisite  nella fase delle indagini
 preliminari in assenza di contraddittorio,  irripetibili  nella  fase
 del  giudizio per cause naturali e quindi pienamente utilizzabili per
 la decisione e l'imputato raggiunto da fonti di prova acquisite prima
 del dibattimento  senza  contraddittorio,  divenute  irripetibili  in
 dibattimento  per  l'esercio  del  diritto  al  silenzio da parte del
 dichiarante, non utilizzabili invece ai fini della decisione.
   Piu'  di  recente  la  Corte  costituzionale,  nel  respingere  una
 questione   di   legittimita'   costituzionale,   ha   osservato  che
 l'esercizio in dibattimento del diritto di astenersi  dal  rispondere
 da  parte  di teste-prossimo congiunto, che in sede di indagini aveva
 deciso di  rendere  dichiarazioni,  costituisce  un'oggettiva  e  non
 prevedibile  impossibilita'  di  ripetizione  dell'atto dichiarativo,
 donde la sua acquisibilita' (sentenza n.  179/1994).
   Orbene, se l'esercizio del diritto di non rispondere costituisce un
 fatto di oggettiva e non prevedibile impossibilita' (sopravvenuta) di
 ripetizione  dell'atto  dichiarativo,  e'  evidente   l'irragionevole
 disparita' di trattamento esistente tra l'imputato raggiunto da fonti
 di prova costituite da dichiarazioni di prossimi congiunti, acquisite
 durante  le  indagini  preliminari  in  assenza  di  contraddittorio,
 irripetibili  in  dibattimento  in  conseguenza  dell'esercizio   del
 diritto  di astenersi dal rispondere e pienamente utilizzabili per la
 decisione  e  l'imputato  raggiunto  da  fonti  di  prova  quali   le
 dichiarazioni   del   coimputato   o  dell'imputato  in  procedimento
 connesso, divenute irripetibili in dibattimento per  l'esercizio  del
 diritto al silenzio, ma non utilizzabili ai fini della decisione.
   Ne'   la  diversa  natura  dei  due  tipi  di  prova  dichiarativa,
 provenienti da testimoni le prime, da altri imputati le seconde, puo'
 giustificare  la  diversita'  di  trattamento  e,   soprattutto,   la
 diversita'  di  conseguenza  in  tema  di  acquisizione  della  prova
 medesima. Rilevava al riguardo la Corte costituzionale  (sentenza  n.
 254/1992  cit.)  che  le  dichiarazioni  di imputati e di imputati in
 procedimento  connesso  "sono  soggette  ad  un   canone   valutativo
 particolare  (... art. 192, commi 3 e 4 c.p.p.)  il quale nel momento
 in cui circonda di cautele tali mezzi di prova, evidenzia allo stesso
 tempo ancor  piu'  l'irragionevolezza  di  ipotesi  ...  di  assoluta
 inacquisibilita' dei medesimi ai fini da decisione".
   L'unica  fonte  probatoria  di  tipo dichiarativo interessata dalla
 riforma della legge n. 267/1997 e' invero quella delle  dichiarazioni
 dei coimputati e delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p.
   Le   restrizioni   imposte   dalla   suddetta   legge  in  tema  di
 utilizzabilita'  non  riguardano  invece  l'altra  fonte   probatoria
 dichiarativa  rappresentata dalle dichiarazioni testimoniali, sebbene
 anche con riguardo ad esse si possa porre  la  medesima  esigenza  di
 assicurazione  del contraddittorio.  Sicche', se il principio sotteso
 alla riforma dell'art. 513 c.p.p., operata dalla legge 7 agosto 1997,
 n. 267 e' quello secondo cui nessuno puo' subire gli effetti  di  una
 prova  (dichiarativa)  alla  cui  assunzione non abbia partecipato, a
 meno che non vi consenta, non si vede perche' un  siffatto  principio
 non  debba  trovare applicazione per ogni tipo di prova dichiarativa,
 posto che le diversita' ontologiche esistenti  fra  le  dichiarazioni
 dei  testi  da  una  parte  e  quelle  degli imputati e delle persone
 indicate nell'art.  210  c.p.p.  dall'altro,  se  giustificano,  come
 detto,  un  diverso  regime  di valutazione, non giustificano in modo
 alcuno     diversita'     sul     piano    dell'acquisibilita'    e/o
 dell'utilizzabilita'  della  prova,  le  quali   ultime   finirebbero
 ineluttabilmente  per risolversi, una volta di piu', in un profilo di
 inammissibile  violazione  del  principio  di   uguaglianza   sancito
 dall'art. 3 della Costituzione.
   Non puo' sicuramente non condividersi il principio ispiratore della
 norma  di  cui  all'art. 513 novellato. Essa in sostanza sancisce che
 intanto e' pienamente utilizzabile ai fini della decisione una  prova
 dichiarativa   costituita   dalle  dichiarazioni  accusatorie  di  un
 imputato o delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. in quanto tale
 prova si  forma  in  dibattimento  secondo  i  canoni  dell'oralita',
 dell'immediatezza e del contraddittorio.
   La  prova  in  questione  e'  altresi'  utilizzabile  ai fini della
 decisione, pur quando si sia formata fuori e prima del  dibattimento,
 se  essa  sia  stata  assunta in sede di incidente probatorio (con le
 forme, dunque, stabilite per il dibattimento) ovvero, anche, in  sede
 di  udienza  preliminare,  se  si sia proceduto qui ad interrogatorio
 dell'imputato nelle forme degli artt. 498 e 499 c.p.p. cioe',  ancora
 una volta, nelle forme dibattimentali dell'esame e del controesame.
   Al  di  fuori di questi casi e modi di assunzione, le dichiarazioni
 di imputati e  di  imputati  "connessi"  sono  inutilizzabili  o  non
 acquisibili  in  dibattimento:  in particolare, sono inutilizzabili o
 non acquisibili tutte le dichiarazioni  rese  dai  predetti  fuori  e
 prima  del  dibattimento  ed  in  difetto  di  contraddittorio, ove i
 dichiaranti, in dibattimento, si avvalgano del diritto al silenzio, a
 meno che l'imputato che da quelle dichiarazioni e' raggiunto non sani
 il difetto di contraddittorio attraverso l'espressione  del  consenso
 all'utilizzazione delle dichiarazioni stesse nei propri confronti (si
 e' gia' sottolineato, peraltro, il vulnus al principio di uguaglianza
 rappresentato  dalla  diversa  previsione  del  primo e secondo comma
 dell'art. 513 novellato in tema di  utilizzabilita'  delle  pregresse
 dichiarazioni  accusatorie).  Cio' nondimeno, a ben riflettere, se il
 principio e' quello dell'utilizzabilita' solo di  dichiarazioni  rese
 secondo  la  tecnica  dell'esame  e  del  controesame,  anche  non in
 dibattimento,  di  fatto  non  resta  esclusa  l'utilizzabilita'   di
 dichiarazioni  dibattimentali spontanee di uno dei coimputati, aventi
 contenuto  accusatorio   identico   a   quello   di   sue   pregresse
 dichiarazioni predibattimentali, con l'effetto che queste ultime, non
 utilizzabili  in  tal  caso  neppure  ai  fini  della  contestazione,
 "rivivono" senza il filtro e la  garanzia  dell'esame  incrociato.  E
 tanto, senza considerare che una tale ipotesi potrebbe anche condurre
 all'acquisizione  di dichiarazioni spontanee di tenore diametralmente
 opposto o del tutto contrario a quelle rese dal  medesimo  coimputato
 prima del dibattimento.
   Ed in cio' non puo' ancora una volta non ravvisarsi una irrazionale
 disparita'   di  trattamento  tra  il  coimputato  accusato  da  tali
 dichiarazioni spontanee, comunque  rese  al  di  fuori  dello  schema
 dell'esame  incrociato in contraddittorio, e il coimputato che invece
 sia raggiunto esclusivamente da pregresse  dichiarazioni  accusatorie
 non  ribadite  a dibattimento per l'esercizio del diritto al silenzio
 da parte del dichiarante.
   In ogni caso, attraverso la nuova formulazione  dell'art.  513,  il
 legislatore  ha  inteso fornire una risposta alle critiche mosse alla
 precedente normativa, da piu' parti considerata lesiva del diritto di
 difesa dell'imputato, laddove  consentiva  la  piena  utilizzabilita'
 delle  dichiarazioni  di  soggetti, anche, eventualmente, estranei al
 processo, raccolte in assenza di contraddittorio.
   Vi e' pero' da chiedersi se il nuovo sistema, pur imperniato  sulla
 salvaguardia  del  diritto  al contraddittorio, quale estrinsecazione
 primaria  e  fondamentale  del   diritto   di   difesa,   che   trova
 consacrazione  anche  nell'art.  6    della dichiarazione dei diritti
 dell'uomo  e  del  cittadino,  non  collida  con  una  o  piu'  norme
 costituzionali o principi di rilevanza costituzionale enucleati dalla
 giurisprudenza  della  Consulta, laddove rimette di fatto alla scelta
 discrezionale ed insindacabile del  dichiarante,  cosi'  in  sede  di
 incidente  probatorio  come  all'udienza  preliminare, come infine in
 dibattimento, l'esperibilita' materiale del contraddittorio  ed  alla
 scelta,  altresi,  dell'imputato che dovrebbe subirne gli effetti, la
 conoscibilita' da parte  del  giudice  delle  dichiarazioni  rese  da
 imputi  ed  imputati "connessi" prima del dibattimento, in assenza di
 contraddittorio.
   Non v'e' dubbio, infatti, che la nuova disciplina, nel risolvere il
 rapporto tra la fase delle indagini  e  quella  del  giudizio  e,  in
 particolare, nel disciplinare la trasmigrazione, interna al processo,
 di  atti  probatori formatisi nella fase predibattimentale in assenza
 di contraddittorio, da tale fase a quella del giudizio,  abbia  posto
 una  regola  di  esclusione  di  tale  trasmigrazione, attivata, come
 detto, da una scelta insindacabile del dichiarante di  esercitare  il
 diritto  al  silenzio  e  rimuovibile  solo  da  una dichiarazione di
 volonta' dell'imputato  che  di  quella  prova  dovrebbe  subire  gli
 effetti.
   Il  problema  e'  quello  di  stabilire se il sistema disegnato dal
 legislatore del '97, con positivizzazione del  principio  dispositivo
 in  materia  di  prove,  accentuazione  del  carattere  del  processo
 accusatorio vigente come processo di parti ed imposizione  di  limiti
 tanto   evidenti   nella   formazione   del   razionale   e  motivato
 convincimento del  giudice,  non  presenti,  oltre  ai  profili  gia'
 evidenziati  di  violazione  del principio di uguaglianza, aspetti di
 incompatibilita' con  le  norme  ed  i  principi  costituzionali  che
 riguardano  i caratteri della azione e della giurisdizione penale, la
 tunzione del processo penale, la valenza assegnata al suo interno  al
 principio  della  ricerca  della  verita'  cd.  reale o materiale, in
 contrapposto a quella cd. formale o processuale.
   Si tratta in definitiva di verificare se e fino a che  punto,  allo
 scopo  di  tutelare  il principio del contraddittorio, possono essere
 introdotti nell'ambito del vigente sistema accusatorio dei meccanismi
 che impediscono l'utilizzabilita' per una giusta decisione di  alcune
 delle fonti di prova raccolte dal p.m. in assenza del contraddittorio
 e  che, come accaduto nel presente processo, successivnente alla loro
 assunzione, siano divenute irripetibili sostanzialmente per  volonta'
 di  legge.  E  non  puo'  non  essere  rimarcata  a  questo  punto la
 circostanza che il materiale  probatorio  penalizzato  dalla  riforma
 legislativa viene propriamente a coincidere con la tipologia di prova
 che  storicamente  ha  costituito  e rappresentato tuttora l'elemento
 portante nei processi per i delitti di criminalita' organizzata e per
 i reati contro la pubblica amministrazione, con particolare  riguardo
 ai  fatti di corruzione:  si tratta in sostanza delle confessioni con
 chiamate in  correita',  rese  dall'associato  poi  distaccatosi  dal
 sodalizio di appartenenza, e dal complice (corruttore o corrotto) nel
 delitto a concorso necessario di cui agli artt. 318 ss. c.p.
   Ai  riguardo  non  possono  non  porsi in luce immediatamente altri
 profili di possibili disparita' di trattamento.
   Invero, in ipotesi di separazione di procedimenti e diverse  scelte
 del   coindagato-coimputato  chiamato  a  rendere  dichiarazioni  nei
 diversi processi separati, puo' infatti accadere che  gli  esiti  dei
 distinti  giudizi  risultino  del  tutto  opposti  in conseguenza del
 diverso atteggiamento  del  coimputato  stesso,  e  puo'  verificarsi
 altresi'  che  la  dispersione  di  una prova pur raccolta nella fase
 delle indagini impedisca la consacrazione  di  un  dato  storico,  di
 contro  affermato  in  altro  processo.    In  tali  casi, qualora il
 dichiarante chiamante in correita' si avvalga della facolta'  di  non
 rispondere  in  sede  dibattimentale, in un processo, ma non in altro
 processo separato, ovvero in tale processo separato ritratti o decida
 di  rispondere  selettivamente  alle  domande,  nella  ricorrenza  di
 ulteriori  elementi  di prova puo' accadere che taluni degli accusati
 possano essere condannati  in  un  processo,  ed  altri  assolti  nel
 separato processo.
   Una doppia verita' e' destinata ad emergere anche nell'ambito di un
 medesimo  processo per effetto della immediata applicazione del comma
 1 dell'art. 513, poiche' l'utilizzabilita'  nei  confronti  del  solo
 dichiarante  delle proprie precedenti dichiarazioni autoaccusatorie e
 nei confronti dei soli altri imputati che  vi  consentono  di  quelle
 stesse dichiarazioni, contenenti accuse anche nei confronti di terzi,
 puo'  portare,  in  processi  per delitti a concorso necessario, alla
 condanna del dichiarante (ad esempio come corruttore o come partecipe
 ad una associazione mafiosa) ed all'assoluzione degli altri  imputati
 (come  corrotti o come partecipi di quella medesima associazione); il
 tutto,  peraltro,  come  conseguenza  di  una  scelta  arbitraria  ed
 incontrollabile dell'imputato che, esercitando un diritto al silenzio
 che   non   lo   preserva  dagli  effetti  delle  proprie  precedenti
 dichiarazioni, e che  tuttavia  gli  viene  riconosciuto  in  maniera
 incondizionata, impedisce il contraddittorio e quindi l'utilizzazione
 di  quelle  stesse dichiarazioni nei confronti dei coimputati che non
 vi consentono.
   I principi all'inizio richiamati, e  contenuti  nella  sentenza  n.
 254/1992  della  Corte,  lungi  dal  rappresentare  una novita' negli
 orientamenti  della  Corte  stessa,   evidenziano   una   continuita'
 giurisprudenziale.  Tra questi il principio della non dispersione dei
 mezzi  di prova trova il suo fondamento negli artt. 2, 3 e 25 secondo
 comma della Costituzione, i quali impongono la ricerca della  verita'
 come  fine  primario  ed  ineludibile  del processo penale e cio', in
 armonia  con  un  sistema  retto  dai   principi   di   solidarieta',
 uguaglianza  e legalita'.   In proposito, nella sentenza n. 255/1992,
 la Corte ha tra l'altro affermato che l'oralita' "assunta a principio
 ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta  nella  disciplina  del
 codice   il  veicolo  esclusivo  della  formazione  della  prova  nel
 dibattimento; cio' perche' fine primario ed ineludibile del  processo
 penale  non  puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in
 armonia con  i  principi  della  Costituzione;  come  reso  esplicito
 dall'art.  2,  prima  parte  nella  direttiva  73 della legge-delega,
 tradottasi nella formulazione degli artt. 506, 507 c.p.p.)  di  guisa
 che  in  taluni  casi  in  cui  la  prova  non possa affatto prodursi
 oralmente  e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in
 volta indicate, ad atti formatisi prima e fuori del dibattimento  ...
 il  sistema  accusatorio  positivamente  instaurato  ha  prescelto la
 dialettica  del   contraddittorio   dibattimentale   quale   criterio
 maggiormente  rispondente  all'esigenza  di ricerca della verita'; ma
 accanto al principio dell'oralita' e'  presente,  nel  nuovo  sistema
 processuale,  il  principio  della  non dispersione degli elementi di
 prova non compiutamente  (o  non  genuinamente)  acquisibili  con  il
 metodo  orale  (sentenza  n.  255/1992).  Analogamente,  il principio
 dell'obbligatorieta' dell'azione  penale,  strettamente  connesso  al
 principio  di  legalita', deve ritenersi incompatibile con "... norme
 di metodologia processuale che ostacolino in  modo  irragionevole  il
 processo  di  accertamento del fatto storico necessario per pervenire
 ad una giusta decisione".
   Conclusivamente il principio  dell'oralita',  nel  vigente  assetto
 costituzionale,  deve  ritenersi  contemperato,  se  non limitato, da
 principi allo stesso sovraordinati, tra i  quali  e'  da  annoverarsi
 certamente quello della conservazione delle prove.
   Da   tanto   discende  l'inesattezza  della  individuazione  di  un
 principio dispositivo nel processo penale, poiche'  il  giudice,  una
 volta  assunte  tutte  le  prove  richieste dalle parti, avra' sempre
 l'obbligo di acquisire direttamente tutti gli elementi ulteriori  che
 valutera' come indispensabili ai fini della decisione, senza pertanto
 che   le   parti   possano   conservare  un  qualsivoglia  potere  di
 condizionamento sull'accesso del materiale probatorio alla cognizione
 del giudice, che si rivelerebbe dunque incostituzionale.
   Ne deriva, a parere del Collegio,  la  non  manifesta  infondatezza
 della   dedotta   questione   di  illegittimita'  costituzionale  per
 contrasto della norma di cui all'art. 513 come novellata in  rapporto
 all'art.    101 della Costituzione, cosi' come in rapporto alla norma
 dell'art.    112  della  Costituzione  nonche'   alle   altre   norme
 costituzionali  (artt.    2,  3,  24,  25),  alle  stesse  variamente
 collegate.
   Invero, nella vigenza del principio della  soggezione  del  giudice
 soltanto  alla legge, un principio dispositivo - come osservato dalla
 Corte costituzionale - non puo' dirsi neppure  "esistente  sul  piano
 probatorio,   perche'   cio'   significherebbe  rendere  disponibile,
 indirettamente, la res iudicanda". Orbene, se la indisponibilita' del
 processo penale si traduce in una indisponibilita' della prova per le
 parti  ed  il  potere  di  decisione  del  giudice  non  puo'  essere
 condizionato  nel merito da scelte processuali delle parti, a maggior
 ragione tale potere di decisione non puo'  essere  condizionato,  nel
 merito,  dal  verificarsi  di  una  condizione  meramente potestativa
 costituita dall'esercizio  del  diritto  al  silenzio,  rimessa  alla
 volonta'  insindacabile di un soggetto. A tal proposito, va rimarcato
 che viceversa il legislatore, in materia di prove testimoniali, si e'
 preoccupato di dare rilievo ai  motivi  dell'eventuale  silenzio  del
 teste  a  dibattimento,  nel  prevedere  il  recupero  e  la  valenza
 probatoria diretta delle dichiarazioni dallo stesso rese in  sede  di
 indagine,  nel  caso in cui il teste sia stato sottoposto a violenze,
 minacce, offerta o promessa di denaro o di altra utilita', ovvero  ad
 altre  situazioni  che ne abbiano compromesso la genuinita' od infine
 che abbiano indotto il teste stesso a non deporre (art. 500  comma  4
 c.p.p.); ond'e' che nella mancata previsione di tanto con riferimento
 al   silenzio   serbato  in  dibattimento  da  imputati  ed  imputati
 "connessi"  non  puo'  non  rinvenirsi  un   ulteriore   profilo   di
 illegittimita'   costituzionale   sub   specie  della  disparita'  di
 trattamento.
   Per questi vari motivi deve ritenersi non manifestamente  infondata
 l'eccezione  di  illegittimita'  costituzionale  dell'art. 513 c.p.p.
 come novellato, nella  parte  in  cui  subordina  al  consenso  degli
 imputati  l'utilizzabilita'  nei  propri  confronti  dei  verbali  di
 dichiarazioni rese, nel corso delle indagini  preliminari,  da  altri
 imputati,  i  quali  abbiano dichiarato nel corso del dibattimento di
 avvalersi sic et simpliciter del diritto al silenzio.
   Ne' questo incondizionato riconoscimento del diritto al silenzio e'
 in funzione della tutela del principio del nemo tenetur...,  poiche',
 proprio  nei  confronti del dichiarante che lo eserciti, le pregresse
 sue dichiarazioni,  in  quanto  di  contenuto  autoaccusatorio,  sono
 destinate  comunque ad essere utilizzate nel separato processo che lo
 riguarda,  sicche'  in  definitiva,  per  la  parte   in   cui   tali
 dichiarazioni sono accusatorie nei confronti di altri, e' puramente e
 semplicemente  irragionevole  quel  riconoscimento incondizionato, in
 quanto risolventesi nel riconoscimento al dichiarante della  facolta'
 di  inibire  il  contraddittorio  e  la  conoscibilita'  da parte del
 giudice di dichiarazioni  (peraltro  legittimamente  acquisite  nella
 fase delle indagini dal p.m., quale organo pubblico dell'accusa).
   L'attribuzione  di una condizione potestativa al dichiarante appare
 altresi' in contrasto con il principio di obbligatorieta' dell'azione
 penale,  di  cui  all'art.  112  della  Costituzione,  poiche',   nel
 rimettersi  in  tal  modo  alla  piena  disponibilita' delle parti lo
 stesso  svolgersi  del  processo  e  dunque  lo  stesso   svilupparsi
 dell'azione  penale,  si  preclude  la  possibilita'  che il processo
 accerti il fatto storico necessario  "per  pervenire  ad  una  giusta
 decisione" (cfr. sentenze nn. 88/1991 e 291/1994).
    E  tale  profilo  di non manifesta infondatezza della questione si
 rivela ancor piu' evidente con  riferimento  alla  norma  transitoria
 dettata  dalla  stessa  novella  del '97, in conseguenza della quale,
 dopo che l'azione penale sia stata gia' esercitata,  e'  la  mera  ed
 incontrollabile  volonta'  di un soggetto - talora del tutto estraneo
 al processo - che ne determina le sorti, con  palese  violazione  del
 richiamato  principio di obbligatorieta' dell'azione penale nella sua
 connessione con il favor actionis.
   Non costituisce di certo compito del giudice indicare la  soluzione
 allo   stallo   derivante  dall'esercizio  del  diritto  al  silenzio
 dell'imputato o coimputato in procedimento connesso -  anch'esso  per
 altro  verso  costituzionalmente garantito -, ma rappresenta comunque
 suo dovere rilevare irrazionali risoluzioni dal medesimo  legislatore
 adottate,  allorche'  queste  finiscano  con  il  violare  i principi
 dettati dalla Legge fondamentale.
   Sembra al Collegio che la teorizzazione d'un principio  dispositivo
 nell'ambito  del  processo  penale,  di  cui  alla  recente  modifica
 dell'art.   513 c.p.p.,  collida  fortemente  con  norme  e  principi
 costituzionali  consolidati e, se e' vero che la funzione del giudice
 si attua e si esalta nel momento del contraddittorio -  inteso  quale
 strumento  idoneo alla ricerca della verita' -, devesi concludere che
 nessuna  limitazione   il   giudicante   medesimo   puo'   incontrare
 nell'espletamento di detta attivita'; men che meno alcuna limitazione
 potra'   sussistere,   ove   questa   derivi   da   un'inopinata   ed
 incontrollabile preclusione  consistente  nel  silenzio  di  soggetti
 chiamati  anch'essi  a  rendere  possibile la verifica dibattimentale
 (l'imputato, nel caso dell'art.   513  comma  1  c.p.p.;  le  persone
 indicate nell'art. 210 c.p.p., nel caso del secondo comma della norma
 in esame).
   Se   dunque  il  principio  del  contraddittorio  va  assolutamente
 salvaguardato, non solo per i motivi gia' espressi in relazione  alla
 sua  indiscutibile  valenza  costituzionale,  ma  anche  perche' esso
 garantisce  un  maggior   tasso   di   attendibilita'   della   prova
 dichiarativa  e  quindi  un  miglior  perseguimento dell'accertamento
 della verita' reale, va rilevato che tale principio nella novella del
 '97 e'  solo  apparentemente  tutelato,  poiche'  rimesso  nella  sua
 concreta  esperibilita'  esclusivamente alla decisione di un soggetto
 talora anche estraneo al processo.