IL TRIBUNALE Decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267/1997, sollevato dal p.m. all'udienza del 15 dicembre 1997 nel processo a carico di Alvarez Ricardo Mauricio + 30, imputati - la maggior parte dei quali detenuti -, dei reati di cui agli artt. 74 e 73 d.P.R. n. 309/1990; Sentite le parti; Ha pronunziato la seguente ordinanza all'udienza del 22 dicembre 1997; La questione di legittimita' costituzionale di cui in epigrafe appare rilevante ai fini della decisione nella presente vicenda processuale, e non risulta manifestamente infondata. La rilevanza In relazione al parametro della rilevanza, va considerato che l'attuale processo si origina da un'articolata attivita' investigativa, protrattasi nell'arco di circa un anno, concernente un illecito traffico di sostanze stupefacenti importate in Italia, attraverso corrieri di nazionalita' colombiana, da paesi sudamericani. In particolare, le indagini sono consistite in una serie di intercettazioni telefoniche, - gran parte delle quali, peraltro, sono state dichiarate inutilizzabili da questo stesso tribunale per insussistenza e/o carenza di motivazione in ordine ai relativi decreti autorizzativi e/o di proroga -, e in indagini di p.g. Altri, non secondari elementi posti a fondamento della prospettazione accusatoria, risultano costituiti da dichiarazioni rese, nel corso delle indagini preliminari, da taluni dei coindagati i quali, oltre a rendere dichiarazioni ammissive della propria responsabilita', ne hanno rese di ulteriori, relative a responsabilita' altrui: cio' in relazione, segnatamente, all'ipotesi accusatoria di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/1990. In tale contesto, vanno segnalati gli asserti degli attuali imputati Boccia Tommaso e Carra Patrizia e quelli di altri coimputati. Cio' premesso, alle udienze del 1 dicembre 1997 e 15 dicembre 1997, i sovrascritti Boccia e Carra ed altri coimputati, il cui esame era stato ammesso a richiesta del p.m., si sono rifiutati di sottoporsi a tale mezzo di prova, sicche' le dichiarazioni da costoro rese in costanza di indagini preliminari, per effetto della nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p., non risultano utilizzabili nei confronti degli altri imputati, avendo costoro - ad eccezione di due di essi - denegato il proprio consenso all'utilizzabilita' stessa. Determinatasi tale situazione, il p.m., alla medesima udienza del 15 dicembre 1997, sollevava eccezione di legittimita' costituzionale della norma di cui all'art. 513 c.p.p., come novellata dalla legge 7 agosto 1997, n. 267 per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 25, 101 e 112 della Costituzione. Alcuni difensori interloquivano in ordine alla questione, gli altri venivano ammessi a farlo anche successivamente a mezzo di memorie scritte. All'udienza odierna il tribunale riservava la decisione nel merito della questione. Tanto premesso, non pare vi possa essere dubbio alcuno circa la rilevanza della questione sollevata dal p.m., essendo evidente che l'accoglimento della medesima da parte della Corte costituzionale - con conseguente declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma nella parte in cui subordina al consenso degli imputati (comma 1) o all'accordo delle parti (comma 2) l'utilizzabilita' ai fini della decisione delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati o delle persone indicate nell'art. 210 cp.p., che abbiano deciso di avvalersi in dibattimento del diritto al silenzio -, renderebbe di fatto nuovamente applicabili il primo e secondo comma dell'art. 513 previgente, cosi' come integrato il capoverso dalla sentenza n. 254/1992 della Consulta, e, di conseguenza, per cio' che qui interessa, conoscibili e valutabili da parte del giudice le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari o all'udienza preliminare del presente processo, da parte di alcuni degli attuali imputati, aventi contenuto accusatorio nei confronti di altri. La non manifesta infondatezza Ai fini della valutazione di non manifesta infondatezza della dedotta questione di legittimita' costituzionale il giudice deve raffrontare la norma sospettata di illegittimita' non solo con le specifiche disposizioni costituzionali di riferimento, ma anche con l'interpretazione che delle stesse e' stata fornita, fino a quel dato momento, dalla Corte costituzionale e, dunque, con i principi informatori della Costituzione medesima, quali enucleati dalla Corte costituzionale con la propria giurisprudenza interpretativa. E' proprio alla stregua di una tale premessa metodologica - presente anche nella sentenza n. 111/1993 della Corte costituzionale - che la questione dedotta va ritenuta non manifestamente infondata gia' in forza della considerazione che la nuova disciplina dell'art. 513 comma 2 c.p.p. ripropone, in pratica, l'originaria disciplina codicistica gia' ritenuta illegittima dalla Corte costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 76 della Costituzione nella parte in cui non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura dei verbali di dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si fossero avvalse della facolta' di non rispondere (sentenza n. 254/1992). Ne' la ridisegnazione della norma dell'art. 513 c.p.p., con la previsione al comma 1 della non utilizzabilita' nei confronti degli altri imputati che non vi consentano delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato contumace, assente o che si rifiuti di sottoporsi ad esame ha eliminato del tutto quella disparita' di trattamento che derivava dalla differente disciplina apprestata dal primo e dal secondo comma dell'art. 513 previgente in ordine alla lettura delle dichiarazioni rese prima del dibattimento dalle persone imputate in procedimento connesso o collegato "a seconda che nei loro confronti si proceda in unico processo cumulativo ovvero separatamente": invero, l'utilizzazione contra alios delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato che sia contumace, assente o che si rifiuti di sottoporsi ad esame nel processo cumulativo e' subordinata, come detto, al mero consenso degli altri imputati, quella invece delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato giudicato separatamente dagli altri, che si avvalga della facolta' di non rispondere, e' subordinata all'accordo di tutte le parti del processo. Permane, dunque, in maniera del tutto irragionevole, una grave disparita' di trattamento per imputati raggiunti dalle dichiarazioni (accusatorie o non) di altri imputati, a seconda che questi ultimi siano giudicati cumulativamente o separatamente, con il pericolo, in questa seconda evenienza, di serio pregiudizio anche per il diritto di difesa e, in genere, per le aspettative difensive di coloro che da quelle dichiarazioni sono raggiunti nel caso in cui, avendo esercitato il dichiarante il diritto al silenzio, non vi sia accordo di tutte le parti ai fini della loro lettura e siano state rese anche dichiarazioni favorevoli a tutti o ad alcuni degli imputati. Inoltre, la nuova disciplina del primo comma e la reviviscenza dell'originaria disciplina del secondo comma dell'art. 513 volute dal legislatore del '97, non posssono non essere ritenute prive di ogni ragionevole giustificazione alla stregua della giurisprudenza costituzionale in tema di atto irripetibile. Nella citata sentenza n. 254/1992 la Corte costituzionale afferma che tanto l'imputato, quanto le persone indicate nell'art. 210 c.p.p. hanno la possibilita' di sottrarsi in tutto o in parte all'esame, "cosi' determinando, nel caso in cui avessero reso precedenti dichiarazioni, quel tipo di situazione che lo stesso legislatore delegato ha inteso qualificare come un'ipotesi di impossibilita' sopravvenuta di ripetizione dell'atto", categoria (di cui alla direttiva n. 76 della legge-delega) in cui il legislatore delegato "ha inteso comprendere - appunto - anche l'indisponibilita' dello stesso imputato all'esame (cfr. relazione al progetto preliminare) e cio' in linea con il criterio ... tendente a contemperare il rispetto del principio guida dell'oralita' con l'esigenza di evitare ... la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede". In pieno contrasto con tale impostazione, la nuova disciplina sancisce che l'esercizio del diritto al silenzio da parte dell'imputato o dell'imputato "connesso", che aveva reso prima del dibattimento dichiarazioni autoaccusatorie e accusatorie nei confronti di altri, non costituisce sopravvenuta impossibilita' di ripetizione dell'atto e non rende pertanto "recuperabile" l'atto stesso in virtu' dell'art. 512 c.p.p., tale potendosi considerare solo l'impossibilita' di ottenere la presenza del dichiarante o l'impossibilita' di procedere comunque all'esame dipendente da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Poiche', pero', la diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta - naturale (quale il decesso o l'infermita') o giuridica (quale l'esercizio del diritto al silenzio) - non puo' in alcun modo giustificare la diversificazione della disciplina della utilizzabilita', sia perche' l'effetto sull'atto e' identico (irripetibilita'), sia perche' l'unica differenza riguarda il dichiarante ma non i soggetti raggiunti dalle sue dichiarazioni, rispetto ai quali le diverse cause di irripetibilita' agiscono nella stessa maniera, rendendo impossibile il contraddittorio, e' evidente la irragionevole disparita' di trattamento esistente fra l'imputato raggiunto da fonti di prova acquisite nella fase delle indagini preliminari in assenza di contraddittorio, irripetibili nella fase del giudizio per cause naturali e quindi pienamente utilizzabili per la decisione e l'imputato raggiunto da fonti di prova acquisite prima del dibattimento senza contraddittorio, divenute irripetibili in dibattimento per l'esercio del diritto al silenzio da parte del dichiarante, non utilizzabili invece ai fini della decisione. Piu' di recente la Corte costituzionale, nel respingere una questione di legittimita' costituzionale, ha osservato che l'esercizio in dibattimento del diritto di astenersi dal rispondere da parte di teste-prossimo congiunto, che in sede di indagini aveva deciso di rendere dichiarazioni, costituisce un'oggettiva e non prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo, donde la sua acquisibilita' (sentenza n. 179/1994). Orbene, se l'esercizio del diritto di non rispondere costituisce un fatto di oggettiva e non prevedibile impossibilita' (sopravvenuta) di ripetizione dell'atto dichiarativo, e' evidente l'irragionevole disparita' di trattamento esistente tra l'imputato raggiunto da fonti di prova costituite da dichiarazioni di prossimi congiunti, acquisite durante le indagini preliminari in assenza di contraddittorio, irripetibili in dibattimento in conseguenza dell'esercizio del diritto di astenersi dal rispondere e pienamente utilizzabili per la decisione e l'imputato raggiunto da fonti di prova quali le dichiarazioni del coimputato o dell'imputato in procedimento connesso, divenute irripetibili in dibattimento per l'esercizio del diritto al silenzio, ma non utilizzabili ai fini della decisione. Ne' la diversa natura dei due tipi di prova dichiarativa, provenienti da testimoni le prime, da altri imputati le seconde, puo' giustificare la diversita' di trattamento e, soprattutto, la diversita' di conseguenza in tema di acquisizione della prova medesima. Rilevava al riguardo la Corte costituzionale (sentenza n. 254/1992 cit.) che le dichiarazioni di imputati e di imputati in procedimento connesso "sono soggette ad un canone valutativo particolare (... art. 192, commi 3 e 4 c.p.p.) il quale nel momento in cui circonda di cautele tali mezzi di prova, evidenzia allo stesso tempo ancor piu' l'irragionevolezza di ipotesi ... di assoluta inacquisibilita' dei medesimi ai fini da decisione". L'unica fonte probatoria di tipo dichiarativo interessata dalla riforma della legge n. 267/1997 e' invero quella delle dichiarazioni dei coimputati e delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. Le restrizioni imposte dalla suddetta legge in tema di utilizzabilita' non riguardano invece l'altra fonte probatoria dichiarativa rappresentata dalle dichiarazioni testimoniali, sebbene anche con riguardo ad esse si possa porre la medesima esigenza di assicurazione del contraddittorio. Sicche', se il principio sotteso alla riforma dell'art. 513 c.p.p., operata dalla legge 7 agosto 1997, n. 267 e' quello secondo cui nessuno puo' subire gli effetti di una prova (dichiarativa) alla cui assunzione non abbia partecipato, a meno che non vi consenta, non si vede perche' un siffatto principio non debba trovare applicazione per ogni tipo di prova dichiarativa, posto che le diversita' ontologiche esistenti fra le dichiarazioni dei testi da una parte e quelle degli imputati e delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. dall'altro, se giustificano, come detto, un diverso regime di valutazione, non giustificano in modo alcuno diversita' sul piano dell'acquisibilita' e/o dell'utilizzabilita' della prova, le quali ultime finirebbero ineluttabilmente per risolversi, una volta di piu', in un profilo di inammissibile violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Non puo' sicuramente non condividersi il principio ispiratore della norma di cui all'art. 513 novellato. Essa in sostanza sancisce che intanto e' pienamente utilizzabile ai fini della decisione una prova dichiarativa costituita dalle dichiarazioni accusatorie di un imputato o delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. in quanto tale prova si forma in dibattimento secondo i canoni dell'oralita', dell'immediatezza e del contraddittorio. La prova in questione e' altresi' utilizzabile ai fini della decisione, pur quando si sia formata fuori e prima del dibattimento, se essa sia stata assunta in sede di incidente probatorio (con le forme, dunque, stabilite per il dibattimento) ovvero, anche, in sede di udienza preliminare, se si sia proceduto qui ad interrogatorio dell'imputato nelle forme degli artt. 498 e 499 c.p.p. cioe', ancora una volta, nelle forme dibattimentali dell'esame e del controesame. Al di fuori di questi casi e modi di assunzione, le dichiarazioni di imputati e di imputati "connessi" sono inutilizzabili o non acquisibili in dibattimento: in particolare, sono inutilizzabili o non acquisibili tutte le dichiarazioni rese dai predetti fuori e prima del dibattimento ed in difetto di contraddittorio, ove i dichiaranti, in dibattimento, si avvalgano del diritto al silenzio, a meno che l'imputato che da quelle dichiarazioni e' raggiunto non sani il difetto di contraddittorio attraverso l'espressione del consenso all'utilizzazione delle dichiarazioni stesse nei propri confronti (si e' gia' sottolineato, peraltro, il vulnus al principio di uguaglianza rappresentato dalla diversa previsione del primo e secondo comma dell'art. 513 novellato in tema di utilizzabilita' delle pregresse dichiarazioni accusatorie). Cio' nondimeno, a ben riflettere, se il principio e' quello dell'utilizzabilita' solo di dichiarazioni rese secondo la tecnica dell'esame e del controesame, anche non in dibattimento, di fatto non resta esclusa l'utilizzabilita' di dichiarazioni dibattimentali spontanee di uno dei coimputati, aventi contenuto accusatorio identico a quello di sue pregresse dichiarazioni predibattimentali, con l'effetto che queste ultime, non utilizzabili in tal caso neppure ai fini della contestazione, "rivivono" senza il filtro e la garanzia dell'esame incrociato. E tanto, senza considerare che una tale ipotesi potrebbe anche condurre all'acquisizione di dichiarazioni spontanee di tenore diametralmente opposto o del tutto contrario a quelle rese dal medesimo coimputato prima del dibattimento. Ed in cio' non puo' ancora una volta non ravvisarsi una irrazionale disparita' di trattamento tra il coimputato accusato da tali dichiarazioni spontanee, comunque rese al di fuori dello schema dell'esame incrociato in contraddittorio, e il coimputato che invece sia raggiunto esclusivamente da pregresse dichiarazioni accusatorie non ribadite a dibattimento per l'esercizio del diritto al silenzio da parte del dichiarante. In ogni caso, attraverso la nuova formulazione dell'art. 513, il legislatore ha inteso fornire una risposta alle critiche mosse alla precedente normativa, da piu' parti considerata lesiva del diritto di difesa dell'imputato, laddove consentiva la piena utilizzabilita' delle dichiarazioni di soggetti, anche, eventualmente, estranei al processo, raccolte in assenza di contraddittorio. Vi e' pero' da chiedersi se il nuovo sistema, pur imperniato sulla salvaguardia del diritto al contraddittorio, quale estrinsecazione primaria e fondamentale del diritto di difesa, che trova consacrazione anche nell'art. 6 della dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, non collida con una o piu' norme costituzionali o principi di rilevanza costituzionale enucleati dalla giurisprudenza della Consulta, laddove rimette di fatto alla scelta discrezionale ed insindacabile del dichiarante, cosi' in sede di incidente probatorio come all'udienza preliminare, come infine in dibattimento, l'esperibilita' materiale del contraddittorio ed alla scelta, altresi, dell'imputato che dovrebbe subirne gli effetti, la conoscibilita' da parte del giudice delle dichiarazioni rese da imputi ed imputati "connessi" prima del dibattimento, in assenza di contraddittorio. Non v'e' dubbio, infatti, che la nuova disciplina, nel risolvere il rapporto tra la fase delle indagini e quella del giudizio e, in particolare, nel disciplinare la trasmigrazione, interna al processo, di atti probatori formatisi nella fase predibattimentale in assenza di contraddittorio, da tale fase a quella del giudizio, abbia posto una regola di esclusione di tale trasmigrazione, attivata, come detto, da una scelta insindacabile del dichiarante di esercitare il diritto al silenzio e rimuovibile solo da una dichiarazione di volonta' dell'imputato che di quella prova dovrebbe subire gli effetti. Il problema e' quello di stabilire se il sistema disegnato dal legislatore del '97, con positivizzazione del principio dispositivo in materia di prove, accentuazione del carattere del processo accusatorio vigente come processo di parti ed imposizione di limiti tanto evidenti nella formazione del razionale e motivato convincimento del giudice, non presenti, oltre ai profili gia' evidenziati di violazione del principio di uguaglianza, aspetti di incompatibilita' con le norme ed i principi costituzionali che riguardano i caratteri della azione e della giurisdizione penale, la tunzione del processo penale, la valenza assegnata al suo interno al principio della ricerca della verita' cd. reale o materiale, in contrapposto a quella cd. formale o processuale. Si tratta in definitiva di verificare se e fino a che punto, allo scopo di tutelare il principio del contraddittorio, possono essere introdotti nell'ambito del vigente sistema accusatorio dei meccanismi che impediscono l'utilizzabilita' per una giusta decisione di alcune delle fonti di prova raccolte dal p.m. in assenza del contraddittorio e che, come accaduto nel presente processo, successivnente alla loro assunzione, siano divenute irripetibili sostanzialmente per volonta' di legge. E non puo' non essere rimarcata a questo punto la circostanza che il materiale probatorio penalizzato dalla riforma legislativa viene propriamente a coincidere con la tipologia di prova che storicamente ha costituito e rappresentato tuttora l'elemento portante nei processi per i delitti di criminalita' organizzata e per i reati contro la pubblica amministrazione, con particolare riguardo ai fatti di corruzione: si tratta in sostanza delle confessioni con chiamate in correita', rese dall'associato poi distaccatosi dal sodalizio di appartenenza, e dal complice (corruttore o corrotto) nel delitto a concorso necessario di cui agli artt. 318 ss. c.p. Ai riguardo non possono non porsi in luce immediatamente altri profili di possibili disparita' di trattamento. Invero, in ipotesi di separazione di procedimenti e diverse scelte del coindagato-coimputato chiamato a rendere dichiarazioni nei diversi processi separati, puo' infatti accadere che gli esiti dei distinti giudizi risultino del tutto opposti in conseguenza del diverso atteggiamento del coimputato stesso, e puo' verificarsi altresi' che la dispersione di una prova pur raccolta nella fase delle indagini impedisca la consacrazione di un dato storico, di contro affermato in altro processo. In tali casi, qualora il dichiarante chiamante in correita' si avvalga della facolta' di non rispondere in sede dibattimentale, in un processo, ma non in altro processo separato, ovvero in tale processo separato ritratti o decida di rispondere selettivamente alle domande, nella ricorrenza di ulteriori elementi di prova puo' accadere che taluni degli accusati possano essere condannati in un processo, ed altri assolti nel separato processo. Una doppia verita' e' destinata ad emergere anche nell'ambito di un medesimo processo per effetto della immediata applicazione del comma 1 dell'art. 513, poiche' l'utilizzabilita' nei confronti del solo dichiarante delle proprie precedenti dichiarazioni autoaccusatorie e nei confronti dei soli altri imputati che vi consentono di quelle stesse dichiarazioni, contenenti accuse anche nei confronti di terzi, puo' portare, in processi per delitti a concorso necessario, alla condanna del dichiarante (ad esempio come corruttore o come partecipe ad una associazione mafiosa) ed all'assoluzione degli altri imputati (come corrotti o come partecipi di quella medesima associazione); il tutto, peraltro, come conseguenza di una scelta arbitraria ed incontrollabile dell'imputato che, esercitando un diritto al silenzio che non lo preserva dagli effetti delle proprie precedenti dichiarazioni, e che tuttavia gli viene riconosciuto in maniera incondizionata, impedisce il contraddittorio e quindi l'utilizzazione di quelle stesse dichiarazioni nei confronti dei coimputati che non vi consentono. I principi all'inizio richiamati, e contenuti nella sentenza n. 254/1992 della Corte, lungi dal rappresentare una novita' negli orientamenti della Corte stessa, evidenziano una continuita' giurisprudenziale. Tra questi il principio della non dispersione dei mezzi di prova trova il suo fondamento negli artt. 2, 3 e 25 secondo comma della Costituzione, i quali impongono la ricerca della verita' come fine primario ed ineludibile del processo penale e cio', in armonia con un sistema retto dai principi di solidarieta', uguaglianza e legalita'. In proposito, nella sentenza n. 255/1992, la Corte ha tra l'altro affermato che l'oralita' "assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta nella disciplina del codice il veicolo esclusivo della formazione della prova nel dibattimento; cio' perche' fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita' (in armonia con i principi della Costituzione; come reso esplicito dall'art. 2, prima parte nella direttiva 73 della legge-delega, tradottasi nella formulazione degli artt. 506, 507 c.p.p.) di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa affatto prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima e fuori del dibattimento ... il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio dell'oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale (sentenza n. 255/1992). Analogamente, il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale, strettamente connesso al principio di legalita', deve ritenersi incompatibile con "... norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione". Conclusivamente il principio dell'oralita', nel vigente assetto costituzionale, deve ritenersi contemperato, se non limitato, da principi allo stesso sovraordinati, tra i quali e' da annoverarsi certamente quello della conservazione delle prove. Da tanto discende l'inesattezza della individuazione di un principio dispositivo nel processo penale, poiche' il giudice, una volta assunte tutte le prove richieste dalle parti, avra' sempre l'obbligo di acquisire direttamente tutti gli elementi ulteriori che valutera' come indispensabili ai fini della decisione, senza pertanto che le parti possano conservare un qualsivoglia potere di condizionamento sull'accesso del materiale probatorio alla cognizione del giudice, che si rivelerebbe dunque incostituzionale. Ne deriva, a parere del Collegio, la non manifesta infondatezza della dedotta questione di illegittimita' costituzionale per contrasto della norma di cui all'art. 513 come novellata in rapporto all'art. 101 della Costituzione, cosi' come in rapporto alla norma dell'art. 112 della Costituzione nonche' alle altre norme costituzionali (artt. 2, 3, 24, 25), alle stesse variamente collegate. Invero, nella vigenza del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, un principio dispositivo - come osservato dalla Corte costituzionale - non puo' dirsi neppure "esistente sul piano probatorio, perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la res iudicanda". Orbene, se la indisponibilita' del processo penale si traduce in una indisponibilita' della prova per le parti ed il potere di decisione del giudice non puo' essere condizionato nel merito da scelte processuali delle parti, a maggior ragione tale potere di decisione non puo' essere condizionato, nel merito, dal verificarsi di una condizione meramente potestativa costituita dall'esercizio del diritto al silenzio, rimessa alla volonta' insindacabile di un soggetto. A tal proposito, va rimarcato che viceversa il legislatore, in materia di prove testimoniali, si e' preoccupato di dare rilievo ai motivi dell'eventuale silenzio del teste a dibattimento, nel prevedere il recupero e la valenza probatoria diretta delle dichiarazioni dallo stesso rese in sede di indagine, nel caso in cui il teste sia stato sottoposto a violenze, minacce, offerta o promessa di denaro o di altra utilita', ovvero ad altre situazioni che ne abbiano compromesso la genuinita' od infine che abbiano indotto il teste stesso a non deporre (art. 500 comma 4 c.p.p.); ond'e' che nella mancata previsione di tanto con riferimento al silenzio serbato in dibattimento da imputati ed imputati "connessi" non puo' non rinvenirsi un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale sub specie della disparita' di trattamento. Per questi vari motivi deve ritenersi non manifestamente infondata l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. come novellato, nella parte in cui subordina al consenso degli imputati l'utilizzabilita' nei propri confronti dei verbali di dichiarazioni rese, nel corso delle indagini preliminari, da altri imputati, i quali abbiano dichiarato nel corso del dibattimento di avvalersi sic et simpliciter del diritto al silenzio. Ne' questo incondizionato riconoscimento del diritto al silenzio e' in funzione della tutela del principio del nemo tenetur..., poiche', proprio nei confronti del dichiarante che lo eserciti, le pregresse sue dichiarazioni, in quanto di contenuto autoaccusatorio, sono destinate comunque ad essere utilizzate nel separato processo che lo riguarda, sicche' in definitiva, per la parte in cui tali dichiarazioni sono accusatorie nei confronti di altri, e' puramente e semplicemente irragionevole quel riconoscimento incondizionato, in quanto risolventesi nel riconoscimento al dichiarante della facolta' di inibire il contraddittorio e la conoscibilita' da parte del giudice di dichiarazioni (peraltro legittimamente acquisite nella fase delle indagini dal p.m., quale organo pubblico dell'accusa). L'attribuzione di una condizione potestativa al dichiarante appare altresi' in contrasto con il principio di obbligatorieta' dell'azione penale, di cui all'art. 112 della Costituzione, poiche', nel rimettersi in tal modo alla piena disponibilita' delle parti lo stesso svolgersi del processo e dunque lo stesso svilupparsi dell'azione penale, si preclude la possibilita' che il processo accerti il fatto storico necessario "per pervenire ad una giusta decisione" (cfr. sentenze nn. 88/1991 e 291/1994). E tale profilo di non manifesta infondatezza della questione si rivela ancor piu' evidente con riferimento alla norma transitoria dettata dalla stessa novella del '97, in conseguenza della quale, dopo che l'azione penale sia stata gia' esercitata, e' la mera ed incontrollabile volonta' di un soggetto - talora del tutto estraneo al processo - che ne determina le sorti, con palese violazione del richiamato principio di obbligatorieta' dell'azione penale nella sua connessione con il favor actionis. Non costituisce di certo compito del giudice indicare la soluzione allo stallo derivante dall'esercizio del diritto al silenzio dell'imputato o coimputato in procedimento connesso - anch'esso per altro verso costituzionalmente garantito -, ma rappresenta comunque suo dovere rilevare irrazionali risoluzioni dal medesimo legislatore adottate, allorche' queste finiscano con il violare i principi dettati dalla Legge fondamentale. Sembra al Collegio che la teorizzazione d'un principio dispositivo nell'ambito del processo penale, di cui alla recente modifica dell'art. 513 c.p.p., collida fortemente con norme e principi costituzionali consolidati e, se e' vero che la funzione del giudice si attua e si esalta nel momento del contraddittorio - inteso quale strumento idoneo alla ricerca della verita' -, devesi concludere che nessuna limitazione il giudicante medesimo puo' incontrare nell'espletamento di detta attivita'; men che meno alcuna limitazione potra' sussistere, ove questa derivi da un'inopinata ed incontrollabile preclusione consistente nel silenzio di soggetti chiamati anch'essi a rendere possibile la verifica dibattimentale (l'imputato, nel caso dell'art. 513 comma 1 c.p.p.; le persone indicate nell'art. 210 c.p.p., nel caso del secondo comma della norma in esame). Se dunque il principio del contraddittorio va assolutamente salvaguardato, non solo per i motivi gia' espressi in relazione alla sua indiscutibile valenza costituzionale, ma anche perche' esso garantisce un maggior tasso di attendibilita' della prova dichiarativa e quindi un miglior perseguimento dell'accertamento della verita' reale, va rilevato che tale principio nella novella del '97 e' solo apparentemente tutelato, poiche' rimesso nella sua concreta esperibilita' esclusivamente alla decisione di un soggetto talora anche estraneo al processo.