IL TRIBUNALE Decidendo in ordine alla questione di legittimita' costituzionale sollevata dal pubblico ministero in ordine all'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge 7 agosto 1997, n. 267 ed all'art. 6, comma 5, della medesima legge, sentite le altre parti, O s s e r v a 1. - Il 23 aprile 1997 il tribunale, sentite le richieste delle parti, emetteva ordinanza di ammissione delle prove, tra le quali l'esame degli imputati in procedimento connesso Dell'Aglio Luigi, Ruggiero Giuseppe, Castiglioni Gianfranco, Colombo Antonino, Holzmiller Giuseppe, Rittatore Vonwiller Andrea, oltre a tutti gli imputati del presente processo che avevano definito la loro posizione a mezzo di applicazione di pena (Pepe Pietro, Pugliatti Carlo, Orlandi Maurizio, Maiorino Mariano, Palummeri Carmelo, Cavallo Giulio, Bocca Piercarlo, Fusetti Antonio, Napodano Giovanni Bosco). Nel corso della stessa udienza si presentava per l'esame l'imputato in procedimento connesso Dell'Aglio che si avvaleva della facolta' di non rispondere. A seguito di cio' il pubblico ministero chiedeva l'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese dal predetto in fase di indagini preliminari davanti al suo ufficio ed il tribunale, a mente dell'art. 513 c.p.p. cosi' come modificato dalla sentenza Corte costituzionale n. 254 del 1992, disponeva in conformita'. Entrata in vigore la legge n. 267 del 1997, all'udienza del 14 ottobre scorso i difensori degli imputati chiedevano la citazione del suindicato imputato in procedimento connesso per il nuovo esame. Il Dell'Aglio si avvaleva nuovamente della facolta' di non rispondere; veniva quindi introdotto il Ruggiero, il quale pure si avvaleva di tale facolta'. A questo punto il pubblico ministero chiedeva la lettura e l'acquisizione delle dichiarazioni del Ruggiero ed eccepiva l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 e dell'art. 6, comma 5, della stessa legge per contrasto con gli artt. 2, 3, 25 comma secondo, 101, 112 della Costituzione. Le parti interloquivano nel merito dell'eccezione ed il tribunale si riservava di decidere all'odierna udienza. Nelle more la difesa Semilia depositava memoria. 2. - Interpretazione dell'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 dell'8 agosto 1997 e dell'art. 6, commi 2, e 5 della stessa legge. L'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 dispone: "1) Il giudice, se l'imputato e' contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso. 2) Se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell'art. 210, il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o l'esame a domicilio ... ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio. Se non e' possibile ottenere la presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell'art. 512 qualora la impossibilita' dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga della facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l'accordo delle parti. 3) Se le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo sono state assunte ai sensi dell'art. 392, si applicano le disposizioni di cui all'art. 511". Come e' evidente la norma, con riferimento alla posizione dell'imputato in procedimento connesso - che e' l'unica che qui rileva - e' finalizzata ad ottenerne la presenza in dibattimento per poter sottoporre il medesimo ad esame e, quando questi si avvalga della facolta' di non rispondere, prevede come condizione per la lettura (e la conseguente acquisizione al fascicolo per il dibattimento) delle dichiarazioni indicate al comma 1, l'accordo di tutte le parti presenti nel processo. Indirettamente ma chiaramente, percio', la norma attribuisce a ciascuna delle parti il potere di vietare la lettura e l'acquisizione e l'utilizzazione delle dichiarazioni sopra indicate. Si tratta percio' di una disposizione che, nel procedimento probatorio, regola la fase di acquisizione della prova. L'art. 6, comma 2, legge n. 267 del 1997 prevede: "Nel giudizio di primo grado in corso, quando e' stata disposta la lettura, nei confronti di altri senza il loro consenso, dei verbali delle dichiarazioni, rese dalle persone indicate nell'art. 513 del codice di procedura penale al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, ove le parti lo richiedano, il giudice dispone la citazione delle predette persone per un nuovo esame". Al comma 5 del medesimo articolo la disciplina e' completata con la previsione che, ove le persone indicate nell'art. 513 c.p.p., a seguito della citazione per il nuovo esame, si siano ulteriormente avvalse della facolta' di non rispondere o non si siano presentate "... le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come prova dei fatti in esse affermati, solo se la loro attendibilita' sia confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata e al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell' art. 513 del codice di procedura penale, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della legge". L'art. 6 nel suo complesso, come fatto palese anche dalla rubrica - "Norma transitoria" -, e' rivolto a disciplinare l'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali rese da imputati od imputati in procedimento connesso di cui, al momento di entrata in vigore della legge, sia gia' stata disposta la lettura ai sensi dell'art. 513 previgente. Scopo della norma e' quello di favorire l'instaurazione effettiva del contraddittorio dibattimentale, da un lato verificando, con l'ammissione delle parti ad una nuova richiesta di citazione, l'interesse concreto che esse manifestino all'esercizio di quella facolta', e, dall'altro lato e per conseguenza, imponendo un nuovo esame del soggetto quando tale richiesta sia stata avanzata da una delle parti. Il regime adottato, ricostruito alla luce della lettera e della ragion d'essere della norma, e' quindi questo: se le parti non manifestano mediante la richiesta di citazione l'interesse concreto ad esaminare il soggetto, delle dichiarazioni lette in precedenza permane la piena utilizzabilita'; viceversa se anche una sola delle parti manifesta, mediante la richiesta di citazione, interesse ad un nuovo esame e di tale atto rimane impossibile il compimento o perche' il soggetto non si e' presentato (questa situazione si riferisce evidentemente all'imputato) o perche' si e' avvalso della facolta' di non rispondere (situazione che si riferisce sia all'imputato che all'imputato in procedimento connesso), muta il regime di utilizzabilita' delle dichiarazioni gia' acquisite secondo quanto disposto dal comma 5 del citato art. 6 (Cass., sez. I, ud. 29 settembre 1997, sent. n. 1213, n. 19501/97 r.g., pres. Teresi, rel. Canzio, imp. Cascino ed altri). Quest'ultima norma introduce, all'evidenza, non gia' una regola di ammissione od assunzione della prova, che anzi la legge suppone avvenute, ma una regola di valutazione della prova (Cass., sez. I, ud. 29 settembre 1997, sent. n. 1213, cit.) e precisamente una regola di parziale esclusione del valore probatorio delle dichiarazioni predibattimentali delle persone indicate dall'art. 513 c.p.p. previgente: esse possono fondare la dichiarazione del risultato di prova quando la loro credibilita' sia confermata da altri elementi di prova, ma non possono svolgere esse stesse la funzione di conferma. In sostanza il legislatore attribuisce efficacia generatrice di prova alle dichiarazioni acquisite al sensi dell'art. 513 previgente la cui attendibilita' sia confermata da elementi di prova diversi da dichiarazioni della medesima natura, contemporaneamente con cio' negando valore probatorio a dichiarazioni di quel genere che si confermino reciprocamente. Una questione si e' posta con riferimento all'ambito di applicazione della normativa di cui si discute: si e' infatti sostenuto che i commi 2 e 5, dell'art. 6, legge n. 267 del 1997 sarebbero applicabili soltanto ai casi in cui il giudice, prima dell'entrata in vigore della legge, avesse, prima di acquisirle, o materialmente letto le dichiarazioni dei soggetti indicati dall'art. 513 c.p.p. o le avesse indicate come utilizzabili, e cio' in ossequio al disposto dell'art. 511 c.p.p. In sostanza, secondo tale teorica, il regime di cui alle norme predette sarebbe inapplicabile alle dichiarazioni del genere in questione che fossero state acquisite al fascicolo per il dibattimento senza lettura. All'accoglimento di una siffatta interpretazione ostano numerosi argomenti di diversa natura. Anzitutto vale l'argomento sistematico che, se correttamente utilizzato, porta a conseguenze opposte a quelle sopra indicate. Si deve precisare che, come reso chiaro dal disposto dell'art. 515 c.p.p., la lettura e' strumento per l'acquisizione dell'atto al fascicolo per il dibattimento e percio' e' prevista come atto preliminare ad essa. Ne deriva che, ove l'acquisizione sia avvenuta senza lettura si potra' discutere della validita' di tale acquisizione e dell'utilizzabilita' dell'atto, eventualmente dell'efficacia sanante di una lettura successiva, ma non si potra' discutere sulla circostanza che la fase propria della lettura sia gia' stata superata. Anche il punto della validita' ed utilizzabilita' degli atti acqusiti al fascicolo per il dibattimento senza lettura od indicazione e' stato tuttavia chiarito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, laddove ha correttamente affermato che tali omissioni costituiscono mera irregolarita' non sanzionata da inutilizzabilita' o nullita' e percio' non impediscono l'utilizzazione degli atti stessi (Cass., sez. I, 10 gennaio-1 luglio 1994, n. 7456, Manitta). Ben si puo' quindi concludere che l'acquisizione di un atto senza la prevista lettura od indicazione di utilizzabilita' assorbe e ricomprende implicitamente lettura ed indicazione. Cio' salvo che, ovviamente, la lettura di un atto non sia stata esplicitamente richiesta da una parte, a mente dell'art. 511, comma 5, c.p.p. Tale ricostruzione sistematica importa per un verso che un atto - e cio' vale in particolare per i verbali di dichiarazioni predibattimentali di imputati od imputati in procedimento connesso -, quando e' acquisito al fascicolo per il dibattimento - senza che vi sia richiesta di lettura ne' esplicita indicazione di utilizzabilita' - rimane tuttavia immediatamente utilizzabile. E' appena il caso di rilevare che l'art. 513, c.p.p. - tanto quello previgente che quello vigente - impone la lettura dell'atto prima della sua acquisizione al fascicolo per il dibattimento e dopo la richiesta che al riguardo sia formulata da una delle parti, e percio' nel corso dell'istruttoria dibattimentale. Risultano pertanto quanto meno irregolari le letture degli atti che vengono effettuate con riferimento a tutte le precedenti acquisizioni dibattimentali come ultimo atto antecedente alla chiusura dell'istruttoria dibattimentale od all'inizio della discussione, sebbene si tratti di prassi volta a sanare le altre irregolarita' verificatesi in precedenza, in concomitanza con l'acquisizione di ogni atto senza previa lettura. E' certo tuttavia che dall'esistenza di tale prassi non puo' certo dedursi che il procedimento di formazione della prova, con riferimento alle dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento ex art. 513, c.p.p. senza previa lettura, non si trovi gia' in una fase successiva a quella riservata alla lettura. E' poi appena il caso di rilevare che, se all'acquisizione al fascicolo per il dibattimento non si dovesse attribuire l'effetto di generare immediatamente l'utilizzabilita' dell'atto, si introdurrebbe nel processo un germe di profonda confusione, circa l'efficacia di atti acquisiti ma di cui rimarrebbe non gia' esclusa, ma in dubbio l'utilizzabilita' a tempo indeterminato. Per fare un solo esempio, seguendo la tesi secondo cui l'acquisizione non comporta utilizzabilita' dell'atto e non suppone superata la fase della lettura, verrebbe vanificato il principio che ispira tutta la normativa sull'ordine di assunzione delle prove, poiche' la difesa, al momento dell'assunzione delle sue, non saprebbe ancora nulla circa l'utilizzabilita' di importanti elementi introdotti dall'accusa. Infine l'interpretazione qui respinta per un verso restringerebbe oltremodo l'estensione dell'applicazione della norma transitoria di cui si discute, che nella sostanza troverebbe effetto solo con riferimento ai processi di primo grado in fase di discussione finale, e, per altro verso, finirebbe per creare un incolmabile vuoto di disciplina con riferimento a tutti i casi di dichiarazioni acquisite, nel corso del giudizio di primo grado, ex art. 513, c.p.p. previgente ma non lette. Per tale caso, infatti, risulta applicabile non gia' la disciplina ordinaria (Cass., sez. I, ud. 29 settembre 1997, sent. n. 1213, cit.) ma soltanto l'art. 6, comma 2, legge n. 267 del 1997, il quale non prevede l'eventualita' dell'acquisizione senza previa lettura. Dalle superiori osservazioni deriva che la norma transitoria di cui all'art. 6, legge n. 267 del 1997 si applica a tutti i casi in cui, durante un giudizio di primo grado e prima della sua entrata in vigore, sia stata disposta la lettura oppure, anche senza previa lettura, siano stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento ex art. 513, c.p.p. verbali di dichiarazioni rese dalle persone ivi indicate al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare. Viceversa, nel corso del giudizio di primo grado, trova applicazione la disciplina ordinaria - art. 513, comma 2, c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 - in tutti i casi in cui l'esame degli imputati in procedimento connesso non si sia ancora svolto alla data di entrata in vigore della legge predetta. 3. - Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art. 513, c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 e l'art. 6, comma 5, legge n. 267 del 1997. Risulta evidente, nel caso di specie, la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale del disposto dell'art. 513, comma 2, c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, poiche' l'esame del Ruggiero e' gia' stato ammesso dal tribunale che ha ritenuto rilevante detto mezzo di prova - atteso che, nella prospettazione accusatoria, le dichiarazioni del predetto sono dedotte a conforto di quelle del Dell'Aglio - e la norma in questione subordina l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni del predetto - che si e' avvalso della facolta' di non rispondere - al consenso delle parti, cioe' al verificarsi di una condizione la cui previsione normativa e' appunto oggetto del sospetto di illegittimita'. Mette conto osservare che nel presente procedimento e' costituito parte civile il Ministero delle finanze cosicche' la questione proposta involge anche la legittimita' costituzionale del diritto ad esprimere il proprio consenso riconosciuto dalla legge anche a questa parte privata. A fronte di tali osservazioni - poiche' questo tribunale ritiene la questione predetta non manifestamente infondata - si propone la rilevanza, in immediato subordine, della questione concernente la legittimita' della disciplina prevista dall'art. 6, comma 5, legge n. 267 del 1997. Infatti, qualora la Corte costituzionale ritenesse fondata la questione di legittimita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p. nella parte in cui condiziona al consenso delle parti private l'acquisizione delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere, verrebbe riproposto un meccanismo di acquisizione di tali dichiarazioni identico a quello contemplato dall'art. 513 previgente (come integrato dalla sent. n. 254 del 1992). Ne deriverebbe, a mente dell'art. 6, comma 5, legge n. 267 del 1997 - della cui legittimita' pure si dubita -, l'impossibilita' di utilizzare le dichiarazioni del Ruggiero a conferma di quelle del Dell'Aglio. Dunque la questione, per evidenti esigenze di economia processuale e considerato il disposto dell'art. 27, legge n. 87 del 1953, deve essere sollevata in questa sede. Ritiene tuttavia questo Collegio che, a fronte delle eccezioni sollevate dal pubblico ministero, se ne ponga un'altra, di carattere preliminare, circa la conformita' al dettato costituzionale degli artt. 210, comma 4 e 513, c.p.p. nella parte in cui attribuiscono, alle persone indicate al commi 1 e 6 dello stesso art. 210, c.p.p., la facolta' di non rispondere alle domande loro rivolte dalle parti in dibattimento con riferimento a fatti indizianti descritti dalle predette persone in dichiarazioni rese al pubblico ministero nel corso delle indagini. Tale questione e' rilevante nel presente processo poiche', come si e' detto, sia il Dell'Aglio che il Ruggiero si sono avvalsi di tale facolta'. 4. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone indicate nell'art. 210, c.p.p. qualora si siano avvalse della facolta' di non rispondere. 4.1. - Giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di valutazione della prova e di regole di esclusione della prova. Occorre preliminarmente notare che le norme di cui si sospetta l'illegittimita' vanno ad inserirsi nel centro del processo disegnato dal codice vigente, laddove regolano da un lato i rapporti tra fase delle indagini e fase dibattimentale, dall'altro i poteri delle parti nella formazione dibattimentale della prova e, dall'altro ancora impongono limiti alla formazione del razionale e motivato convincimento giudiziale. Non v'e' dubbio che le norme di cui si discorre siano ispirate ad un depotenziamento del valore probatorio delle acquisizioni avvenute in fase di indagini ed in assenza di contraddittorio mediante il conferimento alle parti di un potere discrezionale circa il loro ingresso nel fascicolo per il dibattimento e mediante l'introduzione di una nuova regola di esclusione della prova. Preso atto che la scelta del legislatore si e' mossa verso l'accentuazione di alcuni aspetti particolari del processo accusatorio come processo di parti - in particolare la positivizzazione, per la prima volta, del principio dispositivo in materia di prova -, occorre verificare se, in base alla giurisprudenza formatasi nelle materie coinvolte dall'innovazione normativa, non si siano ecceduti i limiti costituzionali che la Corte stessa ha individuato alla introduzione nel nostro ordinamento di un processo penale conforme ad un modello meramente astratto di processo penale di parti. Gia' con riferimento al piano metodologico, infatti, la Corte ha affermato che: "... la considerazione dell'ordinamento processual-penale italiano va condotta, a prescindere da astratte modellistiche, sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non puo' che derivare da un'attenta lettura dei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega e dei principi costituzionali di cui questa ... richiede l'attuazione. Non va cioe' dimenticato che ''il sistema processuale delineato nella legge delega e poi concretamente attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato che tende bensi' (art. 2, comma 1) ad attuare ''i caratteri del sistema accusatorio'', ma ''secondo i principi ed i criteri specificati nelle direttive che seguono'' (sent. n. 88 del 1991); e che, poiche' la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di ''attuare i principi della Costituzione'', un 'adeguata considerazione dell'ordinamento effettivamente vigente non puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si e' trovata a dover apportare". Seguendo tale prospettiva occorrera' prendere le mosse da tutte quelle affermazioni e decisioni con cui in questi anni la Corte ha esplicitato i caratteri costituzionali della azione e della giurisdizione penale, la funzione assegnata al processo penale, il ruolo che gioca al suo interno il valore costituito dalla ricerca della verita' cosiddetta "reale" o "materiale" in contrapposto a quella "formale" o "processuale". Quanto al primo aspetto la Corte - pronunciandosi in tema di reiterazione di dichiarazioni di ricusazione fondate sui medesimi motivi -, ha di recente avuto modo di ribadire (sent. n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio di indefettiblita' della giurisdizione, ricollegabile a vari principi costituzionali, fra i quali l'art. 101 della Costituzione invocato dal giudice a quo (oltre alla sentenza n. 353 del 1996 e l'ordinanza n. 5 del 1997, v. le sentenze nn. 460 del 1995, 114 del 1994, 289 del 1992, 178 del 1991)" E la Corte, confrontando il principio suddetto a quello di uguaglianza inteso come "canone di coerenza dell'ordinamento giuridico, cui devono uniformarsi pure gli istituti processuali ...", ha immediatamente aggiunto: "E qui va riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore per quanto attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del principio di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di fatto, la nozione stessa di processo. Si' che sono da censurare, pure alla luce del principio di razionalita' normativa, istituti o regole quando si prestino ad un uso distorto, recando cosi' lesione dell'efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale". Quanto alla funzione ed al ruolo del pubblico ministero, la Corte si e' espressa in modo assai chiaro nella sentenza n. 88 del 1991: "Va innanzi tutto ricordato, al proposito, quanto questa Corte ebbe ad affermare nella sent. n. 84 del 1979, cioe' che ''l'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale ad opera del p.m. ... e' stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato l'indipendenza del p.m. nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale''; sicche' l'azione e' attribuita a tale organo ''senza consentirgli alcun margine di discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso ufficio''. Piu' compiutamente: il principio di legalita' (art. 25, comma 2), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita' del procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non puo' essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale. Realizzare la legalita' nell'eguaglianza non e', pero', concretamente possibile se l'organo cui l'azione e' demandata dipende da altri poteri: sicche' di tali principi e' imprescindibile requisito l'indipendenza del p.m. Questi e' infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.) e si qualifica come ''un magistrato appartenente all'ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere'', che ''non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge'' (sentt. nn. 190 del 1970 e 96 del 1975). Il principio di obbligatorieta' e', dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talche' il suo venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo. Di conseguenza, l'introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito, ne' avrebbe potuto scalfirlo.... Per altro verso, l'eliminazione di ogni contaminazione funzionale tra giudice e organo dell'accusa - specie in tema di formazione della prova e di liberta' personale -, non comporta che, sul piano strutturale ed organico, il p.m. sia separato dalla Magistratura costituita in ordine autonomo ed indipendente. Nell'architettura della delega, infatti, il ruolo del p.m. non e' quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ''ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato'' (cfr. dir. n. 37 ...). Coerentemente a cio', il legislatore delegato ha sottolineato che il ''potere-dovere del p.m. di estendere le proprie indagini a tutto cio' che puo' formare oggetto di prova per l'accusa o la difesa'' tende ''nel rispetto assoluto dei principi del sistema accusatorio e del ruolo di ''parte'' del p.m., ad evidenziare la natura ordinamentale, giudiziaria e pubblica dell'istituto e della funzione'' (Relazione al progetto preliminare, 91); ed ha poi confermato tale natura nel redigere il nuovo art. 190 dell'ordinamento giudiziario (art. 29, testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449). 3. - Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalita' effettuato dal giudice: ed in esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene definito favor actionis. Cio' comporta non solo il rigetto del contrapposto principio di opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione facoltativa ...; ma comporta, altresi', che in casi dubbi l'azione vada esercitata e non omessa". Proprio come aspetto della obbligatorieta' ed indisponibilita' nonche' dell'esercizio imparziale nei confronti di tutti dell'azione penale, la Corte ha evidenziato alcuni caratteri che essa ha assunto all'interno dello stesso codice del 1998 proprio come applicazione concreta della sua configurazione costituzionale: - il principio di tendenziale completezza delle indagini (v. anche sent. n. 92 del 1992); - il principio di tutela della effettivita' dell'azione, volto a contrastare i casi di suo esercizio meramente apparente, principio questo manifestatosi in istituti quali l'indicazione da parte del g.i.p. di ulteriori indagini ritenute necessarie (art. 409, comma 4, 415, 554, comma 2, c.p.p., sentt. n. 409 del 1990, 445 del 1990), l'opposizione dell'offeso alla richiesta di archiviazione, il potere di avocazione del Procuratore generale, l'ordine di formulazione dell'imputazione. E' infine utile ricordare che le superiori considerazioni sono state riprese e valorizzate dalla Corte nella sentenza n. 111 del 1993 (par. 6), proprio quando si e' trattato di individuare i limiti costituzionali ad un processo penale inteso come "... ''processo di parti'', nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano ...''o come'' ... tecnica di risoluzione dei conflitti". Spostando l'attenzione dal tema dell'azione e della giurisdizione a quello, strettamente connesso, dello scopo del processo penale la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che esso deve individuarsi nell'"accertare i fatti onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale" e che, anche dopo l'entrata in vigore del codice del 1988 ad impianto tendenzialmente accusatorio, "fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita'" (sentt. n. 111 del 1993, n. 255 del 1992, n. 258 del 1991). I presupposti costituzionali di tali affermazioni si rinvengono agevolmente leggendo le summenzionate pronunce, oltre che la sent. n. 88 del 1991: esse sono fatte derivare direttamente dalla lettura combinata del principio di uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge penale, dal principio di legalita' "che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate" (sentt. nn. 111 del 1993, 88 del 1991) e di inviolabilita' della liberta' personale. Ma ad essi si potrebbero agevolmente aggiungere il principio di personalita' della responsabilita' penale (ciascuno risponde solo per il fatto commesso che gli sia psicologicamente imputabile, dunque sono il fatto e la sua imputabilita' l'oggetto del processo e dell'accertamento), il principio di presunzione di innocenza (l'onere della prova in capo all'accusa e' criterio nel contempo logico e garantistico che dimostra l'impegno dell'ordinamento nella ricerca della verita'), il principio di obbligatorieta' dell'azione penale (l'azione e' obbligatoria anche perche' non ad altro tende se non all'accertamento secondo verita' dell'ipotesi contenuta nella notizia di reato ed all'applicazione della legge, seppure in modi diversi da quelli processuali), nel principio di difesa (la verita' puo' essere affermata solo se "garantita" dalla presenza attiva della difesa nel processo), nel principio di indipendenza e liberta' morale del giudice in particolare nel momento del giudizio (principi questi ultimi inutili o dannosi se il giudizio dovesse servire a qualche cosa di diverso che alla ricostruzione del fatto ed all'applicazione della legge). Tanto premesso, la Corte ha riconosciuto che il legislatore aveva scelto, come metodo migliore per perseguire lo scopo costituzionalmente assegnato al processo, quello del contraddittorio dibattimentale che, insieme all'esigenza di accentuare la terzieta' del giudice, aveva "condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse" (sent. n. 111 del 1993). La Corte ha tuttavia immediatamente osservato che, proprio perche' lo scopo del processo penale non puo' che individuarsi nella ricerca della verita', "...l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento ... di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento" (sent. n. 255 del 1992) e, per altro aspetto: "... ad un ordinamento improntato al principio di legalita' (art. 25, comma 2, Cost.) - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate - nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale (cfr. sent. n. 88 del 1991, cit.) non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario a pervenire ad una giusta decisione (cfr. sent. n. 255 del 1992)" (sent. n. 111 del 1993). La Corte ha altresi' comprovato il fondamento di tali affermazioni elencando i numerosi casi di formazione della prova in deroga o al contraddittorio dibattimentale o all'altro aspetto dell'oralita' costituito dall'immediato contatto del giudice con la prova nel momento della sua formazione (artt. 392, 431, 500, comma 4, 503, commi 5 e 6, 512, 513) (sent n. 255 del 1992); ha individuato la ragion d'essere di quelle eccezioni nella necessita' di non disperdere elementi di prova "non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale"; ha infine denominato tale fenomeno, considerato il numero e la qualita' delle deroghe previste al metodo orale, "principio di non dispersione delle prove" (sent. n. 255 del 1992). La Corte ha dunque correttamente rilevato - qualificandolo "principio" a causa della sua obiettiva imponenza - la presenza in seno al codice un procedimento probatorio alternativo e sussidiario rispetto al principale fondato sul contraddittorio per la prova, procedimento attivabile quando quello principale sia o nell'impossibilita' di funzionare o nell'impossibilita' di produrre elementi di prova genuini. La presenza di tale procedimento alternativo e sussidiario, come reso evidente dalla lettura combinata delle pronunce che si vanno citando, e' fondata da un lato sulla configurazione costituzionale ed istituzionale del pubblico ministero e, dall'altro, sulla necessita' di affermare il principio di indefettibilita' della giurisdizione penale, principio anch'esso strettamente a sua volta collegato a quelli di uguaglianza e di legalita'. Proprio sviluppando il tema dell'ampiezza degli effetti di tali affermazioni con riferimento non solo alla fase procedurale dell'ammissione della prova, ma anche a quello della valutazione degli elementi acquisiti, la Corte ha avuto modo di affermare non solo che ad un ordinamento improntato ai principi suindicati non si confanno norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione, ma anche che simili regole di predeterminazione legale del valore persuasivo delle prove sono altresi' dissonanti rispetto ai principi di fondo del nuovo codice, che ''fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali non poteva essere altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dar conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti'' (art. 192, c.p.p.; cfr. sent. n. 255 del 1992, cit.)" (sent. n. 111 del 1993). Anche con riferimento al tema del ruolo delle parti nel processo e dell'esistenza di un preteso principio dispositivo in materia di prova la Corte, nella sentenza n. 111 del 1993 si e' pronunciata con chiarezza cristallina: "La configurazione del potere istruttorio conferito al giudice dall'art. 507 come eccezionale, e quindi da escludere in caso di decadenza o inattivita' delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici remittenti, dall'assunzione dell'immanenza nel nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatoria, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, pero', di un assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega ne' nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice. E', per la verita', incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita' penale sia riconosciuta solo per fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile della liberta' personale. Sotto questo profilo, e' significativo che il nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il giudice sul merito della decisione; prova ne sia che ad un simile esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta (cfr. sent. n. 313 del 1990). Ma un principio dispositivo non puo' dirsi esistente neanche sul piano probatorio, perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Ed anche qui la riprova si ha nell'altro rito speciale in cui maggior spazio e' riservato alla volonta' delle parti, dato che in esso l'accordo di queste sulle prove utilizzabili non vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed anzi non puo' neppure essere inteso - come ripetutamente segnalato da questa Corte (sentt. nn. 92 del 1992 e 56 del 1993) - come assolutamente preclusivo delle integrazioni probatorie eventualmente necessarie, pena la sua incompatibilita' con i principi costituzionali. Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva neanche sul terreno del giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale. Ma e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova. Questa Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del 1992, che tale norma - inserita "in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio e' rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti" - "conferisce al giudice il potere-dovere d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione". Richiamata quindi la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 11227 del 6 novembre-21 novembre 1992 nonche' la direttiva n. 73 della legge delega - che prevede il "potere del presidente ... o del pretore di indicare alle parti temi nuovi od incompleti utili alla ricerca della verita' e di rivolgere domande dirette...; potere del giudice di disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova - la Corte cosi' proseguiva: ''... Il legislatore delegante ha cioe' esattamente considerato - in armonia con l'obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3, comma 2, della Costituzione che la ''parita' delle armi'' delle parti normativamente enunciata puo' talvolta non trovare concreta verifica nella realta' effettuale, si' che il fine di giustizia della decisione puo' richiedere un intervento riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, cosi evitando assoluzioni o condanne immeritate''. Il potere conferito al giudice dall'art. 507 e', dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale .... E' del resto evidente che sarebbe contraddittorio, da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione ...; e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica" (sent. n. 111 del 1993). In sostanza, nella pronuncia appena indicata la Corte ha riconosciuto incompatibile con i principi costituzionali di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale, un processo penale ridotto a "... tecnica di risoluzione delle controversie nel cui ambito al giudice sarebbe riservato essenzialmente un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte, ed il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere - nel presupposto di un'accentuata autonomia finalistica del processo - quella sola ''verita''' processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello". Parimenti indicata come incompatibile con i suddetti principi e' stata considerata l'operativita' - propria di un processo di parti - "di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio", operativita' cui conseguirebbe "da un lato, l'espansione degli spazi di discrezionalita' della parte pubblica e l'accentuazione dell'oralita' come strumento della formazione della prova in dibattimento; dall'altro, la configurazione del potere di intervento del giudice in materia di prova come eccezionale ...". Giurisprudenza contraria a concedere rilevanza ed effetti sostanziali alla mera espressione della volonta' di una parte - seppure parte pubblica cui sono proprie logiche e finalita' esclusivamente istituzionali - si e' formata anche con riferimento alla originaria disciplina dell'applicazione della pena su richiesta e del giudizio abbreviato. Con riferimento al primo tipo di giudizio, infatti la Corte ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 444, comma 2, c.p.p. in quanto, "prevedendo che il giudice debba attenersi alla pena cosi' come indicata dalle parti, ... non consente di valutare la congruita' della pena al fini e nei limiti di cui all'art. 27, comma 3, Cost." (sent. n. 313 del 1990). Con riferimento al rito abbreviato la Corte, nella sentenza n. 81 del 1991, dichiarando l'illegittimita' parziale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440, 442 c.p.p., ha affermato "E', invece, fondata la questione proposta in riferimento all'art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell'irrazionale disparita' cui la normativa impugnata, vista dall'interno della sua applicazione, darebbe luogo tanto nei rapporti fra p.m. ed imputato, quanto nei rapporti tra imputato ed imputato. Non risponde, infatti, alle esigenze di coerenza e ragionevolezza una disciplina che autorizza il p.m. ad opporsi non soltanto a una ''determinata scelta del rito processuale'' ..., ma anche a una consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato in caso di condanna, senza neppure dover esternare le ragioni di tale opposizione, cosi' sottraendola all''obiettiva ed imparziale valutazione del giudice'. Per giunta, in un sistema, come quello del nuovo codice, imperniato sul principio di 'partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parita' in ogni stato e grado del procedimento' (art. 2 n. 3 legge 16 febbraio 1987 n. 81), non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto che il primo, con un semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il secondo di un rilevante vantaggio sostanziale" (sent. n. 81 del 1991). Di tale sentenza e di quella n. 66 del 1990, la Corte ha reso interpretazione autentica nel momento in cui, in seno alla sentenza n. 92 del 1992, ha rilevato: "Il nucleo essenziale di tali decisioni sta nel riconoscimento dell'incompatibilita' con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che affida(va) a scelte discrezionali - immotivate e, quindi, insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena". Traendo le conseguenze delle superiori affermazioni la Corte con riferimento alla fase dibattimentale e mediante la pronuncia di sentenze di accoglimento od interpretative di rigetto, ha considerato ostacoli irragionevoli o in se stessi o rispetto al sistema: a) il divieto di testimonianza de relato della polizia giudiziaria (sent. n. 24 del 1992); b) l'omessa previsione dell'acquisizione delle dichiarazioni di imputati in procedimento connesso, anche se rese alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, quando essi si fossero avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere (sentt. n. 254 del 1992 e n. 60 del 1995); c) l'utilizzo solo ai fini della valutazione di credibilita' delle dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni ai testimoni (sent. n. 255 del 1992). Inoltre la Corte ha: a) riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p. delle dichiarazioni dei prossimi congiunti che si siano avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere (sent. n. 179 del 1994); b) riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p. delle dichiarazio ni predibattimentali del teste affetto da amnesia assoluta sui fatti di causa, dovuta ad infermita' (ord. n. 20 del 1995). Sempre in forza dei summenzionati principi, inoltre, la Corte ha dichiarato legittimo l'art. 507 c.p.p. solo se interpretato nel senso che esso consentisse, nell'inerzia delle parti, l'impulso giudiziale nella acquisizione della prova (sent. n. 111 del 1993). 4.2. - Profili di non manifesta infondatezza della questione di legittimita'. Tracciato il quadro generale della giurisprudenza della Corte costituzionale rilevante in materia, occorre procedere a verificare se, rispetto alla disciplina dell'art. 513, comma 2, c.p.p. come sostituito dall'art. 11 n. 267 del 1997, siano ipotizzabili violazioni dei limiti costituzionali sopra indicati. Il tribunale rinviene varie prospettive di violazione, quanto meno non manifestamente infondate. 4.2.1. - Ostacolo irragionevole alla formazione della prova, alla funzione conoscitiva del dibattimento ed all'esercizio della giurisdizione mediante l'introduzione di un meccanismo di disposizione della prova: contrasto con gli artt. 3, 25, comma 2, 101, comma 2, 102, comma 1, 111, comma 1, Cost. Per apprezzare i vari profili di dubbio sulla legittimita' della norma in questione, occorre premettere che questo tribunale considera le dichiarazioni rese al pubblico ministero dagli imputati in procedimento connesso che si siano avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere come atti divenuti imprevedibilmente irripetibili. Che si tratti di atti irripetibili risulta evidente sol che si consideri che l'esercizio della facolta' di non rispondere da parte dei soggetti predetti impedisce in toto la loro rinnovazione dibattimentale ed una nuova acquisizione nel contraddittorio delle parti di elementi probatori provenienti dalla stessa fonte. Percio', a precludere la possibilita' del contraddittorio, in astratto possibile, e' l'esercizio da parte dell'imputato in procedimento connesso di una facolta' riconosciutagli dalla legge. Che l'irripetibilita' dell'atto sia imprevedibile e' facilmente verificabile considerando la natura dell'atto che e' causa dell'irripetibilita' - la semplice dichiarazione di avvalersi della facolta' di non rispondere - e i diversi e contrapposti interessi che possono muovere il soggetto che e' titolare di quella facolta' alla decisione di esercitarla. Si tratta, invero, di un atto discrezionale, immotivato, insindacabile, frutto di una personale valutazione che l'imputato in procedimento connesso fa dei propri interessi processuali ed anche extraprocessuali. D'altro canto, chi abbia reso in sede di indagini dichiarazioni a carico di altri ben si rende conto che esse possono avere gravi conseguenze, sia per lui medesimo nel caso di confessione di delitti ovvero di falsita' (artt. 367 e 55. c.p.), sia per il terzo che ne risulta coinvolto, conseguenze che vanno dal rinvio a giudizio all'applicazione di una misura cautelare. Una siffatta pregressa assunzione di responsabilita' indurrebbe a ritenere che l'imputato o l'imputato in procedimento connesso reiterera' le dichiarazioni a carico degli accusati. In forza di tali caratteristiche dell'atto di esercizio della facolta' di non rispondere, del soggetto che lo compie, dei motivi che possono spingerlo a cio', ben si puo' affermare che non e' possibile prevedere, prima che l'atto sia compiuto, se la facolta' verra' esercitata o no (cosi' anche tribunale minorenni Bologna, pres. Longo, imp. Ciavardini, ord. 19 settembre 1997, proc. n. 6492 r.g., n. 33589 r.n.r.). Va comunque sottolineato con forza che non sarebbe razionale richiedere al pubblico ministero di prevedere i comportamenti delle controparti del processo o di altri processi, poiche', in tal caso ed in assenza di una disciplina generalizzata dei rapporti tra pubblico ministero e collaboranti, si finirebbe per riconoscere effetto giuridico (sub specie di eventuale inutilizzabilita' della prova) a possibili comportamenti ingannatori di tali soggetti nei confronti del pubblico ministero medesimo. Del resto la qualificazione operata dal tribunale non fa altro che porsi sulla stessa linea gia' tracciata dalla Corte nella sentenza n. 254 del 1992 (par. 3.1). Cio' premesso, il problema che si e' posto all'attenzione di questo tribunale e' se sia costituzionalmente corretto che, nell'ambito di un sistema accusatorio, il legislatore, allo scopo di tutelare il contraddittorio, introduca meccanismi che impediscono l'utilizzabilita' di elementi di prova raccolti dal pubblico ministero in assenza di contraddittorio e di cui sia imprevedibilmente sopravvenuta l'irripetibilita'. La soluzione da dare al quesito suddetto necessita di una ulteriore precisazione preliminare, e cioe' che, nel presente processo - come in ogni altro giudizio di primo grado in corso -, al pubblico ministero, attesa la fase processuale in cui il processo si trova, e' rimasta del tutto preclusa la possibilita' di chiedere, in fasi antecedenti, l'assunzione della prova con incidente probatorio, i cui presupposti di ammissione sono stati notevolmente ampliati solo con l'entrata in vigore della stessa legge n. 267 del 1997 (art. 4, comma 1, modificativo dell'art. 392, comma 1, lettere c) e d), c.p.p.). Ed invero, nel corso della celebrazione del dibattimento, non e' nemmeno prospettabile l'esigenza di anticipare le forme di assunzione della prova che gli sono proprie al fine di evitare la perdita di una prova presumibilmente non rinnovabile in futuro. Non mette conto percio' trattare qui della situazione in cui il pubblico ministero avrebbe effettivamente potuto chiedere l'incidente probatorio in fase di indagini e dell'efficacia (invero dubbia, atteso che anche in tale sede i soggetti di cui all'art. 210 c.p.p. possono avvalersi della facolta' di non rispondere, che il meccanismo puo' essere attivato anche dalla difesa addirittura in sede di udienza preliminare, che non si vede percio' perche' i risultati della sua omessa richiesta debbano ricadere esclusivamente sul pubblico ministero, che e' costituzionalmente discutibile che si abbandoni la formazione della prova a scelte di mera strategia processuale delle parti) che tale circostanza puo' spiegare sulla valutazione del superamento o meno dei limiti costituzionali con riferimento alla disciplina introdotta con il nuovo art. 513 c.p.p. Ad ogni buon conto, nel caso di specie - irripetibilita' sopravvenuta di un atto di acquisizione probatoria -, la regola generale e' quella della utilizzabilita' a condizione che la causa dell'irripetibilita' fosse imprevedibile, regola volta a spingere il pubblico ministero ad attivare istituti (incidente probatorio) che consentono la formazione anticipata della prova. Occorre pero' ulteriormente considerare che, nel caso che ne occupa, l'attivazione di tali istituti non era, come si e' detto, possibile. Percio', anche quando, per avventura, si volesse far incombere sul pubblico ministero l'onere di formulare previsioni circa l'esercizio o no della facolta' di non rispondere da parte degli imputati in procedimento connesso (o degli imputati) e si volesse sostenere che quell'onere puo' essere ragionevolmente assolto, tuttavia l'eventuale ritenuta prevedibilita' dell'esercizio della facolta' di astensione non rileverebbe comunque perche', in ogni caso, la sopravvenuta irripetibilita' non poteva essere prevenuta innescando l'incidente probatorio. Anche se la sopravvenuta irripetibilita' fosse stata - per ipotesi - prevedibile, al pubblico ministero non sarebbe stato consentito porre rimedio ad una siffatta situazione anticipando l'acquisizione della prova in contraddittorio. Ne deriva la necessita' - ex art. 3 della Costituzione - di assimilare, quanto all'aspetto della loro utilizzabilita' dibattimentale, la disciplina degli atti divenuti irrimediabilmente irripetibili a quella degli atti divenuti imprevedibilmente irripetibili. Tanto precisato, occorre notare che al quesito sopra indicato era lo stesso legislatore del 1988 ad avere risposto negativamente, nel senso che - pressocche' in tutti i casi di imprevedibile irripetibilita' dell'atto - aveva previsto un meccanismo che consentiva il recupero degli atti divenuti irripetibili. Cio' aveva consentito alla Corte costituzionale di armonizzare il sistema, colmandone le lacune in forza dell'art. 3 della Costituzione - caso tipico, proprio quello di cui alla sentenza n. 254 del 1992 - ed appianandone le piu' stridenti disarmomie. In tali occasioni, tuttavia, la Corte aveva enunciato i principi sopra indicati (par. 4.1), capaci di spiegare i loro effetti ben oltre lo stato della legislazione positiva al momento della loro enunciazione. In particolare, attualmente, il legislatore ha direttamente ed esplicitamente introdotto un meccanismo di blocco, a discrezione delle parti, del regime sussidiario ed alternativo di formazione della prova a fronte della sua irripetibilita' dibattimentale, fondato su due cardini: perdurante concessione all'imputato ed imputato in procedimento connesso che abbia (direttamente o indirettamente) accusato altri della facolta' di non rispondere in dibattimento; subordinazione al consenso di tutte le parti, compresi i soggetti a carico dei quali sono stati raccolti gli elementi in sede di indagini, dell'acquisizione degli elementi di prova irripetibili. Cio' impegna, indubbiamente, ad un compito parzialmente nuovo, cioe' non meramente ricostruttivo del sistema in base al principio di ragionevolezza, ma alla valutazione diretta della sua compatibilita' con i principi costituzionali. Tuttavia, a fronte delle enunciazioni che la Corte costituzionale ha reso nelle sentenze sopra menzionate il sospetto di illegittimita' non puo' ritenersi manifestamente infondato. Se il processo deve tendere alla ricerca della verita' reale, se il processo in generale ed il dibattimento in particolare hanno una funzione conoscitiva del fatto che ne e' oggetto, se il pubblico ministero e' istituzionalmente organo di giustizia che si muove al fine di applicare la legge e compie validamente atti normativamente previsti su cui possono fondarsi per legge altri atti lesivi di diritti costituzionali primari, se il codice stesso prevede numerosi meccanismi di recupero dell'utilizzabilita' di atti formati dal pubblico ministero quando siano divenuti imprevedibilmente irripetibili cioe' quando il contraddittorio sia - per ragioni materiali o giuridiche - divenuto impossibile, allora sembra evidente dover dubitare di un meccanismo processuale che per un verso si risolve nel precludere l'esercizio dell'azione penale e, per altro verso, nel precludere l'utilizzazione da parte del giudice di atti che appartengono a quella categoria, in tal modo impedendogli di accertare il fatto e, in base a tale accertamento, di pervenire ad una giusta decisione. I diversi aspetti di tale sillogismo necessitano di una spiegazione analitica. Anzitutto va vagliata la conformita' della disciplina in questione al principio di razionalita' nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (artt. 3 e 112, Cost.). A questo scopo devono essere pur sommariamente chiariti la natura ed il valore degli atti compiuti dal pubblico ministero. Si tratta certamente di atti formati in assenza di contraddittorio ed in segreto, ma si tratta anche di atti compiuti da un organo giudiziario, pubblico, indipendente, la cui azione e' rivolta esclusivamente all'applicazione imparziale della legge (sent. n. 88 del 1991). Si tratta altresi' di atti che godono di particolari garanzie quanto alla rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali. Proprio per questa loro particolare affidabilita', la legge conferisce utilizzabilita' agli elementi raccolti dal p.m. nelle indagini con riferimento sia ad atti che spiegano i loro effetti all'interno della fase delle indagini (es.: esercizio dell'azione penale nelle sue varie forme), sia ad atti che spiegano i loro effetti fuori dalla fase delle indagini (es.: al fine di emettere sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone il giudizio), sia ad atti che incidono profondamente su diritti costituzionali primari dei cittadini (es.: emissione di decreti di perquisizione e sequestro, adozione di misure cautelari personali). Non solo, l'utilizzazione delle risultanze emergenti dalle indagini - tra le quali le dichiarazioni dei coimputati o degli imputati in procedimento connesso - non e', per il p.m., facoltativa, ma e', in base all'art. 112 Cost., obbligatoria. Ne deriva che costituisce un irragionevole ostacolo al razionale esercizio dell'azione penale, oltre che una evidente contraddizione ordinamentale, disporre che atti sui quali il pubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio della sua funzione, quando siano divenuti imprevedibilmente irripetibili - con conseguente esclusione del contraddittorio non imputabile al pubblico ministero medesimo -, siano utilizzabili in dibattimento solo con il consenso di tutte le altre parti processuali, tra le quali gli imputati nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i propri dannosi effetti. Risulta cioe' irrazionale da un lato imporre al pubblico ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo, elementi di prova circa il fatto, imporgli di chiedere misure cautelari eventualmente ottenendole, introdurre meccanismi di garanzia contro l'inerzia del pubblico ministero, e poi, quando quegli elementi siano divenuti imprevedibilmente irripetibili, conferire al soggetto controinteressato il potere di disporre a suo piacimento della loro utilizzabilita' secondo logiche che, per la natura del soggetto investito del potere, non possono essere che strettamente egoistiche, privatistiche e comunque discrezionali, insindacabili ed immotivate. Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 81 del 1991 si potrebbe dire che "non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto che il secondo, con un semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il primo degli elementi di prova, divenuti imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili, in base ai quali ha esercitato l'azione penale". Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 111 del 1993 si potrebbe dire: "... sarebbe contraddittorio, da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione ...; e, dall'altro, consentire che l'utilizzo di atti delle indagini, sui quali si e' fondato l'esercizio dell'azione penale sino a quel momento e divenuti imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili, possa essere impedito dallo stesso pubblico ministero o dalle altre parti con una nuda ed immotivata manifestazione di volonta'". Non e' poi il caso di approfondire - perche' qui irrilevante - la situazione in cui sia lo stesso p.m. ad opporsi all'acquisizione di dichiarazioni di soggetti indicati dall'art. 210 rese in sede di indagini e divenute imprevedibilmente irripetibili per rifiuto di rispondere opposto dall'interessato in dibattimento: ci si troverebbe di fronte o ad uno stigma irreparabile inferto al diritto di difesa dell'imputato - quando si tratti dell'acquisizione di elementi a lui favorevoli - o ad una cripto/ritrattazione dell'azione penale - quando si tratti di elementi d'accusa -. In entrambi i casi atti disciplinati dalla normativa di cui si discute ma costituzionalmente incompatibili con gli artt. 24 e 112 Cost.: in un caso identico - decadenza colposa o dolosa del p.m. dal diritto di richiedere le prove per omessa od intempestiva presentazione della lista testimoniale - la Corte ha salvato il sistema solo perche' esso prevede, mediante l'art. 507 c.p.p., il recupero di quelle prove. Un recupero pero' evidentemente non consentito dalla normativa introdotta dall'art. 1 legge n. 267 del 1997. Va altresi' data risposta negativa, per quanto qui e' possibile, circa la compatibilita' tra la disciplina di cui si discute e la funzione conoscitiva, di tendenziale accertamento della verita' reale, attribuita dalla Costituzione al processo penale (cfr. par. 4.1). E' indubbio, infatti, che la sottoposizione all'accordo delle parti della lettura e quindi dell'acquisizione di atti divenuti imprevedibilmente irripetibili costituisca un ostacolo alla formazione del convincimento giudiziale e quindi all'approssimarsi del risultato processuale alla verita', nella parte in cui consente che tali atti siano - senza alcuna possibilita' di rimedio - sottratti al convincimento medesimo mediante una manifestazione di volonta' discrezionale, insindacabile ed immotivata. Occorre tuttavia valutare la ragionevolezza della introduzione di siffatto ostacolo. Certo, rispetto a situazioni identiche, si coglie con immediatezza una ingiustificabile differenza. Invero, solo rispetto a dichiarazioni di imputati in procedimento connesso (o di coimputati) che si avvalgano della facolta' di non rispondere e' stato introdotto il potere delle parti di impedirne ad nutum l'utilizzo, mentre con riferimento ad altre identiche situazioni di imprevedibile irripetibilita' di atti dello stesso tipo, tale potere non e' riconosciuto. Di quest'ultima situazione costituiscono esempi i casi di imputato in procedimento connesso (o coimputato) di cui sia sopravvenuta l'irreperibilita' (art. 513 comma 2 seconda parte), il decesso, infermita' produttiva di amnesia sui fatti (art. 512), o di soggetto che decida di sottoporsi all'esame ma si astenga dal rispondere a singole domande (fatto che consente contestazione ed utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali: art. 503) e di testimone prossimo congiunto che si avvalga della facolta' di non rispondere (sent. n. 179 del 1994). Ne' pare che la diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta - naturale (quale il decesso o l'infermita') o giuridica (quale l'esercizio della facolta' di non rispondere) - possa in alcun modo giustificare la diversificazione delle discipline dell'utilizzabilita' degli atti di cui si discute, poiche' l'effetto dell'azione di tali cause sull'atto e' identico (irripetibilita') e perche' l'unica differenza - diritto di difesa attuale rispetto al vivo ma non rispetto al morto - riguarda il dichiarante, ma non i soggetti attinti dalle sue dichiarazioni rispetto al cui diritto al contraddittorio le diverse cause di irripetibilita' agiscono in modo identico, rendendolo impossibile. Si tratta cioe' di casi identici - in cui il contraddittorio e' inibito senza che cio' sia imputabile al pubblico ministero - alcuni dei quali subiscono pero' un trattamento irragionevolmente diverso. Esiste un ulteriore profilo di irragionevolezza nell'ostacolo frapposto alla formazione della prova mediante il procedimento alternativo e sussidiario piu' volte menzionato, profilo attinente proprio alla devoluzione alle parti in generale, ed in particolare agli imputati, della decisione circa l'utilizzabilita' in dibattimento di elementi raccolti dal pubblico ministero in sede di indagini (elementi che possono spiegare una diretta od indiretta efficacia probatoria a loro carico) e di cui sia sopravvenuta imprevedibilmente l'irripetibilita'. La Corte costituzionale, come si e' detto, ha gia' avuto modo, ragionando su fattispecie di decadenza colposa o consapevolmente determinata del pubblico ministero dalla prova, di affermare come "incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta' dell'azione penale concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale"; e, immediatamente dopo, che disporre della prova equivale, indirettamente, a disporre della stessa res iudicanda (sent. n. 111 del 1993). Parimenti incontroverso, a parere del tribunale e' che la normativa di cui si tratta abbia introdotto il potere di ciascuna delle parti di disporre della prova e, indirettamente, dell'oggetto del processo. Ulteriore conferma di tale conclusione si rinviene analizzando gli interessi tutelati dal tipo di atto di cui si discute. Trattandosi, come si e' detto, del potere attribuito alle parti del processo, di inibire l'uso di prove, l'aspetto di tutela del diritto di difesa appare prospettabile solo come stimolo per il p.m. a chiedere l'incidente probatorio. Nel caso di specie tuttavia - a prescindere dalla circostanza che sembra singolare attivare il potere di interdizione di una parte quando i motivi di prevedibilita' o meno dell'esercizio della facolta' di non rispondere sono gli stessi anche per la difesa degli imputati ed anch'essa ha, se le interessa, il medesimo potere di attivazione dell'incidente probatorio - l'incidente probatorio era precluso, cosicche' la disciplina di cui si discute non puo' sortire nemmeno in astratto alcun effetto di tutela del contraddittorio ma solo l'effetto di sottrarre al giudizio, senza alcuna possibilita' di recupero, prove divenute imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili. Deve altresi' osservarsi che la Corte costituzionale ha costantemente affermato che il diritto di difesa, per quanto inviolabile, non puo' non trovare contemperamento e bilanciamento rispetto ad altri concorrenti principi parimenti tutelati dalla costituzione e che, quindi, il suo livello di tutela deve essere rapportato alle singole, e diverse, situazioni processuali. Nel caso di specie, la disciplina dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato in procedimento connesso che si avvalga della facolta' di non rispondere introdotta dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 254 del 1992, tendeva a bilanciare due valori diversi: l'esercizio dell'azione penale, ma soprattutto ed ancor di piu', l'esercizio della funzione giurisdizionale stessa, da un lato, e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa, che non rimaneva affatto impedito ma soltanto limitato dall'esercizio, da parte del coimputato od imputato in procedimento connesso, del suo diritto di difesa, sub specie di diritto di non rispondere in dibattimento anche alle domande di chi, direttamente od indirettamente, aveva accusato. Impedito in tal modo l'esercizio del diritto di difesa nel momento di genesi della prova, veniva attivato il procedimento sussidiario ed alternativo di formazione della prova che comunque consentiva il tradizionale esercizio del diritto di difesa sulla prova formata (oltre ad introdurre, di fatto, argomenti sfavorevoli all'intrinseca credibilita' del dichiarante). Infine, quanto all'irragionevolezza dell'ostacolo frapposto dal nuovo art. 513 comma 2 c.p.p. alla formazione della prova, non sembra superfluo sottolineare che il potere concesso alle parti e' cosi' ampio - si parla infatti di accordo "delle parti" e non gia' delle parti "interessate" - che ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla sua posizione - ma rilevanti rispetto a posizioni diverse - senz'altro scopo che il porre un impedimento al regolare esercizio della giurisdizione Ma la situazione si aggrava proprio quando la parte - in particolare l'imputato - si oppone alla lettura di dichiarazioni irripetibili rese direttamente a suo carico. In tal caso infatti - posto che tali dichiarazioni non sono considerate ontologicamente inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non ne avrebbe consentito la documentazione e l'utilizzo anche in fase di indagini preliminari ed anche a fini cautelari - il meccanismo normativo risulta semplicemente paradossale: i veti incrociati di soggetti privati - quali sono gli imputati e gli imputati in procedimento connesso - possono precludere l'esercizio stesso della giurisdizione e prima ancora quello dell'azione penale. Considerato che i soggetti predetti agiscono, come si notava, per interessi privatissimi e sinanco meramente egoistici, l'ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo' non essere ritenuto irrazionale. La stessa Corte costituzionale (sent. n. 111 del 1993) ha infatti considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico ministero - organo cui pure la Corte riconosce funzioni pubbliche finalizzate esclusivamente all'applicazione della legge (sent n. 88 del 1991) - di disporre del processo disponendo della prova (potere riconosciutogli dai giudici di merito remittenti grazie ad una interpretazione dell'art. 507 c.p.p. ritenuta illegittima). A questo punto non si puo' non considerare illegittimo a maggior ragione l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti privati - quali sono gli imputati e la parte civile - che, come tali, orientano i loro comportamenti secondo logiche meramente individualistiche. E' altresi' prospettabile, considerate le precedenti osservazioni, una diretta violazione dell'art. 25 comma 2 nella parte in cui prevede che i colpevoli debbano essere puniti. E' invero quanto mai evidente che, condizionando l'utilizzo da parte del giudice di elementi di prova irripetibili raccolti durante le indagini al consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi spiegano la loro efficacia probatoria, si consente che l'imputato stesso, mediante una scelta discrezionale, immotivata, insindacabile ed eventualmente ispirata ad interessi non tutelabili, impedisca l'accertamento del fatto e percio' delle sue (eventuali) responsabilita'. In sostanza, si consente all'imputato, disponendo della prova a suo carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del processo, in violazione - gia' riconosciuta una volta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 1993 con riferimento all'interpretazione astrattamente formalistica dell'art. 507 c.p.p. recepita dai giudici remittenti - degli artt. 3, 25 comma 2, 27 comma 1 Cost. Ne' puo' essere richiamato, in contrario avviso, il principio di presunta innocenza dell'imputato, poiche' tale principio, se fosse interpretato nel senso assolutistico di conferimento all'imputato del potere di interdire l'assunzione delle prove a suo carico, renderebbe inutile l'esercizio stesso dell'azione penale e della giurisdizione annullando il valore dei connessi principi. Va approfondito, seguendo prospettive gia' accennate, il contrasto della disciplina di cui si discute con gli artt. 101 e 111 della Costituzione. E' banale osservare che la formazione del razionale e motivato convincimento giudiziale - artt. 3, 101 comma 2, 111 Cost. - non e' solo parte integrante dell'esercizio della funzione giurisdizionale, ma e' cio' in cui lo scopo stesso del processo si invera. Ebbene, a parere del tribunale, la normativa di cui si tratta, introducendo il potere delle parti di disporre della prova - tale essendo, lo si ripete, in tutta la sistematica codicistica l'elemento raccolto in sede di indagini dal pubblico ministero divenuto imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibile -, consente di sottrarla alla razionale e motivata valutazione del giudice, in tal modo impedendogli di formarsi un convincimento che si avvicini il piu' possibile alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo la pronuncia di una giusta decisione. Vale anche notare che, almeno nella materia dell'utilizzabilita' delle prove processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve a privati quali sono gli imputati, gli imputati in procedimento connesso e la parte civile, la decisione ultima e definitiva, oltre che discrezionale, immotivata ed incontrollabile (tali non sono le scelte effettuate nell'ambito dei procedimenti speciali, che hanno sempre come alternativa il giudizio ordinario) sull'utilizzabilita' delle prove, allora appare violata dalla legge stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto solo alla legge: per il tramite formale di una norma giuridica il giudice - nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio - viene fatto soggiacere alle decisioni altrui. Si individuano, infine, contrasti contrapposti della normativa in questione rispetto alla posizione della parte civile. Da un lato, infatti, la disciplina descritta contrasta anche con il diritto di difesa della parte civile (artt. 24 commi 1 e 2 Cost.), poiche' la devoluzione agli imputati della facolta' di impedire l'utilizzo di elementi di prova divenuti imprevedibilmente irripetibili, danneggia irragionevolmente - in base a quanto detto in precedenza - il suo diritto di veder tutelati gli interessi privatistici di cui assume avvenuta la lesione ad opera dell'imputato con la commissione del reato. Mette conto notare, in proposito, che la parte civile non puo', nella fase delle indagini preliminari, ne' chiedere ne' partecipare, come tale, all'incidente probatorio e, nell'udienza preliminare, puo' parteciparvi se chiesto da altri ma non chiederlo (art. 392 comma 1 c.p.p., non modificato, quanto a legittimazione alla richiesta dalla sent. Corte cost. n. 77 del 1994). Percio', ammesso e non concesso che possa onerarsi la parte civile della previsione in ordine all'esercizio o no della facolta' di non rispondere da parte degli imputati od imputati in prodimento connesso, la parte in questione non potrebbe, anche se volesse, rimediare mediante l'anticipazione del contraddittorio all'(evetualmente) prevedibile esercizio di quella facolta'. Cioe', rispetto alla parte civile, le dichiarazioni rese al p.m. dall'imputato in procedimento che si avvalga della facolta' di non rispondere sono sempre irrimediabilmente irripetibili. Per apprezzare le ulteriori contraddizioni che emergono da altro e opposto angolo di visuale, quello della titolarita' in capo alla parte civile del potere di negare il proprio consenso all'utilizzo delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati in procedimento connesso che si avvalgano della facolta' di non rispondere, occorre preliminarmente osservare che tale titolarita', in base alla lettera della legge, e' incontroversa. L'accordo circa l'utilizzabilita' di quelle dichiarazioni e' devoluto "alle parti", dunque a tutte le parti compresa la parte civile, che parte e', incontestabilmente, nel processo. Ne' e' possibile dare della lettera della legge interpretazione piu' restrittiva - ad esempio intendere "parti" come "parti interessate" - non solo perche' la determinazione nel pieno della istruttoria dibattimentale la cui possibile evoluzione e' sconosciuta al giudice apparirebbe quanto mai disagevole, ma soprattutto perche' valorizzare l'interesse della singola parte all'utilizzo dell'atto significherebbe fatalmente concedere a ciascuna il potere di interdire l'utilizzabilita' di un atto nei suoi confronti, ma non nei confronti di altre parti - come esplicitamente, con diversa formula, previsto dall'art. 513 comma 1 c.p.p. -. Tale eventualita' porterebbe ad una utilizzabilita' soggettivamente indirizzata per imputato degli atti acquisiti, con conseguenti ostacoli ancora maggiori ed in alcuni casi probabilmente insormontabili sia alla formazione di un razionale e motivabile convincimento giudiziale, sia alla unitarieta' dell'accertamento fattuale operato dal giudice. Considerati i suesposti argomenti, appare dunque evidente che anche la parte civile risulta titolare del potere di interdizione di cui si va discorrendo. Se cio' e' vero, ben potrebbe la parte civile - nella personale interpretazione dei suoi interessi privatistici - o opporsi alla acquisizione di dichiarazioni di imputati in procedimento connesso che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere e che il pubblico ministero intenda introdurre a carico degli imputati o, ancor piu' verosimilmente, opporsi alla acquisizione di dichiarazioni del genere quando ridondino a discarico degli imputati ma il pubblico ministero si determini a prestare il suo consenso in armonia con il ruolo istituzionale che gli e' proprio. Nel primo caso sarebbe evidente la lesione del principio di cui all'art. 112 Cost., nel secondo la lesione contemporanea, oltre che del principio predetto, del diritto di difesa degli imputati. Ma, rispetto alla parte civile, l'irragionevolezza della disciplina legislativa si apprezza anche considerando che la parte medesima, come detto, non e' legittimata a chiedere l'incidente probatorio: l'irrazionalita' si rinviene nella circostanza che una parte, alla quale e' gia' in astratto preclusa la possibilita' di chiedere l'esame predibattimentale di un imputato o di un imputato in procedimento connesso con le garanzie del contraddittorio, abbia il potere di interdire l'utilizzo di elementi di prova raccolti in assenza di un contraddittorio che comunque non era legittimata ad attivare. 5. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' degli artt. 210 comma 4 e 513 c.p.p. nella parte in cui prevedono che l'imputato in procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di soggetti non presenti all'atto di assunzione davanti al pubblico ministero, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere. Ritiene questo Collegio che le discrasie e le contraddizioni in cui si involge la disciplina introdotta con l'art. 1 legge n. 267 del 1997 - ed in particolare quella di cui al comma 2 dell'art. 513 c.p.p. -, siano dovute alla creazione legislativa di un vero e proprio conflitto - in quanto tale irragionevole - tra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisdizionale. Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un verso il diritto al contraddittorio degli imputati e, per altro verso il loro diritto a non sottoporsi all'esame dibattimentale - entrambi espressione del piu' generale diritto di difesa -, la legge finisce per sacrificare l'esercizio della giurisdizione: in nome del suo diritto al contraddittorio ciascuna parte puo' vietare ad nutum l'utilizzabilita' di dichiarazioni di un altro soggetto (imputato in procedimento connesso) che, in nome del suo diritto di difesa, abbia reso impossibile il contraddittorio medesimo avvalendosi ad nutum della facolta' di non rispondere. Da tale pur sintetica analisi emerge immediatamente per un verso l'irragionevolezza del meccanismo - poiche' gli artt. 2, 3, 25 comma secondo, 101 comma secondo, 102, 111 della Costituzione fondano il principio di indefettibilita' di una giurisdizione penale, ed in particolare di un dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo affinche' possa essere emessa una giusta decisione - per altro verso, che il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti e, per altro verso ancora, che il conflitto in questione e' stato erroneamente risolto a danno della giurisdizione. E' evidente che il diritto al silenzio (e la facolta' di menzogna) possono essere indirettamente tutelati in tanto in quanto non consentano di bloccare ne' l'esercizio dell'azione ne' l'esercizio della giurisdizione, ma solo come diritto dell'individuo ad astenersi dal collaborare con gli organi preposti alla verifica della responsabilita' penale. Quindi i contemperamenti volti a risolvere il problema del conflitto degli interessi contrapposti non possono che essere ricercati su altri piani. Ed invero, il processo introdotto nel 1988 - tendenzialmente accusatorio -, ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine quello dell'oralita' - id est, formazione della prova in dibattimento, cioe' nel contraddittorio delle parti di fronte al giudice che decide nel merito del processo -. Cio', tra l'altro in armonia con il disposto dell'art. 6 comma 2 let. d) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella formazione della prova, del resto, e' apparso uno degli scopi fondamentali che hanno mosso l'azione del legislatore del 1997. Seppure a mezzo di meccanismi processuali irrazionali e' palese l'intenzione di costruire il contraddittorio, sub specie di diritto all'esame e controesame, come diritto delle parti. Tanto premesso, e' pero' pure palese che una delle condizioni per lo sviluppo del contraddittorio, quando esso assume forma genetica della prova cioe' la forma dell'esame incrociato, e' che il soggetto che vi e' sottoposto sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Se tale condizione non sussiste, invero, si concede al soggetto in questione il potere di vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. D'altra parte e' scontato, almeno nel nostro ordinamento processuale penale, che elementi di accusa possano provenire da coimputati od imputati in procedimento connesso, peraltro titolari, come tali, della facolta' di non rispondere. Ebbene, mentre la concessione alle parti di un diritto di veto rispetto all'acquisizione delle dichiarazioni rese senza contraddittorio dagli imputati in procedimento connesso divenute irripetibili finisce per ledere irreparabilmente il razionale esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della giurisdizione e lo scopo stesso del processo, la acquisizione immediata di tali dichiarazioni finisce per ledere il diritto di azione e/o difesa delle parti sub specie di diritto all'esame ed al controesame. Si privano le parti del potere di fare domande, ricevere risposte, dialettizzare, rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito nelle indagini attraverso le contestazioni. Cio' posto - considerando come fondamento della costruzione ordinamentale da un lato la stessa prospettiva del legislatore del 1988 e del 1997 e cioe' l'intangibilita' del diritto al contraddittorio e, dall'altro, i principi di uguaglianza, legalita', obbligatorio esercizio dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione -, diviene irrazionale riconoscere, al coimputato od all'imputato in procedimento connesso che abbiano reso al pubblico ministero dichiarazioni che costituiscono elemento indiziante a carico di determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento a carico di quei soggetti. In tali limiti non appare manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24 comma 2 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210 comma 4 e 513 comma 2 c.p.p. E' superfluo sottolineare che un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme predette e nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di esercitare il proprio diritto all'esame - con le correlative ed eventuali contestazioni -, mentre non introdurrebbe per gli imputati in procedimento connesso l'obbligo di dire la verita', con le correlative sanzioni. Dichiarazioni rese in sede di esame e contestazioni sarebbero ovviamente valutabili dal giudice ai fini della decisione. In sostanza, l'unica via razionale aperta alla soluzione del problema in questione - posti i vincoli di principio dell'indefettibilita' della giurisdizione, dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale, della funzione conoscitiva del processo, del diritto di difesa degli imputati e degli imputati in procedimento connesso - e' quella di ritenere che, a fronte di dichiarazioni indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri, il diritto di difesa del dichiarante si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in causa - sub specie di diritto ad interrogarlo sulle accuse direttamente od indirettamente rivolte loro -. La ragionevolezza di tale affievolimento si apprezza anche in considerazione del fatto che, quando il sede penale - indagini o dibattimento -, un soggetto sottoposto ad indagine o un imputato rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in quel modo preciso il suo diritto di difesa, con tutti i benefici e gli inconvenienti del caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria (art. 112 della Costituzione) di approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini sia di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in sede cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti all'accertamento. Date le conseguenze di un tale comportamento - universalmente note a qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere il dichiarante da una assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame. Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto cancellato, posto che egli manterrebbe - in quanto non trasformato in testimone, anche se con i limiti del caso (artt. 367 e ss. c.p.) - la facolta' di dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire, facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di difesa. D'altro canto proprio le virtu' euristiche dell'esame dibattimentale - nelle quali il legislatore mostra di riporre la massima fiducia -, oltre che l'intero sistema processuale nel suo complesso garantiscono piu' che a sufficienza dal pericolo che le menzogne dibattimentali vengano recepite in sentenza o, quanto meno, riducono tale pericolo rispetto al livello che esso attinge quando vengono acquisite dichiarazioni assunte da una parte senza contraddittorio e divenute irripetibili. Al legislatore rimarrebbe, comunque, sia la valutazione se il dichiarante-accusatore debba o no essere equiparato al testimone, sia, in caso contrario, la decisione circa l'introduzione - ovviamente opportuna poiche' costituente una forma di tutela dell'effettivita' del contraddittorio - di un nuovo reato contro l'amministrazione della giustizia avente come fattispecie obiettiva l'omessa risposta a domande rivolte nel corso dell'esame ad imputati in procedimento connesso che abbiano reso dichiarazioni indizianti a carico di altri in loro assenza. Occorre infine notare che la questione di legittimita' di cui si discorre e' stata trattata per ultima per comodita' espositiva dei complessi problemi sottostanti a quelle dianzi considerate. Tuttavia essa si pone come preliminare sia rispetto a quella concernente l'art. 513 comma 2 come modificato dall'art. 1 legge n. 267 del 1997, sia rispetto a quella concernente l'art. 6 comma 5 della citata legge. E' chiaro infatti che, qualora venisse accolta la eccezione di cui qui si discorre, verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali su cui e' costruita l'attuale disciplina dell'acquisizione delle dichiarazioni degli imputati in procedimento connesso e si determinerebbe immediatamente, in base a questo dato nuovo, la necessita' di verificare la compatibilita' costituzionale di una disciplina che affida alla volonta' delle parti il potere di interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi - a questo punto illegittimamente -, rifiuta di rispondere. Ritiene il Collegio che tutti i motivi che rendono non manifestamente infondata la questione concernente l'attuale testo dell'art. 513 comma 2 c.p.p., non possano che essere ribaditi con forza anche con riferimento a questa nuova situazione. Ed invero l'illegittimo rifiuto di rispondere puo' conferire in astratto alle precedenti dichiarazioni o particolare credibilita' - perche' sono acquisiti elementi dai quali si ricava che l'imputato di reato connesso ha rifiutato di rispondere a causa di minacce od offerte di utilita' ovvero "risultano altre situazioni che hanno compromesso la genuinita' dell'esame" (art. 500 comma 5 c.p.p.) - oppure particolare inaffidabilita', potendosi ipotizzare che l'illegittimo rifiuto di rispondere sia assimilabile ad una attendibile ritrattazione. Orbene, un problema del genere appare ovviamente irresolubile in astratto - cioe' mediante disciplina legislativa - e, per sua natura, non puo' che essere risolto caso per caso nell'ambito del singolo processo e, cioe', sottoposto prima al contraddittorio delle parti e poi al razionale e motivato convincimento giudiziale, affinche' sia resa una giusta decisione nella situazione concreta. Si deve concludere, quindi, che accolta quest'ultima eccezione, non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' dell'art. 513 comma 2 c.p.p. - come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997 - nella parte in cui subordina al consenso delle parti l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati in procedimento connesso che comunque si rifiutino di rispondere 6. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art 6 comma 5 legge n. 267/1997 nella parte in cui esclude che elementi di prova utili alla conferma dell'attendibilita' di dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento ex art. 513 previgente siano desumibili anche da altre dichiarazioni dello stesso tipo. La questione sollevata dal pubblico ministero non e' manifestamente infondata, seppure per motivi parzialmente diversi da quelli indicati. 6.1. - Natura delle dichiarazioni delle persone indicate dall'art. 513 c.p.p. e degli elementi di prova atti a confermarne l'attendibilita'. Per valutare la legittimita' costituzionale della regola di giudizio contenuta nell'art. 6 comma 5 legge n. 267 del 1997 occorre premettere brevi osservazioni circa la natura riconosciuta dalla Suprema Corte alle dichiarazioni predibattimentali delle persone indicate dall'art. 513 c.p.p. - specie quando assumano la forma di chiamate in correita' od in reita' - ed agli elementi di prova ritenuti idonei a confermarne l'attendibilita'. In proposito occorre notare che il testo dell'art. 6 comma 5 legge n. 167 del 1997 riproduce, salvo che per la limitazione sopra evidenziata, quello dell'art. 192 comma 3 c.p.p., pacificamente applicabile anche con riferimento alle dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente, cosicche' appaiono mutuabili in chiave interpretativa gli orientamenti giurisprudenziali gia' consolidatisi al riguardo. Con riferimento alla prima questione costituisce ormai dato acquisito l'affermazione secondo la quale la chiamata in correita', quando abbia superato il rigoroso vaglio di attendibilita' intrinseca (genuinita', spontaneita', disinteresse, costanza, logica interna del racconto, precisione, completezza, diffusione descrittiva, assenza di elementi probatori contrastanti: cfr, tra le tante, Cass., sez. un., 21 ottobre 1992-22 febbraio 1993, Marino; Cass., sez. I, 24 giugno 1991, Agnoletto; Cass., sez. VI, 2 giugno-24 agosto 1993, Geido ed altri) ha natura non gia' di mero indizio, ma natura di prova e precisamente di prova rappresentativa, sebbene abbisognevole di elementi estrinseci di conferma (Cass., sez. I, 27 novembre 1989, Andreini ed altri; Cass., sez. un., 3 febbraio 1990, Belli; Cass., sez. I, 23 agosto-19 settembre 1990, Carollo; Cass., sez. II, 26 ottobre 1989-3 luglio 1990, Guzzardi; Cass., sez. un., 6 dicembre 1991, Scala ed altri; Cass., sez. II, 19 febbraio-26 aprile 1993, Fedele ed altri; Cass., sez. I, 30 gennaio 1992, Abate e altri; Cass., sez. VI, sent. n. 2775 del 12 gennaio-16 marzo 1995). Il vaglio di attendibilita' delle dichiarazioni di imputati in procedimento connesso (o coimputati) e' poi pacificamente ritenuto preliminare rispetto alla verifica della sussistenza ed efficacia dei riscontri, pur se il giudizio finale sul raggiungimento del risultato di prova e' indicato come il frutto di una operazione unitaria e complessiva di valutazione delle diverse risultanze. Quanto alla seconda questione - natura degli elementi di conferma dell'attendibilita' delle dichiarazioni predette - sono costanti alcune affermazioni. Anzitutto gli elementi probatori atti a confermare l'attendibilita' delle dichiarazioni in questione debbono essere "altri" rispetto alle dichiarazioni stesse, cioe' avere fonte o natura diversa. In secondo luogo tali elementi "non sono predeterminati nella specie e qualita' e, di conseguenza, possono essere, in via generale, di qualsiasi specie o natura" (Cass., sez. I, 27 novembre 1989, Andreini ed altri; Cass., sez. un., 3 febbraio 1990, Belli; Cass., sez. un., 6 dicembre 1991, Scala ed altri; Cass., sez. I, 20 febbraio-26 marzo 1996, Emmanuello; Cass., 19 aprile-28 maggio 1991, Riccardi). A tal proposito la Corte di cassazione ha tracciato un utilissimo elenco esemplificativo di possibili elementi probatori idonei a costituire riscontro delle dichiarazioni di cui si discute: "... In dette esperienze esterne e' un dato consolidato ... che sono valorizzabili, in termini di efficaci riscontri della rapportabilita' del fatto delittuoso al soggetto accusato ... le analisi scientifiche di cose connesse con il delitto, le ammissioni dell'accusato, i comportamenti del medesimo sia anteriori che successivi al reato tali da destare sospetti o inspiegabili, le contraddizioni nelle quali l'accusato sia incorso, le sue dichiarazioni false o menzognere, la fuga dopo il delitto, la partecipazione dell'accusato agli atti preparatori del delitto, la prossimita' dell'accusato al luogo dove e' stato commesso il delitto accompagnata da circostanze inusuali, l'associazione con modalita' tali da suggerire la partecipazione al delitto, il possesso di strumenti probabilmente usati per commettere il delitto, la non spiegabile disponibilita' dei frutti del delitto, la deposizione di altri complici. E se ne possono aggiungere sia in base ad una piu' minuziosa rassegna dell'esperienza giurisprudenziale interna e comparata, sia procedendo per assimilazione o scorporazione o sottodistinzione delle ipotesi generali in sottoipotesi aventi gli stessi elementi costitutivi. Come si puo' notare gli elementi di riscontro coprono un'area indefinita e vastissima" (Cass., sez. I, Abate, cit.). E' altresi' dato consolidato che i cosiddetti riscontri esterni, dovendo avere la semplice funzione di conferma della credibilita' delle dichiarazioni accusatorie, non debbono di necessita' costituire di per se stessi piena prova del fatto anche perche' una regola siffatta renderebbe sostanzialmente inutile la presenza della chiamata in correita' ai fini della prova del fatto stesso (per tutte: Cass., sez. I, 21 settembre-9 novembre 1990, n. 14669, Fidenzia; Cass., sez. II, 7 dicembre 1993-17 gennaio 1994, n. 4947, Alessandrino; Cass., sez. IV, sent. n. 9509, 11 maggio-20 ottobre 1993, Ameglio; Cass., sez. I, 18 gennaio 1991, Liguori). Da tali affermazioni si sono coerentemente tratte almeno due conseguenze, ovvero che gli elementi di conforto dell'attendibilita' possano essere di natura logica - cioe' concretantisi in inferenze concettuali che, a partire da un fatto noto, facciano ritenere probabile l'accadimento di un fatto ignoto capace di confermare l'attendibilita' delle dichiarazioni del chiamante in correita' (Cass., sez. IV, Ameglio, cit.; Cass., sez. II, 7 febbraio 1991, Vannini) - e la possibilita' che una chiamata in correita' possa essere corroborata a mezzo di altra chiamata in correita', alla tassativa condizione che entrambe siano valutate come intrinscamente attendibili e soprattutto tra loro autonome distinte (Cass., sez. VI, sent. n. 2775 del 12 gennaio-16 marzo 1995; Cass., sez. VI, sent. n. 13316 del 29 marzo-11 ottobre 1990, Pecorella; Cass., sez. I, 25 giugno-10 ottobre 1990, Barbato; Cass., sez. II, sent. n. 7767 del 29 novembre 1990-24 luglio 1991; Cass., sez. I, sent. n. 3744, del 30 gennaio-27 marzo 1992, Arbore; Cass., sez. I, 20 febbraio-26 marzo 1996, Emmanuello). Da questa ultima affermazione si inferisce che l'ordinamento come interpretato dalla Corte di cassazione gia' prevede che sia negata efficacia di reciproco riscontro a piu' chiamate in correita' quando non siano predicabili di reciproca autonomia. Occorre inoltre sottolineare con forza che la prevista capacita', in base all'art. 6 comma 5 legge n. 167/1997, indipendentemente da qualsiasi consenso delle parti, delle dichiarazioni predibattimentali di fondare la prova, quando corroborate da elementi probatori di natura diversa, non fa che ribadire, nel regime transitorio, la natura probatoria delle dichiarazioni acquisite ex art. 513 c.p.p. previgente. Orbene, all'esito delle precedenti osservazioni non si puo' non concludere che le dichiarazioni delle persone indicate dall'art. 513, quando siano giudicate attendibili, hanno ontologicamente, oltre che normativamente (art. 192 comma 3 c.p.p.) un valore probatorio intrinseco ben maggiore del mero elemento di prova utilizzabile in funzione di riscontro poiche' costituiscono il dato principale, il vero architrave, dell'intero procedimento valutativo che porta alla dichiarazione del risultato di prova, dato rispetto al quale l'elemento di riscontro riveste funzione accessoria. Infine ed a scanso di equivoci, va ancora osservato che lo stesso art. 6 legge n. 267/1997 e' esso stesso espressione, rispetto alle fasi di assunzione ed acquisizione della prova; della esigenza di non dispersione degli elementi di prova acquisiti in fase di indagine in assenza di contraddittorio e che non siano ripetibili in dibattimento. 6.2. - Profili di non manifesta infondatezza della questione sottoposta al Tribunale. Considerato il quadro generale della giurisprudenza della Corte costituzionale rilevante in materia (cfr. par. 4.1), si deve valutare se, rispetto alla disciplina dettata dall'art. 6 comma 5 legge n. 267 del 1997, siano ipotizzabili violazioni dei limiti costituzionali sopra indicati. Il tribunale rinviene anche in questo caso varie prospettive di violazione, quanto meno non manifestamente infondate. 6.2.1. - Intrinseca irrazionalita' della norma: contrasto con gli artt. 3, 101 commi primo e secondo, 102 comma primo, 111 commi primo e secondo della Costituzione. Occorre premettere, quanto all'utilizzabilita' del canone in questione, che la Corte ad esso ha gia' fatto ricorso, proprio nella materia che ne occupa in diverse occasioni, anche se si possono distinguere casi riconosciuti di irrazionalita' intrinseca per assoluta carenza di ragionevolezza della disciplina speciale, di irrazionalita' intrinseca per possibile utilizzo arbitrario dell'istituto da parte del titolare del potere, di irrazionalita' intrinseca per autocontraddittorieta' della norma. Alla prima categoria appartengono le irrazionalita' riconosciute nella sentenza n. 24 del 1992 - "Non si puo' sostenere nemmeno in via di mera astrazione, che gli appartenenti alla polizia giudiziaria siano da ritenersi meno affidabili del testimone comune; a prescindere dalla palese assurdita' di una ipotesi siffatta, essa risulterebbe poi in insanabile contrasto col ruolo e la funzione che la legge attribuisce alla polizia giudiziaria (...). Ne' puo' sostenersi che proprio dall'attivita' svolta nella fase delle indagini preliminari derivi una ragionevole giustificazione atta a sorreggere il divieto di cui si discute ..." - e nella sentenza n. 60 del 1995 - "La questione e' fondata sotto l'assorbente profilo della assoluta irragionevolezza di tale disparita' di disciplina ... risulta del tutto priva di razionale giustificazione una disciplina; quale quella in esame, che determina una disparita' nel regime di utilizzazione processuale tra interrogatorio diretto ed interrogatorio delegato in deroga al criterio - seguito dallo stesso codice (...) - della assimilazione, anche sotto tale profilo, tra atti diretti ed atti delegati" -. Alla seconda delle categorie illustrate appartengono le irrazionalita' riconosciute con le sentenze n. 11 del 1997 e n. 81 del 1991, piu' sopra citate. Alla terza categoria - irrazionalita' per autocontraddittorieta' della norma - appartiene invece uno dei profili in forza dei quali la Corte, con la sentenza n. 255 del 1992, ha ritenuto fondata la questione propostale. Ed invero, l'enunciazione del summenzionato principio di non dispersione delle prove sarebbe stato insufficiente, di per se', a produrre la declaratoria di illegittimita' dell'art. 500 comma 3 c.p.p. nella sua originaria versione. Tale norma prevedeva infatti due momenti preclusivi: il primo, a livello di ammissione, laddove impediva di acquisire al fascicolo per il dibattimento il verbale delle dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni; il secondo, a livello di valutazione della prova, laddove impediva di utilizzare quelle dichiarazioni come "prova dei fatti in esse(a) affermati". Orbene, l'ambito di operativita' del cosiddetto principio di non dispersione delle prove - che altro non e' se non un procedimento probatorio alternativo e sussidiario rispetto al principale fondato sul contraddittorio per la prova - e' individuabile con riferimento alla fase dell'acquisizione della prova (ulteriormente suddivisibile nelle fasi di ammissione ed assunzione della prova), ma non spiega nessun effetto rispetto agli elementi di prova che siano stati legalmente acquisiti, elementi rispetto ai quali si pongono soltanto problemi di valutazione. Che tale prospettiva sia corretta e' dimostrato dalla circostanza che la declaratoria di illegittimita' ha trovato il suo fondamento in profili ulteriori rispetto a quelli afferenti la fase di acquisizione della prova e riguardanti invece il momento della sua valutazione. Al paragrafo 3 della sentenza n. 255 del 1992 la Corte ha infatti affermato. "La regula iuris posta dalla norma impugnata presenta anche un duplice profilo in intrinseca irragionevolezza: in primo luogo ... In secondo luogo, posto che il nuovo codice fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali non poteva essere altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dare conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti (art. 192), la norma in esame impone al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa decisione - come rileva il giudice a quo - in quanto, se la precedente dichiarazione e' ritenuta veritiera, e per cio' stesso sufficiente a stabilire l'inattendibilita' del teste nella diversa deposizione resa in dibattimento, risulta chiaramente irrazionale che essa, una volta introdotta nel giudizio, entrata quindi nel patrimonio di conoscenze del giudice, ed esaminata nel contraddittorio delle parti (con la presenza del teste che rimane comunque sottoposto all'esame incrociato), non possa essere utilmente acquisita al fine della prova dei fatti in essa affermati". Ebbene, ritiene il Tribunale che lo stesso modulo di ragionamento che ha indotto la Corte a ritenere illegittimo l'art. 500 comma 3 nella sua originaria versione, valga, a maggior ragione, per ritenere l'illegittimita' dell'art. 6 comma 5 legge n. 267 del 1997 nella parte in cui esclude che elementi di prova utili alla conferma dell'attendibilita' di dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento ex art. 513 previgente siano desumibili anche da altre dichiarazioni dello stesso tipo. Ed invero, posto il principio che la decisione del processo deve essere il frutto del razionale e motivato convincimento del giudice - principio questo facilmente desumibile dagli artt. 3, 101 comma 2, 102 comma 1, 111 commi 1 e 2 -, la Corte ha affermato che non possono introdursi norme che impongano irrazionalmente al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa decisione. Ma la norma di cui si discorre impone irrazionalmente, gia' in linea astratta, al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa decisione. Ed invero, una volta prevista, come fa il legislatore, l'acquisizione e l'utilizzazione a fini di prova delle dichiarazioni delle persone indicate dall' art. 513 previgente che si siano (ulteriormente) avvalse in dibattimento della facolta' di non rispondere sol che la loro attendibilita' sia confermata da un altro elemento di prova - elemento che, come detto, puo' essere anche solo indiziante o di natura meramente logica -, non si puo' poi contemporaneamente vietare che tale elemento di conferma possa essere tratto da dichiarazioni della stessa natura provenienti da persone diverse, quando ne sia riconosciuta l'attendibilita' e la reciproca autonomia (cfr. par. 4.1.). Traducendo il dictum legislativo in termini logici e' come se il legislatore dicesse che 1 + X = 2 (dove 1 rappresenta le dichiarazioni acquisite ex art. 513 c.p.p. previgente, X l'insieme, comprendente 1, degli elementi utilizzabili a conferma di 1, e 2 il risultato di prova) ma se X =1 allora 1 + 1 =/=2. Ne' e' possibile individuare la ragion d'essere di una esclusione cosi' grave e generalizzata nell'eventuale rischio di un inquinamento reciproco tra i dichiaranti e cio' non solo e non tanto perche' non sussiste l'esperienza storica che possa fondare la ragionevolezza di una presunzione cosi' astratta e generalizzata, quanto piuttosto perche' tale disciplina contraddice la premessa adottata dal legislatore medesimo all'interno della stessa norma, e cioe' che il risultato di prova fondato sulle dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente possa essere dichiarato solo dopo che il giudice abbia vagliato in concreto, caso per caso, la loro attendibilita' e che abbia concluso positivamente sul punto. Orbene, considerato che nel giudizio di attendibilita' delle dichiarazioni in questione e' incluso per giurisprudenza costante quello sulla loro genuinita' ed autonomia - cioe' che esse non siano distorte da influenze inquinanti ad opera di terzi, tra cui si annoverano ovviamente anche i coimputati od imputati in procedimento connesso - la legge finisce per imporre al giudice la formazione del convincimento in punto di attendibilita' (e, quindi, genuinita' ed autonomia) delle medesime e contemporaneamente per imporgli di non dichiarare o smentire in decisione i risultati di tale vaglio. Tale regime normativo non puo' che predicarsi di contraddittorieta' siccome contrastante con il principio di identita' (a = a) e con il ragionamento a maiori: se dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente possono, secondo il dettato legislativo, costituire il fondamento, la base, l'architrave del procedimento di valutazione probatoria, tanto che, riconosciutane l'attendibilita', necessitano solo di riscontri che per necessita' logica possono essere anche minusvalenti come efficacia probatoria; ebbene allora a dichiarazioni della stessa natura, provenienti da persone diverse, riconosciute parimenti attendibili ed autonome, non puo' essere negata l'utilizzabilita' a fini di riscontro di quelle. Ogni qualvolta si presentasse in un processo una situazione probatoria in cui l'esistenza di un fatto rilevante si puo' desumere solo dalla pluralita' e convergenza di dichiarazioni di persone diverse, acquisite ai sensi dell'art. 513 previgente, di ciascuna delle quali sia riconosciuta l'intrinseca attendibilita' e l'autonomia; il giudice sarebbe posto dalla legge in condizione "di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa decisione". Ne' sarebbe corretto obiettare alle argomentazioni dedotte sinora che la Corte, nella sentenza n. 255 del 1992 ha trattato di un caso - quello delle contestazioni - che prevede comunque il contraddittorio tra le parti (il teste "rimane comunque sottoposto all'esame incrociato"). L'obiezione sembra invero inconferente considerando, lo si sottolinea con forza, che lo stesso legislatore ha, in questo caso ed in omaggio al principio di non dispersione delle prove, riconosciuto efficacia probatoria a dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente attendibili e riscontrate. E' il caso di rilevare che la contraddizione cui il giudice viene irrazionalmente obbligato dalla norma di cui si discute, oltre a porre un ostacolo irragionevole all'esercizio della giurisdizione in se' stessa intesa - con violazione del disposto degli artt. 3, 101 comma 2 e 102 comma 1 -, finisce per minare la legittimazione delle decisioni giudiziarie che, come si evince dal combinato disposto degli artt. 101 comma 1 e 111 comma 1, riposa non solo sulla scrupolosa applicazione della legge (art. 101 comma 2), ma anche sulla loro comprensibilita' ai destinatari (le parti ed il popolo) e, quindi, in primis sulla loro rispondenza alla logica; condizione primaria della loro possibile condivisione collettiva. Si impone, da ultimo una notazione circa il rapporto della disciplina de qua con il diritto di difesa dell'imputato. Tale rapporto sfugge, posto che la norma in questione non impone ne' agevola alcuna forma di contraddittorio tra le parti ne' incrementa in alcun modo i poteri della difesa in quanto tale nel processo, limitandosi (irrazionalmente) a dichiarare la parziale inutilizzabilita' di elementi di cui e' altrimenti riconosciuto il valore probatorio. Ne' e' pensabile che la mera reiterazione della citazione dell'imputato in procedimento connesso ai sensi dell'art. 6 comma 1 legge n. 267 del 1997 possa in alcun modo indurlo a smentire la scelta del silenzio gia' consapevolmente adottata in precedenza e determinarlo a rispondere alle domande, situazione che sola tutela effettivamente il diritto al contraddittorio. 6.2.2. - Disparita' di trattamento tra imputati. Violazione degli artt. 3 e 25 comma secondo della Costituzione. Proseguendo sulla stessa linea ma sotto altro profilo, si rinviene una disparita' di trattamento tra imputati che siano gli uni raggiunti da chiamate in correita' attendibili corroborate da elementi di prova di natura diversa da altre chiamate in correita' ma di efficacia probatoria minusvalente rispetto ad esse (es.: meri indizi), ed altri che siano raggiunti da chiamate in correita' convergenti, giudicate pienamente attendibili ed autonome. La condanna dei primi e l'assoluzione dei secondi importa una patente violazione dei principi di uguaglianza e legalita' (artt. 3 e 25 comma secondo della Costituzione). Una violazione dello stesso genere si ha tra imputati gli uni raggiunti da chiamate in correita' del genere da ultimo descritto (c.d. "incrociate") e gli altri solo da indizi che pero' il giudice ritenga, giusta il disposto dell'art. 192 comma 2 c.p.p., sufficienti a fargli dichiarare accertato il fatto. Ancora, appare priva di giustificazione alcuna la differenziazione di trattamento tra imputati a carico dei quali gravi una pluralita' di convergenti chiamate in correita' formalizzate in dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente ed imputati a carico dei quali gravino o solo dichiarazioni di coimputati e/o imputati in procedimento connesso acquisite ex art. 512 c.p.p. (ad esempio perche' deceduti o affetti da totale amnesia causata da infermita') oppure dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente e dichiarazioni di coimputati ed imputati in procedimento connesso acquisite ex art. 512 c.p.p. Solo nel primo caso, infatti, ma non nel secondo la norma di cui si discute impedisce il riscontro reciproco, nonostante si tratti di dichiarazioni tutte ugualmente acquisite dal pubblico ministero nella fase delle indagini in assenza della difesa e tutte divenute irripetibili a causa di imprevedibili fatti sopravvenuti. In particolare tra questi untimi deve sicuramente annoverarsi l'esercizio da parte dell'imputato o dell'imputato in procedimento connesso della facolta' di non rispondere, trattandosi di diritto meramente potestativo il cui azionamento e' rimesso esclusivamente alla valutazione che il titolare faccia di suoi particolari interessi di carattere processuale od extraprocessuale. Parimenti ingiustificato e' il differente trattamento riservato ad imputati raggiunti solo da dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente ed imputati raggiunti o soltanto da dichiarazioni acquisite a seguito di contestazione ex art. 503 c.p.p. - quando l'imputato o l'imputato in procedimento connesso hanno accettato l'esame ma si siano rifiutati di rispondere a singole domande - o sia da dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente e da dichiarazioni acquisite ex art. 503 c.p.p. Infatti, mentre nel primo caso e' inibito il riscontro reciproco delle dichiarazioni, nel secondo e nel terzo il riscontro reciproco e' ammissibile, nonostante si tratti di dichiarazioni, come gia' detto, di identica natura. 6.2.3. - Violazione degli artt. 3 e 112 della Costituzione. Quanto detto in precedenza con riferimento all'apprezzamento della prova da parte del giudice puo' essere ripetuto con riferimento all'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero - azione che deve essere caratterizzata da imparzialita' e razionalita' - poiche' la disciplina in questione condiziona, prima che la formazione del convincimento del giudice in sede di decisione, il contenuto e l'esito di almeno un atto che costituisce tipicamente esercizio di quel potere quale la formulazione ed i termini delle conclusioni all'esito del dibattimento (art. 523, comma 1, c.p.p.). L'applicazione della norma in questione costringerebbe infatti il pubblico ministero a chiedere assoluzione di imputati nei cui confronti abbia esercitato l'azione penale ed eventualmente anche chiesto ed ottenuto l'applicazione di misure cautelari coercitive in base a plurime autonome e convergenti dichiarazioni a carico di persone indicate nell'art. 513 c.p.p. 6.2.4. - Irrazionalita' intrinseca dell'art. 6, comma 5, legge n. 267/1997 in quanto regime transitorio: violazione degli artt. 3 e 112 della Costituzione. Constatato che il regime ordinario introdotto con l'art. 1, legge n. 267/1997 comportava un notevole depotenziamento delle armi dell'accusa - poiche' le indagini antecedenti all'entrata in vigore della legge erano state compiute in vista di un processo in cui, quando l'imputato o l'imputato in procedimento connesso si fossero avvalsi della facolta' di non rispondere o si fossero comunque sottratti al contraddittorio, le loro dichiarazioni erano incondizionatamente acquisibili e pienamente utilizzabili - l'intenzione del legislatore, quale palesata nei lavori preparatori della legge, era quella di non consentire che il sopravvenuto mutamento normativo danneggiasse irreparabilmente l'esercizio dell'azione penale in quei processi. Orbene, la disciplina adottata non evita tale danno irreparabile, ma al contrario ne costituisce la causa, ogni qualvolta il pubblico ministero si sia determinato ad esercitare l'azione penale nei confronti dell'imputato ritenendo di avere raccolto a suo carico elementi sufficienti a provarne la responsabilita' e consistenti in convergenti, autonome ed attendibili dichiarazioni suscettibili di acquisizione ex art. 513 previgente. In tal caso, infatti, la norma di cui si discute introduce a sorpresa e senza che il pubblico ministero possa porvi rimedio una regola di valutazione nuova ed opposta alla precedente che determina l'annullamento del valore probatorio gia' riconosciuto a quelle risultanze. Si rinviene in cio' una lesione del diritto alla prova del pubblico ministero, diritto che e' immediata manifestazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale. E' inoltre appena il caso di rilevare che non sembra possibile giustificare la disciplina in questione sul presupposto che tutte le volte che le dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente si corroborano reciprocamente, v'e' il sospetto che tale effetto sia stato ottenuto mediante manovre fraudolente degli organi inquirenti. Tale sospetto infatti appare innanzi tutto istituzionalmente assurdo ed inaccettabile ancor piu' di quello che alcuni ipotizzavano caratterizzasse la ragion d'essere della esclusione della testimonianza de relato della polizia giudiziaria; in secondo luogo, se per avventura fosse ritenuto fondato, dovrebbe portare alla cancellazione del valore probatorio del mezzo di prova di cui si discute, non gia' alla affermazione della sua utilizzabilita', seppur parziale o disponibile.