IL TRIBUNALE
   Decidendo in ordine alla questione di  legittimita'  costituzionale
 sollevata  dal  pubblico ministero in ordine all'art. 513 c.p.p. come
 sostituito dall'art. 1 legge 7 agosto 1997, n.  267  ed  all'art.  6,
 comma 5, della medesima legge, sentite le altre parti,
                             O s s e r v a
   1.  -  Il  23  aprile 1997 il tribunale, sentite le richieste delle
 parti, emetteva ordinanza di ammissione delle  prove,  tra  le  quali
 l'esame  degli  imputati  in  procedimento connesso Dell'Aglio Luigi,
 Ruggiero  Giuseppe,   Castiglioni   Gianfranco,   Colombo   Antonino,
 Holzmiller  Giuseppe,  Rittatore  Vonwiller Andrea, oltre a tutti gli
 imputati del presente processo che avevano definito la loro posizione
 a mezzo di  applicazione  di  pena  (Pepe  Pietro,  Pugliatti  Carlo,
 Orlandi   Maurizio,  Maiorino  Mariano,  Palummeri  Carmelo,  Cavallo
 Giulio, Bocca Piercarlo, Fusetti Antonio, Napodano Giovanni Bosco).
   Nel corso della stessa udienza si presentava per l'esame l'imputato
 in procedimento connesso Dell'Aglio che si avvaleva della facolta' di
 non rispondere. A seguito di  cio'  il  pubblico  ministero  chiedeva
 l'acquisizione  dei  verbali delle dichiarazioni rese dal predetto in
 fase di indagini preliminari davanti al suo ufficio ed il  tribunale,
 a  mente  dell'art.  513  c.p.p. cosi' come modificato dalla sentenza
 Corte costituzionale n. 254 del 1992, disponeva in conformita'.
   Entrata in vigore la legge n. 267  del  1997,  all'udienza  del  14
 ottobre scorso i difensori degli imputati chiedevano la citazione del
 suindicato  imputato in procedimento connesso per il nuovo esame.  Il
 Dell'Aglio si avvaleva nuovamente della facolta' di  non  rispondere;
 veniva  quindi  introdotto  il Ruggiero, il quale pure si avvaleva di
 tale facolta'.
   A  questo  punto  il  pubblico  ministero  chiedeva  la  lettura  e
 l'acquisizione   delle   dichiarazioni   del   Ruggiero  ed  eccepiva
 l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. come  sostituito
 dall'art.  1,  legge  n.  267  del 1997 e dell'art. 6, comma 5, della
 stessa legge per contrasto con gli artt. 2, 3, 25 comma secondo, 101,
 112 della Costituzione.
   Le  parti  interloquivano nel merito dell'eccezione ed il tribunale
 si riservava di decidere all'odierna udienza. Nelle  more  la  difesa
 Semilia depositava memoria.
   2. - Interpretazione dell'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art.
 1  della  legge n. 267 dell'8 agosto 1997 e dell'art. 6, commi 2, e 5
 della stessa legge.
   L'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1,  legge  n.  267  del
 1997  dispone:  "1)  Il giudice, se l'imputato e' contumace o assente
 ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte
 che  sia  data  lettura  dei   verbali   delle   dichiarazioni   rese
 dall'imputato  al  pubblico  ministero  o alla polizia giudiziaria su
 delega del pubblico ministero o al giudice nel corso  delle  indagini
 preliminari  o  nell'udienza  preliminare,  ma tali dichiarazioni non
 possono essere utilizzate  nei  confronti  di  altri  senza  il  loro
 consenso.  2)  Se  le  dichiarazioni  sono  state  rese dalle persone
 indicate nell'art. 210, il giudice, a richiesta  di  parte,  dispone,
 secondo  i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o l'esame
 a domicilio ... ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con
 le garanzie del contraddittorio.   Se non e'  possibile  ottenere  la
 presenza  del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei modi
 suddetti,  si  applica  la  disposizione  dell'art.  512  qualora  la
 impossibilita'  dipenda  da  fatti  o  circostanze  imprevedibili  al
 momento delle dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga  della
 facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali
 contenenti  le  suddette  dichiarazioni  soltanto con l'accordo delle
 parti. 3) Se le dichiarazioni di cui ai commi  1  e  2  del  presente
 articolo  sono state assunte ai sensi dell'art.  392, si applicano le
 disposizioni di cui all'art. 511".
   Come  e'  evidente  la  norma,  con  riferimento   alla   posizione
 dell'imputato  in  procedimento  connesso  -  che  e' l'unica che qui
 rileva - e' finalizzata ad ottenerne la presenza in dibattimento  per
 poter  sottoporre  il  medesimo  ad esame e, quando questi si avvalga
 della facolta' di non rispondere,  prevede  come  condizione  per  la
 lettura   (e   la   conseguente  acquisizione  al  fascicolo  per  il
 dibattimento) delle dichiarazioni indicate al comma 1,  l'accordo  di
 tutte le parti presenti nel processo.  Indirettamente ma chiaramente,
 percio',  la  norma  attribuisce  a ciascuna delle parti il potere di
 vietare  la  lettura  e  l'acquisizione   e   l'utilizzazione   delle
 dichiarazioni sopra indicate.
   Si  tratta  percio'  di  una  disposizione  che,  nel  procedimento
 probatorio, regola la fase di acquisizione della prova.
   L'art. 6, comma 2, legge n. 267 del 1997 prevede: "Nel giudizio  di
 primo  grado  in  corso,  quando  e'  stata  disposta la lettura, nei
 confronti  di  altri  senza  il  loro  consenso,  dei  verbali  delle
 dichiarazioni,  rese  dalle persone indicate nell'art. 513 del codice
 di procedura penale al pubblico ministero, alla  polizia  giudiziaria
 da  questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari
 o dell'udienza preliminare, ove le parti lo  richiedano,  il  giudice
 dispone la citazione delle predette persone per un nuovo esame".
   Al comma 5 del medesimo articolo la disciplina e' completata con la
 previsione  che,  ove  le  persone  indicate  nell'art. 513 c.p.p., a
 seguito della citazione per il nuovo esame,  si  siano  ulteriormente
 avvalse  della  facolta'  di non rispondere o non si siano presentate
 "... le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come
 prova dei fatti in esse affermati, solo se la loro attendibilita' sia
 confermata  da  altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni
 rese al  pubblico  ministero,  alla  polizia  giudiziaria  da  questi
 delegata  e  al  giudice  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
 nell'udienza preliminare, di cui sia  stata  data  lettura  ai  sensi
 dell'  art.  513  del  codice  di procedura penale, nel testo vigente
 prima della data di entrata in vigore della legge".
   L'art. 6 nel suo complesso, come fatto palese anche dalla rubrica -
 "Norma transitoria" -, e' rivolto  a  disciplinare  l'utilizzabilita'
 delle dichiarazioni predibattimentali rese da imputati od imputati in
 procedimento  connesso  di cui, al momento di entrata in vigore della
 legge, sia gia' stata disposta la lettura ai  sensi  dell'art.    513
 previgente.
   Scopo  della  norma e' quello di favorire l'instaurazione effettiva
 del contraddittorio  dibattimentale,  da  un  lato  verificando,  con
 l'ammissione  delle  parti  ad  una  nuova  richiesta  di  citazione,
 l'interesse concreto che esse  manifestino  all'esercizio  di  quella
 facolta',  e,  dall'altro  lato e per conseguenza, imponendo un nuovo
 esame del soggetto quando tale richiesta sia stata  avanzata  da  una
 delle parti.
   Il  regime  adottato,  ricostruito  alla luce della lettera e della
 ragion d'essere della norma,  e'  quindi  questo:  se  le  parti  non
 manifestano  mediante  la richiesta di citazione l'interesse concreto
 ad esaminare il soggetto, delle  dichiarazioni  lette  in  precedenza
 permane  la  piena utilizzabilita'; viceversa se anche una sola delle
 parti manifesta, mediante la richiesta di citazione, interesse ad  un
 nuovo esame e di tale atto rimane impossibile il compimento o perche'
 il  soggetto  non  si  e'  presentato (questa situazione si riferisce
 evidentemente all'imputato) o perche' si e' avvalso della facolta' di
 non rispondere (situazione che  si  riferisce  sia  all'imputato  che
 all'imputato   in   procedimento   connesso),   muta   il  regime  di
 utilizzabilita' delle dichiarazioni  gia'  acquisite  secondo  quanto
 disposto  dal  comma  5  del  citato  art.   6 (Cass., sez. I, ud. 29
 settembre 1997, sent. n. 1213, n. 19501/97 r.g., pres.  Teresi,  rel.
 Canzio, imp. Cascino ed altri).
   Quest'ultima  norma introduce, all'evidenza, non gia' una regola di
 ammissione od assunzione della  prova,  che  anzi  la  legge  suppone
 avvenute,  ma  una  regola di valutazione della prova (Cass., sez. I,
 ud. 29 settembre 1997, sent. n. 1213, cit.) e precisamente una regola
 di parziale esclusione  del  valore  probatorio  delle  dichiarazioni
 predibattimentali   delle   persone  indicate  dall'art.  513  c.p.p.
 previgente:  esse possono fondare la dichiarazione del  risultato  di
 prova quando la loro credibilita' sia confermata da altri elementi di
 prova,  ma  non possono svolgere esse stesse la funzione di conferma.
 In sostanza il legislatore attribuisce efficacia generatrice di prova
 alle dichiarazioni acquisite al sensi dell'art. 513 previgente la cui
 attendibilita'  sia  confermata  da  elementi  di  prova  diversi  da
 dichiarazioni  della  medesima  natura,  contemporaneamente  con cio'
 negando valore probatorio a  dichiarazioni  di  quel  genere  che  si
 confermino reciprocamente.
   Una   questione   si   e'   posta  con  riferimento  all'ambito  di
 applicazione della  normativa  di  cui  si  discute:  si  e'  infatti
 sostenuto  che  i  commi  2  e  5, dell'art. 6, legge n. 267 del 1997
 sarebbero applicabili soltanto ai  casi  in  cui  il  giudice,  prima
 dell'entrata  in  vigore  della legge, avesse, prima di acquisirle, o
 materialmente  letto le dichiarazioni dei soggetti indicati dall'art.
 513 c.p.p. o le avesse indicate come utilizzabili, e cio' in ossequio
 al disposto dell'art.  511 c.p.p. In sostanza, secondo tale  teorica,
 il  regime  di  cui  alle  norme  predette sarebbe inapplicabile alle
 dichiarazioni del genere in questione che fossero state acquisite  al
 fascicolo per il dibattimento senza lettura.
   All'accoglimento  di  una  siffatta interpretazione ostano numerosi
 argomenti di diversa natura.
   Anzitutto  vale  l'argomento  sistematico  che,  se   correttamente
 utilizzato,  porta  a conseguenze opposte a quelle sopra indicate. Si
 deve precisare che, come  reso  chiaro  dal  disposto  dell'art.  515
 c.p.p.,  la  lettura  e'  strumento  per  l'acquisizione dell'atto al
 fascicolo per  il  dibattimento  e  percio'  e'  prevista  come  atto
 preliminare  ad  essa. Ne deriva che, ove l'acquisizione sia avvenuta
 senza  lettura  si  potra'  discutere   della   validita'   di   tale
 acquisizione    e   dell'utilizzabilita'   dell'atto,   eventualmente
 dell'efficacia sanante di una lettura successiva, ma  non  si  potra'
 discutere  sulla  circostanza  che  la fase propria della lettura sia
 gia' stata superata.
   Anche il  punto  della  validita'  ed  utilizzabilita'  degli  atti
 acqusiti   al   fascicolo   per  il  dibattimento  senza  lettura  od
 indicazione e' stato tuttavia  chiarito  dalla  giurisprudenza  della
 Corte  di  cassazione,  laddove  ha  correttamente affermato che tali
 omissioni  costituiscono  mera  irregolarita'   non   sanzionata   da
 inutilizzabilita'    o    nullita'    e   percio'   non   impediscono
 l'utilizzazione degli atti stessi (Cass., sez. I, 10 gennaio-1 luglio
 1994, n. 7456, Manitta).
 Ben si puo' quindi concludere che l'acquisizione di un atto senza  la
 prevista   lettura   od  indicazione  di  utilizzabilita'  assorbe  e
 ricomprende implicitamente lettura ed indicazione.  Cio'  salvo  che,
 ovviamente,  la  lettura  di  un  atto  non  sia stata esplicitamente
 richiesta da una parte, a mente dell'art. 511, comma 5, c.p.p.   Tale
 ricostruzione  sistematica  importa per un verso che un atto - e cio'
 vale in particolare per i verbali di dichiarazioni  predibattimentali
 di  imputati  od  imputati  in  procedimento  connesso  -,  quando e'
 acquisito al fascicolo  per  il  dibattimento  -  senza  che  vi  sia
 richiesta  di  lettura ne' esplicita indicazione di utilizzabilita' -
 rimane tuttavia immediatamente utilizzabile.   E' appena il  caso  di
 rilevare  che l'art. 513, c.p.p. - tanto quello previgente che quello
 vigente - impone la lettura dell'atto prima della sua acquisizione al
 fascicolo per il dibattimento e dopo la richiesta che al riguardo sia
 formulata da una delle parti, e percio'  nel  corso  dell'istruttoria
 dibattimentale.  Risultano pertanto quanto meno irregolari le letture
 degli  atti  che  vengono  effettuate  con  riferimento  a  tutte  le
 precedenti  acquisizioni  dibattimentali come ultimo atto antecedente
 alla chiusura dell'istruttoria  dibattimentale  od  all'inizio  della
 discussione,  sebbene  si  tratti  di  prassi volta a sanare le altre
 irregolarita'  verificatesi  in  precedenza,  in   concomitanza   con
 l'acquisizione di ogni atto senza previa lettura.
 E'  certo  tuttavia  che dall'esistenza di tale prassi non puo' certo
 dedursi  che  il  procedimento  di  formazione   della   prova,   con
 riferimento   alle   dichiarazioni  acquisite  al  fascicolo  per  il
 dibattimento ex art. 513, c.p.p. senza previa lettura, non  si  trovi
 gia' in una fase successiva a quella riservata alla lettura.
 E'  poi  appena  il  caso  di  rilevare  che,  se all'acquisizione al
 fascicolo per il dibattimento non si dovesse attribuire l'effetto  di
 generare immediatamente l'utilizzabilita' dell'atto, si introdurrebbe
 nel  processo  un  germe di profonda confusione, circa l'efficacia di
 atti acquisiti ma di cui rimarrebbe non gia' esclusa,  ma  in  dubbio
 l'utilizzabilita'  a  tempo indeterminato.  Per fare un solo esempio,
 seguendo  la   tesi   secondo   cui   l'acquisizione   non   comporta
 utilizzabilita'  dell'atto  e  non  suppone  superata  la  fase della
 lettura,  verrebbe  vanificato  il  principio  che  ispira  tutta  la
 normativa  sull'ordine  di assunzione delle prove, poiche' la difesa,
 al momento dell'assunzione delle sue, non saprebbe ancora nulla circa
 l'utilizzabilita'  di  importanti  elementi  introdotti  dall'accusa.
 Infine  l'interpretazione  qui  respinta  per un verso restringerebbe
 oltremodo l'estensione dell'applicazione della norma  transitoria  di
 cui  si  discute,  che  nella  sostanza  troverebbe  effetto solo con
 riferimento ai processi di primo grado in fase di discussione finale,
 e, per altro verso, finirebbe per  creare  un  incolmabile  vuoto  di
 disciplina con riferimento a tutti i casi di dichiarazioni acquisite,
 nel corso del giudizio di primo grado, ex art. 513, c.p.p. previgente
 ma  non lette.   Per tale caso, infatti, risulta applicabile non gia'
 la disciplina ordinaria (Cass., sez. I, ud. 29 settembre 1997,  sent.
 n. 1213, cit.)  ma soltanto l'art. 6, comma 2, legge n. 267 del 1997,
 il  quale  non prevede l'eventualita'  dell'acquisizione senza previa
 lettura.
 Dalle superiori osservazioni deriva che la norma transitoria  di  cui
 all'art.  6,  legge n. 267 del 1997 si applica a tutti i casi in cui,
 durante un giudizio di primo grado  e  prima  della  sua  entrata  in
 vigore,  sia  stata  disposta  la  lettura oppure, anche senza previa
 lettura, siano stati acquisiti al fascicolo per  il  dibattimento  ex
 art.  513,  c.p.p.    verbali di dichiarazioni rese dalle persone ivi
 indicate al pubblico ministero, alla polizia  giudiziaria  su  delega
 del   pubblico   ministero,  al  giudice  nel  corso  delle  indagini
 preliminari o dell'udienza preliminare.
 Viceversa, nel corso del giudizio di primo grado, trova  applicazione
 la  disciplina  ordinaria - art. 513, comma 2, c.p.p. come sostituito
 dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 - in tutti i casi in  cui  l'esame
 degli imputati in procedimento connesso non si sia ancora svolto alla
 data di entrata in vigore della legge predetta.
 3.  -  Rilevanza  della  questione di legittimita' concernente l'art.
 513, c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge  n.  267  del  1997  e
 l'art. 6, comma 5, legge n. 267 del 1997.
 Risulta evidente, nel caso di specie, la rilevanza della questione di
 legittimita'  costituzionale  del  disposto  dell'art.  513, comma 2,
 c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267  del  1997,  poiche'
 l'esame  del  Ruggiero  e'  gia'  stato  ammesso dal tribunale che ha
 ritenuto  rilevante  detto  mezzo  di  prova  -  atteso  che,   nella
 prospettazione   accusatoria,  le  dichiarazioni  del  predetto  sono
 dedotte a conforto di quelle del Dell'Aglio - e la norma in questione
 subordina l'acquisizione  al  fascicolo  per  il  dibattimento  delle
 dichiarazioni  del predetto - che si e' avvalso della facolta' di non
 rispondere - al consenso delle parti, cioe'  al  verificarsi  di  una
 condizione  la  cui  previsione  normativa  e'  appunto  oggetto  del
 sospetto di illegittimita'. Mette conto osservare  che  nel  presente
 procedimento  e'  costituito  parte civile il Ministero delle finanze
 cosicche'   la  questione  proposta  involge  anche  la  legittimita'
 costituzionale  del  diritto  ad  esprimere   il   proprio   consenso
 riconosciuto dalla legge anche a questa parte privata.
   A fronte di tali osservazioni - poiche' questo tribunale ritiene la
 questione  predetta  non  manifestamente  infondata  -  si propone la
 rilevanza, in immediato subordine,  della  questione  concernente  la
 legittimita' della disciplina prevista dall'art. 6, comma 5, legge n.
 267  del  1997.  Infatti,  qualora  la Corte costituzionale ritenesse
 fondata la questione di legittimita' dell'art. 513, comma  2,  c.p.p.
 nella  parte  in  cui  condiziona  al  consenso  delle  parti private
 l'acquisizione delle dichiarazioni  degli  imputati  in  procedimento
 connesso  che  si  siano  avvalsi  della  facolta' di non rispondere,
 verrebbe  riproposto  un   meccanismo   di   acquisizione   di   tali
 dichiarazioni  identico a quello contemplato dall'art. 513 previgente
 (come integrato dalla sent.   n. 254 del  1992).  Ne  deriverebbe,  a
 mente  dell'art.  6,  comma  5,  legge  n.  267  del 1997 - della cui
 legittimita' pure si dubita  -,  l'impossibilita'  di  utilizzare  le
 dichiarazioni  del  Ruggiero  a  conferma  di  quelle del Dell'Aglio.
 Dunque la questione, per evidenti esigenze di economia processuale  e
 considerato  il  disposto  dell'art.  27,  legge n. 87 del 1953, deve
 essere sollevata in questa sede.   Ritiene tuttavia  questo  Collegio
 che, a fronte delle eccezioni sollevate dal pubblico ministero, se ne
 ponga  un'altra,  di  carattere  preliminare, circa la conformita' al
 dettato costituzionale degli artt. 210, comma 4 e 513,  c.p.p.  nella
 parte  in  cui  attribuiscono,  alle  persone indicate al commi 1 e 6
 dello stesso art. 210, c.p.p., la facolta'  di  non  rispondere  alle
 domande  loro  rivolte  dalle parti in dibattimento con riferimento a
 fatti indizianti descritti dalle predette  persone  in  dichiarazioni
 rese  al  pubblico ministero nel corso delle indagini. Tale questione
 e' rilevante nel presente processo poiche', come si e' detto, sia  il
 Dell'Aglio  che  il  Ruggiero si sono avvalsi di tale facolta'.  4. -
 Non manifesta infondatezza della questione di legittimita'  dell'art.
 513,  comma  2, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del
 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo  delle  parti
 la  lettura  dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico
 ministero dalle persone indicate nell'art. 210, c.p.p.    qualora  si
 siano   avvalse   della   facolta'   di  non  rispondere.     4.1.  -
 Giurisprudenza della Corte  costituzionale  in  tema  di  valutazione
 della  prova  e  di  regole  di  esclusione  della  prova.    Occorre
 preliminarmente  notare   che   le   norme   di   cui   si   sospetta
 l'illegittimita' vanno ad inserirsi nel centro del processo disegnato
 dal  codice  vigente, laddove regolano da un lato i rapporti tra fase
 delle indagini e fase dibattimentale, dall'altro i poteri delle parti
 nella formazione dibattimentale  della  prova  e,  dall'altro  ancora
 impongono   limiti   alla   formazione   del   razionale  e  motivato
 convincimento giudiziale. Non v'e' dubbio che  le  norme  di  cui  si
 discorre  siano  ispirate ad un depotenziamento del valore probatorio
 delle acquisizioni avvenute in fase di  indagini  ed  in  assenza  di
 contraddittorio  mediante  il  conferimento  alle  parti di un potere
 discrezionale  circa  il  loro  ingresso   nel   fascicolo   per   il
 dibattimento  e  mediante  l'introduzione  di  una  nuova  regola  di
 esclusione della prova.  Preso atto che la scelta del legislatore  si
 e'  mossa  verso  l'accentuazione  di  alcuni aspetti particolari del
 processo accusatorio come processo  di  parti  -  in  particolare  la
 positivizzazione,  per  la  prima volta, del principio dispositivo in
 materia  di  prova  -,  occorre   verificare   se,   in   base   alla
 giurisprudenza  formatasi  nelle  materie  coinvolte dall'innovazione
 normativa, non si siano ecceduti i limiti costituzionali che la Corte
 stessa ha individuato alla introduzione nel nostro ordinamento di  un
 processo penale conforme ad un modello meramente astratto di processo
 penale  di  parti.    Gia'  con  riferimento  al  piano metodologico,
 infatti,  la  Corte  ha  affermato  che:   "...   la   considerazione
 dell'ordinamento    processual-penale   italiano   va   condotta,   a
 prescindere  da  astratte  modellistiche,  sulla  base  del   tessuto
 normativo  positivo,  la  cui interpretazione e comprensione non puo'
 che derivare da un'attenta lettura dei principi e  criteri  direttivi
 enunciati  dalla  legge  delega  e dei principi costituzionali di cui
 questa ... richiede l'attuazione. Non va cioe' dimenticato  che  ''il
 sistema  processuale delineato nella legge delega e poi concretamente
 attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato che  tende  bensi'
 (art. 2, comma 1) ad attuare ''i caratteri del sistema accusatorio'',
 ma  ''secondo i principi ed i criteri specificati nelle direttive che
 seguono'' (sent. n. 88 del 1991); e  che,  poiche'  la  stessa  norma
 detta   ancor   prima   l'obbligo   di  ''attuare  i  principi  della
 Costituzione'',   un   'adeguata   considerazione    dell'ordinamento
 effettivamente   vigente   non   puo'  prescindere  dagli  interventi
 correttivi che  questa  Corte  si  e'  trovata  a  dover  apportare".
 Seguendo  tale  prospettiva  occorrera'  prendere  le  mosse da tutte
 quelle affermazioni e decisioni con cui in questi anni  la  Corte  ha
 esplicitato   i   caratteri   costituzionali  della  azione  e  della
 giurisdizione penale, la funzione assegnata al  processo  penale,  il
 ruolo  che  gioca  al  suo interno il valore costituito dalla ricerca
 della verita' cosiddetta "reale"  o  "materiale"  in  contrapposto  a
 quella "formale" o "processuale".  Quanto al primo aspetto la Corte -
 pronunciandosi   in   tema   di   reiterazione  di  dichiarazioni  di
 ricusazione fondate sui medesimi motivi -, ha di recente  avuto  modo
 di  ribadire (sent. n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio di
 indefettiblita' della giurisdizione, ricollegabile  a  vari  principi
 costituzionali,  fra  i  quali l'art. 101 della Costituzione invocato
 dal giudice a quo (oltre alla sentenza n. 353 del 1996 e  l'ordinanza
 n. 5 del 1997, v. le sentenze nn. 460 del 1995, 114 del 1994, 289 del
 1992, 178 del 1991)" E la Corte, confrontando il principio suddetto a
 quello    di    uguaglianza   inteso   come   "canone   di   coerenza
 dell'ordinamento giuridico, cui devono uniformarsi pure gli  istituti
 processuali ...", ha immediatamente aggiunto: "E qui va riconosciuta,
 certo,  la  discrezionalita'  del legislatore per quanto attiene alla
 individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del
 principio di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di  fatto,
 la  nozione  stessa di processo. Si' che sono da censurare, pure alla
 luce del principio  di  razionalita'  normativa,  istituti  o  regole
 quando  si  prestino  ad  un  uso  distorto,  recando  cosi'  lesione
 dell'efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale".   Quanto
 alla  funzione  ed  al  ruolo  del pubblico ministero, la Corte si e'
 espressa in modo assai chiaro nella sentenza n. 88  del  1991:    "Va
 innanzi  tutto  ricordato,  al proposito, quanto questa Corte ebbe ad
 affermare nella sent. n. 84 del 1979, cioe'  che  ''l'obbligatorieta'
 dell'esercizio  dell'azione  penale  ad  opera  del p.m. ... e' stata
 costituzionalmente affermata come elemento che concorre a  garantire,
 da  un  lato  l'indipendenza  del  p.m.  nell'esercizio della propria
 funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini  di  fronte  alla
 legge  penale''; sicche' l'azione e' attribuita a tale organo ''senza
 consentirgli alcun margine di discrezionalita' nell'esercizio di tale
 doveroso ufficio''.
   Piu' compiutamente: il principio di legalita' (art. 25,  comma  2),
 che  rende  doverosa  la  repressione delle condotte violatrici della
 legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita'
 del procedere; e questa, in un sistema come il  nostro,  fondato  sul
 principio  di  uguaglianza  dei  cittadini  di  fronte alla legge (in
 particolare, alla legge penale), non puo'  essere  salvaguardata  che
 attraverso  l'obbligatorieta'  dell'azione  penale.    Realizzare  la
 legalita' nell'eguaglianza non e', pero', concretamente possibile  se
 l'organo  cui  l'azione e' demandata dipende da altri poteri: sicche'
 di tali principi e' imprescindibile requisito l'indipendenza del p.m.
 Questi e' infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla  legge
 (art.  101,  comma  2,  Cost.)  e  si  qualifica come ''un magistrato
 appartenente all'ordine giudiziario collocato come tale in  posizione
 di  istituzionale  indipendenza  rispetto ad ogni altro potere'', che
 ''non fa valere interessi  particolari  ma  agisce  esclusivamente  a
 tutela  dell'interesse  generale all'osservanza della legge'' (sentt.
 nn. 190 del 1970 e 96 del 1975).  Il principio di obbligatorieta' e',
 dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del
 sistema costituzionale, talche' il  suo  venir  meno  ne  altererebbe
 l'assetto  complessivo.  Di  conseguenza,  l'introduzione  del  nuovo
 modello  processuale  non  lo  ha  scalfito,   ne'   avrebbe   potuto
 scalfirlo....  Per altro verso, l'eliminazione di ogni contaminazione
 funzionale  tra  giudice  e  organo  dell'accusa  - specie in tema di
 formazione della prova e di liberta' personale -, non  comporta  che,
 sul  piano  strutturale  ed  organico,  il  p.m.  sia  separato dalla
 Magistratura  costituita  in   ordine   autonomo   ed   indipendente.
 Nell'architettura  della  delega,  infatti,  il ruolo del p.m. non e'
 quello di mero accusatore, ma  pur  sempre  di  organo  di  giustizia
 obbligato  a  ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una
 giusta   decisione,   ''ivi   compresi   gli   elementi    favorevoli
 all'imputato''  (cfr.  dir.  n.  37  ...).   Coerentemente a cio', il
 legislatore delegato ha sottolineato che il ''potere-dovere del  p.m.
 di  estendere  le  proprie  indagini  a  tutto  cio' che puo' formare
 oggetto di prova per l'accusa o  la  difesa''  tende  ''nel  rispetto
 assoluto  dei  principi  del  sistema  accusatorio  e  del  ruolo  di
 ''parte''  del  p.m.,  ad  evidenziare   la   natura   ordinamentale,
 giudiziaria e pubblica dell'istituto e della funzione'' (Relazione al
 progetto  preliminare,  91);  ed  ha  poi  confermato tale natura nel
 redigere il nuovo art. 190  dell'ordinamento  giudiziario  (art.  29,
 testo  allegato  al  d.P.R.  22  settembre  1988,  n. 449).   3. - Il
 principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che nulla venga
 sottratto al controllo di legalita' effettuato dal giudice:    ed  in
 esso  e' insito, percio', quello che in dottrina viene definito favor
 actionis.  Cio'  comporta  non  solo  il  rigetto  del   contrapposto
 principio  di opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi ad
 azione facoltativa ...; ma comporta,  altresi',  che  in  casi  dubbi
 l'azione  vada  esercitata e non omessa".  Proprio come aspetto della
 obbligatorieta' ed indisponibilita' nonche' dell'esercizio imparziale
 nei confronti di tutti dell'azione penale, la  Corte  ha  evidenziato
 alcuni  caratteri che essa ha assunto all'interno dello stesso codice
 del 1998 proprio come applicazione concreta della sua  configurazione
 costituzionale:  -  il  principio  di  tendenziale  completezza delle
 indagini (v. anche sent. n. 92 del 1992); - il  principio  di  tutela
 della  effettivita'  dell'azione,  volto  a contrastare i casi di suo
 esercizio meramente  apparente,  principio  questo  manifestatosi  in
 istituti  quali  l'indicazione  da  parte  del  g.i.p.  di  ulteriori
 indagini ritenute necessarie (art. 409, comma 4, 415, 554,  comma  2,
 c.p.p.,  sentt.  n.  409  del  1990,  445  del  1990),  l'opposizione
 dell'offeso alla richiesta di archiviazione, il potere di  avocazione
 del  Procuratore generale, l'ordine di formulazione dell'imputazione.
 E' infine utile ricordare che le superiori considerazioni sono  state
 riprese  e  valorizzate  dalla  Corte  nella sentenza n. 111 del 1993
 (par. 6), proprio quando si  e'  trattato  di  individuare  i  limiti
 costituzionali  ad  un processo penale inteso come "... ''processo di
 parti'', nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti
 contrapposte operanti sul medesimo piano ...''o come'' ...    tecnica
 di  risoluzione  dei  conflitti".    Spostando  l'attenzione dal tema
 dell'azione e della giurisdizione a  quello,  strettamente  connesso,
 dello scopo del processo penale la Corte costituzionale ha avuto modo
 di  affermare che esso deve individuarsi nell'"accertare i fatti onde
 pervenire ad  una  decisione  il  piu'  possibile  corrispondente  al
 risultato voluto dal diritto sostanziale" e che, anche dopo l'entrata
 in   vigore   del   codice   del  1988  ad  impianto  tendenzialmente
 accusatorio, "fine primario ed ineludibile del  processo  penale  non
 puo'  che rimanere quello della ricerca della verita'" (sentt. n. 111
 del 1993, n.  255  del  1992,  n.  258  del  1991).    I  presupposti
 costituzionali   di   tali  affermazioni  si  rinvengono  agevolmente
 leggendo le summenzionate pronunce, oltre che la sent.    n.  88  del
 1991:  esse  sono fatte derivare direttamente dalla lettura combinata
 del principio  di  uguaglianza  dei  cittadini  dinnanzi  alla  legge
 penale,  dal  principio di legalita' "che rende doverosa la punizione
 delle condotte penalmente sanzionate" (sentt. nn. 111  del  1993,  88
 del 1991) e di inviolabilita' della liberta' personale. Ma ad essi si
 potrebbero  agevolmente aggiungere il principio di personalita' della
 responsabilita' penale (ciascuno risponde solo per il fatto  commesso
 che  gli  sia  psicologicamente imputabile, dunque sono il fatto e la
 sua imputabilita' l'oggetto del  processo  e  dell'accertamento),  il
 principio  di  presunzione  di innocenza (l'onere della prova in capo
 all'accusa  e'  criterio  nel  contempo  logico  e  garantistico  che
 dimostra  l'impegno dell'ordinamento nella ricerca della verita'), il
 principio  di  obbligatorieta'  dell'azione   penale   (l'azione   e'
 obbligatoria anche perche' non ad altro tende se non all'accertamento
 secondo  verita'  dell'ipotesi  contenuta  nella  notizia di reato ed
 all'applicazione della legge,  seppure  in  modi  diversi  da  quelli
 processuali),  nel  principio  di  difesa  (la  verita'  puo'  essere
 affermata solo se "garantita" dalla presenza attiva della difesa  nel
 processo),  nel  principio  di  indipendenza  e  liberta'  morale del
 giudice in particolare nel  momento  del  giudizio  (principi  questi
 ultimi  inutili  o  dannosi  se il giudizio dovesse servire a qualche
 cosa di diverso che alla ricostruzione del fatto ed  all'applicazione
 della  legge).    Tanto  premesso,  la  Corte  ha riconosciuto che il
 legislatore aveva scelto, come  metodo  migliore  per  perseguire  lo
 scopo   costituzionalmente   assegnato   al   processo,   quello  del
 contraddittorio   dibattimentale   che,   insieme   all'esigenza   di
 accentuare la terzieta' del giudice, aveva "condotto  ad  introdurre,
 di   massima,  un  criterio  di  separazione  funzionale  delle  fasi
 processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale  di  raccolta
 delle  prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del
 contraddittorio e la  formazione  nel  giudice  di  un  convincimento
 libero da influenze pregresse" (sent. n. 111 del 1993).
   La  Corte ha tuttavia immediatamente osservato che, proprio perche'
 lo scopo del processo penale non puo' che individuarsi nella  ricerca
 della  verita',  "...l'oralita',  assunta  a principio ispiratore del
 nuovo sistema, non  rappresenta,  nella  disciplina  del  codice,  il
 veicolo  esclusivo  di formazione della prova nel dibattimento ... di
 guisa che in taluni casi  in  cui  la  prova  non  possa,  di  fatto,
 prodursi  oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di
 volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di  fuori  del
 dibattimento"  (sent.  n. 255 del 1992) e, per altro aspetto: "... ad
 un ordinamento improntato al principio di legalita' (art.  25,  comma
 2, Cost.) - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente
 sanzionate   -  nonche'  al  connesso  principio  di  obbligatorieta'
 dell'azione penale (cfr. sent. n. 88 del 1991, cit.) non sono consone
 norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole
 il processo di accertamento del fatto storico necessario a  pervenire
 ad  una giusta  decisione (cfr. sent. n. 255 del 1992)" (sent. n. 111
 del 1993).
 La Corte ha altresi' comprovato il fondamento  di  tali  affermazioni
 elencando  i  numerosi  casi di formazione della prova in deroga o al
 contraddittorio  dibattimentale  o  all'altro  aspetto  dell'oralita'
 costituito  dall'immediato  contatto  del  giudice  con  la prova nel
 momento della sua formazione (artt. 392,  431,  500,  comma  4,  503,
 commi  5  e  6,  512,  513) (sent n. 255 del 1992); ha individuato la
 ragion  d'essere  di  quelle  eccezioni  nella  necessita'   di   non
 disperdere  elementi di prova "non compiutamente (o non genuinamente)
 acquisibili con il metodo orale"; ha infine denominato tale fenomeno,
 considerato il numero e la qualita' delle deroghe previste al  metodo
 orale,  "principio  di non dispersione delle prove" (sent. n. 255 del
 1992).  La Corte ha dunque correttamente  rilevato  -  qualificandolo
 "principio"  a  causa  della sua obiettiva imponenza - la presenza in
 seno al codice un procedimento probatorio alternativo  e  sussidiario
 rispetto  al  principale  fondato  sul  contraddittorio per la prova,
 procedimento   attivabile   quando   quello    principale    sia    o
 nell'impossibilita'  di  funzionare o nell'impossibilita' di produrre
 elementi  di  prova  genuini.    La  presenza  di  tale  procedimento
 alternativo e sussidiario, come reso evidente dalla lettura combinata
 delle  pronunce  che  si  vanno  citando, e' fondata da un lato sulla
 configurazione costituzionale ed istituzionale del pubblico ministero
 e,  dall'altro,  sulla  necessita'  di  affermare  il  principio   di
 indefettibilita'  della  giurisdizione  penale,  principio  anch'esso
 strettamente a sua volta collegato  a  quelli  di  uguaglianza  e  di
 legalita'.
 Proprio  sviluppando  il  tema  dell'ampiezza  degli  effetti di tali
 affermazioni  con  riferimento  non  solo   alla   fase   procedurale
 dell'ammissione  della  prova,  ma  anche  a quello della valutazione
 degli elementi acquisiti, la Corte ha avuto  modo  di  affermare  non
 solo  che  ad un ordinamento improntato ai principi suindicati non si
 confanno  norme  di  metodologia  processuale  che ostacolino in modo
 irragionevole  il  processo  di  accertamento   del   fatto   storico
 necessario per pervenire ad una giusta decisione, ma anche che simili
 regole  di predeterminazione legale del valore persuasivo delle prove
 sono altresi' dissonanti rispetto ai  principi  di  fondo  del  nuovo
 codice, che ''fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali non
 poteva  essere  altrimenti)  il  principio  del libero convincimento,
 inteso come liberta' del giudice di  valutare  la  prova  secondo  il
 proprio  prudente  apprezzamento,  con  l'obbligo  di  dar  conto  in
 motivazione dei criteri adottati e dei risultati  conseguiti''  (art.
 192,  c.p.p.;  cfr.  sent.  n. 255 del 1992, cit.)" (sent. n. 111 del
 1993).
  Anche con riferimento al tema del ruolo delle parti nel  processo  e
 dell'esistenza  di  un  preteso  principio  dispositivo in materia di
 prova la Corte, nella sentenza n. 111 del 1993 si e' pronunciata  con
 chiarezza  cristallina:  "La  configurazione  del  potere istruttorio
 conferito al giudice dall'art. 507  come  eccezionale,  e  quindi  da
 escludere  in  caso di decadenza o inattivita' delle parti, discende,
 nella logica  presupposta  dai  giudici  remittenti,  dall'assunzione
 dell'immanenza  nel  nuovo  codice,  come  conseguenza  della  scelta
 accusatoria, di un principio dispositivo  in  materia  di  prova.  Si
 tratta, pero', di un assunto che non trova riscontro ne' nei principi
 della  delega  ne'  nel tessuto normativo concretamente disegnato nel
 codice.  E', per la verita', incontroverso che sarebbe  contrario  ai
 principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione
 concepire  come  disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal
 processo penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato,  recidere
 il  legame  strutturale  e  funzionale tra lo strumento processuale e
 l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi
 che  quei  principi  intendono  garantire;  dall'altro,   contraddire
 all'esigenza,  ad  essi  correlata, che la responsabilita' penale sia
 riconosciuta solo per fatti realmente commessi, nonche' al  carattere
 indisponibile  della  liberta'  personale.   Sotto questo profilo, e'
 significativo che il nuovo codice non conosca  procedure  in  cui  la
 concorde  richiesta  delle  parti vincoli il giudice sul merito della
 decisione; prova ne sia che ad un simile esito  non  conduce  neanche
 l'istituto  dell'applicazione di pena su richiesta (cfr. sent. n. 313
 del 1990).   Ma un principio dispositivo  non  puo'  dirsi  esistente
 neanche  sul  piano  probatorio, perche' cio' significherebbe rendere
 disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda.   Ed anche  qui
 la  riprova  si  ha nell'altro rito speciale in cui maggior spazio e'
 riservato alla volonta' delle parti, dato che in  esso  l'accordo  di
 queste  sulle  prove  utilizzabili non vincola il giudizio sulla loro
 concludenza;  ed  anzi  non  puo'  neppure  essere  inteso   -   come
 ripetutamente  segnalato da questa Corte (sentt. nn. 92 del 1992 e 56
 del  1993)  -  come  assolutamente  preclusivo   delle   integrazioni
 probatorie eventualmente necessarie, pena la sua incompatibilita' con
 i   principi  costituzionali.     Ma  l'assunzione  di  un  principio
 dispositivo in materia di prova non trova riscontro  nella  normativa
 positiva  neanche  sul  terreno  del  giudizio  ordinario.  Il metodo
 dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto  come
 metodo  di  conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro
 per quanto possibile pieno accertamento, e non come strumento per far
 programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal  mero
 confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne
 sarebbe  risultata  tradita la funzione conoscitiva del processo, che
 discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale.
   Ma e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza  di  un
 potere dispositivo delle parti in materia di prova.
   Questa  Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del
 1992, che tale norma - inserita "in un sistema processuale imperniato
 su un ampio  riconoscimento  del  diritto  alla  prova  e  nel  quale
 l'acquisizione  del  materiale  probatorio  e' rimessa in primo luogo
 all'iniziativa delle parti" - "conferisce al giudice il potere-dovere
 d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui  la
 carenza  o insufficienza, per qualsiasi ragione dell'iniziativa delle
 parti  impedisca  al  dibattimento  di  assolvere  la   funzione   di
 assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto
 del   processo,   onde   consentirgli  di  pervenire  ad  una  giusta
 decisione". Richiamata quindi la sentenza delle sezioni  unite  della
 Corte  di cassazione n. 11227 del 6 novembre-21 novembre 1992 nonche'
 la direttiva n. 73 della legge delega - che prevede  il  "potere  del
 presidente  ...  o  del  pretore di indicare alle parti temi nuovi od
 incompleti utili alla ricerca della verita' e  di  rivolgere  domande
 dirette...;  potere  del  giudice  di  disporre l'assunzione di nuovi
 mezzi di prova - la Corte  cosi'  proseguiva:  ''...  Il  legislatore
 delegante   ha   cioe'  esattamente  considerato  -  in  armonia  con
 l'obiettivo di  eliminazione  delle  disuguaglianze  di  fatto  posto
 dall'art.  3,  comma  2,  della  Costituzione  che la ''parita' delle
 armi'' delle parti normativamente enunciata puo' talvolta non trovare
 concreta verifica nella  realta'  effettuale,  si'  che  il  fine  di
 giustizia    della    decisione   puo'   richiedere   un   intervento
 riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di
 esse, cosi evitando assoluzioni o condanne immeritate''.   Il  potere
 conferito  al giudice dall'art. 507 e', dunque, un potere suppletivo,
 ma non certo eccezionale ....   E' del  resto  evidente  che  sarebbe
 contraddittorio,  da  un  lato  garantire l'effettiva obbligatorieta'
 dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate  inerzie  del
 pubblico  ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari
 il potere di  disporre  che  costui  formuli  l'imputazione  ...;  e,
 dall'altro, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad
 analoghe  condotte della parte pubblica" (sent. n. 111 del 1993).  In
 sostanza, nella pronuncia appena indicata la  Corte  ha  riconosciuto
 incompatibile   con   i   principi   costituzionali  di  uguaglianza,
 legalita', obbligatorieta' dell'azione  penale,  un  processo  penale
 ridotto  a  "...  tecnica  di  risoluzione delle controversie nel cui
 ambito al  giudice  sarebbe  riservato  essenzialmente  un  ruolo  di
 garante  dell'osservanza  delle  regole  di  una  contesa  tra  parti
 contrapposte, ed il giudizio avrebbe la funzione non di  accertare  i
 fatti  reali  onde  pervenire  ad  una  decisione  il  piu' possibile
 corrispondente al risultato voluto dal  diritto  sostanziale,  ma  di
 attingere  -  nel  presupposto di un'accentuata autonomia finalistica
 del processo - quella sola ''verita''' processuale che sia  possibile
 conseguire  attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel
 rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali  coerenti  al
 modello".    Parimenti  indicata  come  incompatibile  con i suddetti
 principi e' stata considerata l'operativita' - propria di un processo
 di parti - "di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio",
 operativita'  cui conseguirebbe "da un lato, l'espansione degli spazi
 di  discrezionalita'   della   parte   pubblica   e   l'accentuazione
 dell'oralita'   come   strumento  della  formazione  della  prova  in
 dibattimento; dall'altro, la configurazione del potere di  intervento
 del   giudice   in   materia   di   prova   come   eccezionale  ...".
 Giurisprudenza contraria a concedere rilevanza ed effetti sostanziali
 alla mera espressione della volonta' di una  parte  -  seppure  parte
 pubblica   cui   sono  proprie  logiche  e  finalita'  esclusivamente
 istituzionali - si e' formata anche con riferimento  alla  originaria
 disciplina  dell'applicazione  della pena su richiesta e del giudizio
 abbreviato.  Con riferimento al primo tipo di  giudizio,  infatti  la
 Corte  ha  dichiarato l'illegittimita' dell'art. 444, comma 2, c.p.p.
 in quanto, "prevedendo che il giudice debba attenersi alla pena cosi'
 come  indicata  dalle  parti,  ...  non    consente  di  valutare  la
 congruita'  della pena al fini e nei limiti di cui all'art. 27, comma
 3, Cost." (sent. n.   313   del  1990).    Con  riferimento  al  rito
 abbreviato  la  Corte,  nella  sentenza n.   81 del 1991, dichiarando
 l'illegittimita' parziale del combinato  disposto  degli  artt.  438,
 439,  440, 442 c.p.p., ha affermato "E', invece, fondata la questione
 proposta in  riferimento  all'art.  3  della  Costituzione  sotto  il
 profilo dell'irrazionale disparita' cui la normativa impugnata, vista
 dall'interno della sua applicazione, darebbe luogo tanto nei rapporti
 fra  p.m.  ed imputato, quanto nei rapporti tra imputato ed imputato.
 Non risponde, infatti, alle esigenze di coerenza e ragionevolezza una
 disciplina che autorizza il  p.m.  ad  opporsi  non  soltanto  a  una
 ''determinata  scelta  del  rito  processuale''  ...,  ma anche a una
 consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato  in  caso
 di  condanna,  senza  neppure  dover  esternare  le  ragioni  di tale
 opposizione,  cosi'   sottraendola   all''obiettiva   ed   imparziale
 valutazione del giudice'.  Per giunta, in un sistema, come quello del
 nuovo codice, imperniato sul principio di 'partecipazione dell'accusa
 e  della  difesa  su  basi  di  parita'  in  ogni  stato  e grado del
 procedimento' (art. 2 n.  3  legge  16  febbraio  1987  n.  81),  non
 dovrebbe  essere  consentito  che  i rapporti fra p.m. ed imputato si
 sbilancino al punto che il primo, con un semplice  atto  di  volonta'
 immotivato e,  percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare
 il  secondo  di  un rilevante vantaggio sostanziale" (sent. n. 81 del
 1991).  Di tale sentenza e di quella n. 66 del 1990, la Corte ha reso
 interpretazione autentica nel momento in cui, in seno  alla  sentenza
 n.  92 del 1992, ha rilevato: "Il nucleo essenziale di tali decisioni
 sta  nel  riconoscimento  dell'incompatibilita'  con  un  ordinamento
 costituzionale  fondato sui principi di uguaglianza e legalita' della
 pena, di una disciplina  che  affida(va)  a  scelte  discrezionali  -
 immotivate   e,   quindi,  insindacabili  -  del  pubblico  ministero
 l'accesso  dell'imputato  ad   un   rito   dal   quale   scaturiscono
 automaticamente  rilevanti  effetti sulla determinazione della pena".
 Traendo le conseguenze delle  superiori  affermazioni  la  Corte  con
 riferimento  alla  fase  dibattimentale  e  mediante  la pronuncia di
 sentenze di accoglimento od interpretative di rigetto, ha considerato
 ostacoli irragionevoli o in se stessi o rispetto al sistema:
   a) il divieto di testimonianza de relato della polizia  giudiziaria
 (sent. n. 24 del 1992);
   b)  l'omessa  previsione  dell'acquisizione  delle dichiarazioni di
 imputati  in  procedimento  connesso,  anche  se  rese  alla  polizia
 giudiziaria  su delega del pubblico ministero, quando essi si fossero
 avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere (sentt.   n.
 254 del 1992 e n. 60 del 1995);
   c)  l'utilizzo solo ai fini della valutazione di credibilita' delle
 dichiarazioni predibattimentali utilizzate per  le  contestazioni  ai
 testimoni (sent. n. 255 del 1992).
   Inoltre la Corte ha:
   a)   riconosciuto   l'acquisibilita'   ex  art.  512  c.p.p.  delle
 dichiarazioni  dei  prossimi  congiunti  che  si  siano  avvalsi   in
 dibattimento  della  facolta'  di  non  rispondere  (sent. n. 179 del
 1994);
   b)  riconosciuto  l'acquisibilita'  ex  art.   512   c.p.p.   delle
 dichiarazio    ni  predibattimentali  del  teste  affetto  da amnesia
 assoluta sui fatti di causa, dovuta ad infermita'  (ord.  n.  20  del
 1995).  Sempre in forza dei summenzionati principi, inoltre, la Corte
 ha  dichiarato  legittimo  l'art. 507 c.p.p. solo se interpretato nel
 senso che  esso  consentisse,  nell'inerzia  delle  parti,  l'impulso
 giudiziale  nella  acquisizione  della prova (sent. n. 111 del 1993).
 4.2. - Profili di  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
 legittimita'.    Tracciato  il  quadro  generale della giurisprudenza
 della Corte costituzionale rilevante in materia, occorre  procedere a
 verificare se, rispetto  alla  disciplina  dell'art.  513,  comma  2,
 c.p.p.  come  sostituito  dall'art.    11  n.  267  del  1997,  siano
 ipotizzabili violazioni dei limiti costituzionali sopra indicati.  Il
 tribunale rinviene varie prospettive di violazione, quanto  meno  non
 manifestamente  infondate.    4.2.1.  -  Ostacolo  irragionevole alla
 formazione della prova, alla funzione conoscitiva del dibattimento ed
 all'esercizio  della  giurisdizione  mediante  l'introduzione  di  un
 meccanismo  di  disposizione della prova:  contrasto con gli artt. 3,
 25, comma 2, 101, comma 2, 102, comma 1, 111, comma  1,  Cost.    Per
 apprezzare i vari profili di dubbio sulla legittimita' della norma in
 questione,  occorre  premettere  che  questo  tribunale  considera le
 dichiarazioni  rese  al  pubblico   ministero   dagli   imputati   in
 procedimento  connesso  che  si  siano  avvalsi in dibattimento della
 facolta' di  non  rispondere  come  atti  divenuti  imprevedibilmente
 irripetibili.    Che  si tratti di atti irripetibili risulta evidente
 sol che si consideri che l'esercizio della facolta' di non rispondere
 da parte dei soggetti predetti impedisce in toto la loro rinnovazione
 dibattimentale ed una nuova acquisizione  nel  contraddittorio  delle
 parti di elementi probatori provenienti dalla stessa fonte.
  Percio',  a  precludere  la  possibilita'  del  contraddittorio,  in
 astratto  possibile,  e'  l'esercizio  da  parte   dell'imputato   in
 procedimento  connesso  di  una facolta' riconosciutagli dalla legge.
 Che  l'irripetibilita'  dell'atto  sia  imprevedibile  e'  facilmente
 verificabile   considerando   la   natura   dell'atto  che  e'  causa
 dell'irripetibilita' - la semplice dichiarazione di  avvalersi  della
 facolta' di non rispondere - e i diversi e contrapposti interessi che
 possono  muovere  il soggetto che e' titolare di quella facolta' alla
 decisione  di  esercitarla.     Si  tratta,  invero,   di   un   atto
 discrezionale,  immotivato,  insindacabile,  frutto  di una personale
 valutazione che l'imputato in procedimento  connesso  fa  dei  propri
 interessi  processuali ed anche extraprocessuali.  D'altro canto, chi
 abbia reso in sede di indagini dichiarazioni a carico di altri ben si
 rende  conto  che  esse  possono avere gravi conseguenze, sia per lui
 medesimo nel caso di confessione di delitti ovvero di falsita' (artt.
 367 e  55.  c.p.),  sia  per  il  terzo  che  ne  risulta  coinvolto,
 conseguenze  che  vanno dal rinvio a giudizio all'applicazione di una
 misura   cautelare.   Una   siffatta    pregressa    assunzione    di
 responsabilita'  indurrebbe a ritenere che l'imputato o l'imputato in
 procedimento connesso reiterera'  le  dichiarazioni  a  carico  degli
 accusati.    In  forza di tali caratteristiche dell'atto di esercizio
 della facolta' di non rispondere, del soggetto  che  lo  compie,  dei
 motivi che possono spingerlo a cio', ben si puo' affermare che non e'
 possibile  prevedere,  prima  che l'atto sia compiuto, se la facolta'
 verra' esercitata o no  (cosi'  anche  tribunale  minorenni  Bologna,
 pres.  Longo,  imp. Ciavardini, ord. 19 settembre 1997, proc. n. 6492
 r.g., n. 33589 r.n.r.).
 Va  comunque  sottolineato  con  forza  che  non  sarebbe   razionale
 richiedere  al  pubblico ministero di prevedere i comportamenti delle
 controparti del processo o di altri processi, poiche', in tal caso ed
 in assenza di una disciplina generalizzata dei rapporti tra  pubblico
 ministero  e  collaboranti,  si  finirebbe  per  riconoscere  effetto
 giuridico (sub specie di eventuale inutilizzabilita' della  prova)  a
 possibili  comportamenti  ingannatori  di tali soggetti nei confronti
 del pubblico ministero medesimo.  Del resto la qualificazione operata
 dal tribunale  non  fa  altro  che  porsi  sulla  stessa  linea  gia'
 tracciata  dalla  Corte  nella  sentenza  n. 254 del 1992 (par. 3.1).
 Cio' premesso, il problema che si e' posto all'attenzione  di  questo
 tribunale  e'  se sia costituzionalmente corretto che, nell'ambito di
 un sistema accusatorio, il legislatore, allo  scopo  di  tutelare  il
 contraddittorio,     introduca     meccanismi     che     impediscono
 l'utilizzabilita'  di  elementi  di  prova  raccolti   dal   pubblico
 ministero    in   assenza   di   contraddittorio   e   di   cui   sia
 imprevedibilmente sopravvenuta l'irripetibilita'.   La  soluzione  da
 dare  al  quesito  suddetto  necessita  di una ulteriore precisazione
 preliminare, e cioe' che, nel presente processo - come in ogni  altro
 giudizio  di primo grado in corso -, al pubblico ministero, attesa la
 fase processuale in cui il processo si trova, e'  rimasta  del  tutto
 preclusa   la   possibilita'   di   chiedere,  in  fasi  antecedenti,
 l'assunzione della prova con incidente probatorio, i cui  presupposti
 di  ammissione sono stati notevolmente ampliati solo con l'entrata in
 vigore della  stessa  legge  n.  267  del  1997  (art.  4,  comma  1,
 modificativo  dell'art.  392,  comma  1, lettere c) e d), c.p.p.). Ed
 invero, nel corso della celebrazione del dibattimento, non e' nemmeno
 prospettabile l'esigenza di anticipare le forme di  assunzione  della
 prova che gli sono proprie al fine di evitare la perdita di una prova
 presumibilmente  non  rinnovabile  in futuro. Non mette conto percio'
 trattare qui della situazione in cui il  pubblico  ministero  avrebbe
 effettivamente  potuto  chiedere  l'incidente  probatorio  in fase di
 indagini e dell'efficacia (invero dubbia, atteso che  anche  in  tale
 sede  i  soggetti di cui all'art.  210 c.p.p. possono avvalersi della
 facolta' di non rispondere, che il meccanismo  puo'  essere  attivato
 anche  dalla  difesa  addirittura in sede di udienza preliminare, che
 non si vede percio' perche' i risultati della  sua  omessa  richiesta
 debbano  ricadere  esclusivamente  sul  pubblico  ministero,  che  e'
 costituzionalmente discutibile che si abbandoni la  formazione  della
 prova  a  scelte  di mera strategia processuale delle parti) che tale
 circostanza  puo'  spiegare  sulla valutazione del superamento o meno
 dei limiti costituzionali con riferimento alla disciplina  introdotta
 con  il nuovo art. 513 c.p.p.  Ad ogni buon conto, nel caso di specie
 - irripetibilita' sopravvenuta di un atto di acquisizione  probatoria
 -,  la  regola  generale e' quella della utilizzabilita' a condizione
 che la causa dell'irripetibilita' fosse imprevedibile, regola volta a
 spingere  il  pubblico  ministero  ad  attivare  istituti  (incidente
 probatorio) che consentono la formazione anticipata della prova.
   Occorre  pero'  ulteriormente  considerare  che,  nel  caso  che ne
 occupa, l'attivazione di tali istituti non era,  come  si  e'  detto,
 possibile.    Percio',  anche  quando,  per avventura, si volesse far
 incombere sul pubblico  ministero  l'onere  di  formulare  previsioni
 circa  l'esercizio  o  no  della  facolta' di non rispondere da parte
 degli imputati in procedimento  connesso  (o  degli  imputati)  e  si
 volesse   sostenere   che  quell'onere  puo'  essere  ragionevolmente
 assolto, tuttavia l'eventuale ritenuta prevedibilita'  dell'esercizio
 della  facolta'  di  astensione  non rileverebbe comunque perche', in
 ogni  caso,  la  sopravvenuta  irripetibilita'  non   poteva   essere
 prevenuta innescando l'incidente probatorio. Anche se la sopravvenuta
 irripetibilita'  fosse stata - per ipotesi - prevedibile, al pubblico
 ministero non sarebbe stato consentito porre rimedio ad una  siffatta
 situazione anticipando l'acquisizione della prova in contraddittorio.
 Ne  deriva  la  necessita'  -  ex  art.  3  della  Costituzione  - di
 assimilare,   quanto   all'aspetto   della    loro    utilizzabilita'
 dibattimentale,  la  disciplina degli atti divenuti irrimediabilmente
 irripetibili  a  quella   degli   atti   divenuti   imprevedibilmente
 irripetibili.    Tanto precisato, occorre notare che al quesito sopra
 indicato era  lo  stesso  legislatore  del  1988  ad  avere  risposto
 negativamente,  nel  senso  che  -  pressocche'  in  tutti  i casi di
 imprevedibile  irripetibilita'  dell'atto   -   aveva   previsto   un
 meccanismo   che   consentiva   il   recupero   degli  atti  divenuti
 irripetibili.   Cio' aveva consentito alla  Corte  costituzionale  di
 armonizzare  il  sistema,  colmandone  le lacune in forza dell'art. 3
 della Costituzione - caso tipico, proprio quello di cui alla sentenza
 n. 254 del 1992 - ed appianandone le piu' stridenti disarmomie.    In
 tali  occasioni,  tuttavia, la Corte aveva enunciato i principi sopra
 indicati (par. 4.1), capaci di spiegare i loro effetti ben  oltre  lo
 stato della legislazione positiva al momento della loro enunciazione.
 In  particolare,  attualmente,  il  legislatore  ha  direttamente  ed
 esplicitamente introdotto un  meccanismo  di  blocco,  a  discrezione
 delle  parti,  del  regime  sussidiario  ed alternativo di formazione
 della  prova  a  fronte  della  sua  irripetibilita'  dibattimentale,
 fondato  su  due  cardini:  perdurante  concessione  all'imputato  ed
 imputato  in  procedimento  connesso  che   abbia   (direttamente   o
 indirettamente)  accusato  altri  della facolta' di non rispondere in
 dibattimento; subordinazione al consenso di tutte le parti,  compresi
 i  soggetti  a  carico  dei quali sono stati raccolti gli elementi in
 sede  di  indagini,  dell'acquisizione  degli   elementi   di   prova
 irripetibili.      Cio'   impegna,   indubbiamente,   ad  un  compito
 parzialmente nuovo, cioe' non meramente ricostruttivo del sistema  in
 base  al  principio  di  ragionevolezza,  ma alla valutazione diretta
 della sua compatibilita' con i principi costituzionali.  Tuttavia,  a
 fronte  delle  enunciazioni che la Corte costituzionale ha reso nelle
 sentenze sopra menzionate il  sospetto  di  illegittimita'  non  puo'
 ritenersi manifestamente infondato.  Se il processo deve tendere alla
 ricerca  della  verita'  reale,  se  il  processo  in  generale ed il
 dibattimento in particolare hanno una funzione conoscitiva del  fatto
 che  ne  e'  oggetto,  se  il pubblico ministero e' istituzionalmente
 organo di giustizia che si muove al fine  di  applicare  la  legge  e
 compie  validamente  atti  normativamente  previsti  su  cui  possono
 fondarsi per  legge  altri  atti  lesivi  di  diritti  costituzionali
 primari,  se il codice stesso prevede numerosi meccanismi di recupero
 dell'utilizzabilita' di atti formati dal  pubblico  ministero  quando
 siano   divenuti   imprevedibilmente  irripetibili  cioe'  quando  il
 contraddittorio sia - per ragioni materiali o giuridiche  -  divenuto
 impossibile,  allora  sembra evidente dover dubitare di un meccanismo
 processuale che per un verso si risolve  nel  precludere  l'esercizio
 dell'azione penale e, per altro verso, nel precludere l'utilizzazione
 da  parte del giudice di atti che appartengono a quella categoria, in
 tal modo impedendogli di  accertare  il  fatto  e,  in  base  a  tale
 accertamento,  di  pervenire  ad  una  giusta  decisione.   I diversi
 aspetti di tale sillogismo necessitano di una spiegazione  analitica.
 Anzitutto va vagliata la conformita' della disciplina in questione al
 principio  di  razionalita'  nell'esercizio  obbligatorio dell'azione
 penale (artt. 3 e 112, Cost.).   A questo  scopo  devono  essere  pur
 sommariamente chiariti la natura ed il valore degli atti compiuti dal
 pubblico  ministero.  Si tratta certamente di atti formati in assenza
 di contraddittorio ed in segreto, ma si tratta anche di atti compiuti
 da un organo giudiziario, pubblico, indipendente, la  cui  azione  e'
 rivolta esclusivamente all'applicazione imparziale della legge (sent.
 n. 88 del 1991). Si tratta altresi' di atti che godono di particolari
 garanzie  quanto  alla  rispondenza  alla realta' del loro contenuto,
 trattandosi  di  verbali.    Proprio  per  questa  loro   particolare
 affidabilita',  la  legge  conferisce  utilizzabilita'  agli elementi
 raccolti dal p.m. nelle indagini con  riferimento  sia  ad  atti  che
 spiegano  i  loro effetti all'interno della fase delle indagini (es.:
 esercizio dell'azione penale nelle sue varie forme), sia ad atti  che
 spiegano i loro effetti fuori dalla fase delle indagini (es.: al fine
 di  emettere  sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone
 il giudizio), sia ad  atti  che  incidono  profondamente  su  diritti
 costituzionali  primari  dei cittadini (es.:  emissione di decreti di
 perquisizione e sequestro, adozione di misure  cautelari  personali).
 Non solo, l'utilizzazione delle risultanze emergenti dalle indagini -
 tra  le  quali  le  dichiarazioni  dei coimputati o degli imputati in
 procedimento connesso - non e', per il p.m., facoltativa, ma  e',  in
 base  all'art. 112 Cost., obbligatoria.  Ne deriva che costituisce un
 irragionevole ostacolo al  razionale  esercizio  dell'azione  penale,
 oltre  che  una  evidente  contraddizione ordinamentale, disporre che
 atti sui quali il pubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio
 della  sua  funzione,   quando   siano   divenuti   imprevedibilmente
 irripetibili  -  con  conseguente  esclusione del contraddittorio non
 imputabile al pubblico ministero medesimo -,  siano  utilizzabili  in
 dibattimento   solo   con   il  consenso  di  tutte  le  altre  parti
 processuali, tra le quali gli imputati nei  confronti  dei  quali  il
 contenuto  di  tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i propri
 dannosi effetti.  Risulta cioe' irrazionale da  un  lato  imporre  al
 pubblico  ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo,
 elementi di  prova  circa  il  fatto,  imporgli  di  chiedere  misure
 cautelari   eventualmente   ottenendole,   introdurre  meccanismi  di
 garanzia contro l'inerzia  del  pubblico  ministero,  e  poi,  quando
 quegli   elementi   siano  divenuti  imprevedibilmente  irripetibili,
 conferire al soggetto controinteressato il potere di disporre  a  suo
 piacimento  della  loro  utilizzabilita'  secondo logiche che, per la
 natura del soggetto investito del  potere,  non  possono  essere  che
 strettamente  egoistiche,  privatistiche  e  comunque  discrezionali,
 insindacabili ed immotivate.
   Riformulando, adattato al caso che ne occupa,  un  passaggio  della
 sentenza  n.  81  del  1991 si potrebbe dire che "non dovrebbe essere
 consentito che i rapporti fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto
 che il secondo, con  un  semplice  atto  di  volonta'  immotivato  e,
 percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il primo degli
 elementi  di  prova,  divenuti imprevedibilmente od irrimediabilmente
 irripetibili, in  base  ai  quali  ha  esercitato  l'azione  penale".
 Riformulando,  adattato  al  caso  che  ne occupa, un passaggio della
 sentenza  n.  111  del  1993   si   potrebbe   dire:   "...   sarebbe
 contraddittorio,  da  un  lato  garantire l'effettiva obbligatorieta'
 dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate  inerzie  del
 pubblico  ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari
 il potere di  disporre  che  costui  formuli  l'imputazione  ...;  e,
 dall'altro,  consentire  che  l'utilizzo  di atti delle indagini, sui
 quali si e'  fondato  l'esercizio  dell'azione  penale  sino  a  quel
 momento    e    divenuti   imprevedibilmente   od   irrimediabilmente
 irripetibili, possa essere impedito dallo stesso pubblico ministero o
 dalle altre parti  con  una  nuda  ed  immotivata  manifestazione  di
 volonta'".    Non  e'  poi  il  caso  di  approfondire  - perche' qui
 irrilevante - la situazione in cui sia  lo  stesso  p.m.  ad  opporsi
 all'acquisizione  di dichiarazioni di soggetti indicati dall'art. 210
 rese in sede di indagini e  divenute  imprevedibilmente  irripetibili
 per  rifiuto  di rispondere opposto dall'interessato in dibattimento:
 ci si troverebbe di fronte o ad uno stigma  irreparabile  inferto  al
 diritto  di difesa dell'imputato - quando si tratti dell'acquisizione
 di  elementi  a  lui  favorevoli  -  o  ad  una  cripto/ritrattazione
 dell'azione  penale  -  quando  si  tratti di elementi d'accusa -. In
 entrambi i casi atti disciplinati dalla normativa di cui  si  discute
 ma  costituzionalmente incompatibili con gli artt. 24 e 112 Cost.: in
 un caso identico - decadenza colposa o dolosa del p.m. dal diritto di
 richiedere le prove per omessa od  intempestiva  presentazione  della
 lista testimoniale - la Corte ha salvato il sistema solo perche' esso
 prevede,  mediante l'art. 507 c.p.p., il recupero di quelle prove. Un
 recupero  pero'  evidentemente   non   consentito   dalla   normativa
 introdotta  dall'art.    1  legge n. 267 del 1997.   Va altresi' data
 risposta  negativa,  per  quanto   qui   e'   possibile,   circa   la
 compatibilita'  tra  la  disciplina  di  cui si discute e la funzione
 conoscitiva,  di  tendenziale  accertamento  della   verita'   reale,
 attribuita dalla Costituzione al processo penale (cfr. par. 4.1).  E'
 indubbio,  infatti,  che  la  sottoposizione  all'accordo delle parti
 della  lettura  e   quindi   dell'acquisizione   di   atti   divenuti
 imprevedibilmente   irripetibili   costituisca   un   ostacolo   alla
 formazione del convincimento giudiziale  e  quindi  all'approssimarsi
 del  risultato  processuale alla verita', nella parte in cui consente
 che tali  atti  siano  -  senza  alcuna  possibilita'  di  rimedio  -
 sottratti  al  convincimento  medesimo mediante una manifestazione di
 volonta'   discrezionale,   insindacabile  ed  immotivata.    Occorre
 tuttavia valutare la ragionevolezza della  introduzione  di  siffatto
 ostacolo.    Certo,  rispetto  a  situazioni identiche, si coglie con
 immediatezza una ingiustificabile differenza.  Invero, solo  rispetto
 a   dichiarazioni   di   imputati  in  procedimento  connesso  (o  di
 coimputati) che si avvalgano della  facolta'  di  non  rispondere  e'
 stato  introdotto  il  potere  delle  parti  di  impedirne  ad  nutum
 l'utilizzo, mentre con riferimento ad altre identiche  situazioni  di
 imprevedibile  irripetibilita' di atti dello stesso tipo, tale potere
 non e' riconosciuto.  Di quest'ultima situazione costituiscono esempi
 i casi di imputato in procedimento connesso (o coimputato) di cui sia
 sopravvenuta l'irreperibilita' (art. 513 comma 2 seconda  parte),  il
 decesso,  infermita' produttiva di amnesia sui fatti (art. 512), o di
 soggetto che  decida  di  sottoporsi  all'esame  ma  si  astenga  dal
 rispondere  a  singole  domande  (fatto che consente contestazione ed
 utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali:  art. 503) e  di
 testimone  prossimo  congiunto  che  si avvalga della facolta' di non
 rispondere (sent. n. 179 del 1994).  Ne' pare che la diversa causa di
 irripetibilita'  sopravvenuta  -  naturale  (quale   il   decesso   o
 l'infermita')  o  giuridica  (quale l'esercizio della facolta' di non
 rispondere) - possa in alcun modo  giustificare  la  diversificazione
 delle  discipline  dell'utilizzabilita' degli atti di cui si discute,
 poiche' l'effetto dell'azione di tali  cause  sull'atto  e'  identico
 (irripetibilita')  e  perche'  l'unica differenza - diritto di difesa
 attuale rispetto al vivo ma non  rispetto  al  morto  -  riguarda  il
 dichiarante,  ma  non  i  soggetti  attinti  dalle  sue dichiarazioni
 rispetto al cui  diritto  al  contraddittorio  le  diverse  cause  di
 irripetibilita'  agiscono  in  modo identico, rendendolo impossibile.
 Si tratta cioe' di casi identici  -  in  cui  il  contraddittorio  e'
 inibito  senza che cio' sia imputabile al pubblico ministero - alcuni
 dei quali subiscono pero' un trattamento  irragionevolmente  diverso.
 Esiste   un   ulteriore  profilo  di  irragionevolezza  nell'ostacolo
 frapposto  alla  formazione  della  prova  mediante  il  procedimento
 alternativo  e  sussidiario  piu' volte menzionato, profilo attinente
 proprio alla devoluzione alle parti in generale,  ed  in  particolare
 agli   imputati,   della   decisione   circa   l'utilizzabilita'   in
 dibattimento di elementi raccolti dal pubblico ministero in  sede  di
 indagini  (elementi  che  possono  spiegare  una diretta od indiretta
 efficacia probatoria  a  loro  carico)  e  di  cui  sia  sopravvenuta
 imprevedibilmente  l'irripetibilita'.   La Corte costituzionale, come
 si e' detto,  ha  gia'  avuto  modo,  ragionando  su  fattispecie  di
 decadenza   colposa   o   consapevolmente  determinata  del  pubblico
 ministero dalla prova, di affermare come "incontroverso  che  sarebbe
 contrario  ai principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta'
 dell'azione   penale   concepire   come   disponibile    la    tutela
 giurisdizionale  assicurata  dal  processo penale"; e, immediatamente
 dopo, che disporre della prova equivale, indirettamente,  a  disporre
 della  stessa  res  iudicanda  (sent.  n.  111 del 1993).   Parimenti
 incontroverso, a parere del tribunale e' che la normativa di  cui  si
 tratta abbia introdotto il potere di ciascuna delle parti di disporre
 della  prova e, indirettamente, dell'oggetto del processo.  Ulteriore
 conferma di tale conclusione si rinviene  analizzando  gli  interessi
 tutelati dal tipo di atto di cui si discute.  Trattandosi, come si e'
 detto,  del  potere  attribuito  alle  parti del processo, di inibire
 l'uso  di  prove,  l'aspetto  di  tutela del diritto di difesa appare
 prospettabile solo come stimolo per il p.m.   a chiedere  l'incidente
 probatorio.    Nel  caso  di  specie  tuttavia  - a prescindere dalla
 circostanza che sembra singolare attivare il potere  di  interdizione
 di  una parte quando i motivi di prevedibilita' o meno dell'esercizio
 della facolta' di non rispondere sono gli stessi anche per la  difesa
 degli  imputati  ed anch'essa ha, se le interessa, il medesimo potere
 di attivazione dell'incidente probatorio - l'incidente probatorio era
 precluso, cosicche' la disciplina di cui si discute non puo'  sortire
 nemmeno  in  astratto  alcun effetto di tutela del contraddittorio ma
 solo l'effetto di sottrarre al giudizio, senza alcuna possibilita' di
 recupero,  prove  divenute  imprevedibilmente  od   irrimediabilmente
 irripetibili.
   Deve   altresi'   osservarsi   che   la   Corte  costituzionale  ha
 costantemente  affermato  che  il  diritto  di  difesa,  per   quanto
 inviolabile,  non  puo'  non  trovare contemperamento e bilanciamento
 rispetto ad  altri  concorrenti  principi  parimenti  tutelati  dalla
 costituzione  e  che,  quindi,  il  suo livello di tutela deve essere
 rapportato alle singole, e diverse, situazioni processuali.  Nel caso
 di specie, la  disciplina  dell'utilizzabilita'  delle  dichiarazioni
 predibattimentali  dell'imputato  in  procedimento  connesso  che  si
 avvalga della facolta' di  non  rispondere  introdotta  dalla  stessa
 Corte  costituzionale  con  la  sentenza  n.  254 del 1992, tendeva a
 bilanciare due valori diversi:  l'esercizio  dell'azione  penale,  ma
 soprattutto   ed   ancor   di   piu',   l'esercizio   della  funzione
 giurisdizionale stessa, da un lato, e,  dall'altro,  l'esercizio  del
 diritto  di  difesa,  che  non  rimaneva affatto impedito ma soltanto
 limitato dall'esercizio, da  parte  del  coimputato  od  imputato  in
 procedimento  connesso,  del  suo  diritto  di  difesa, sub specie di
 diritto di non rispondere in dibattimento anche alle domande di  chi,
 direttamente  od indirettamente, aveva accusato. Impedito in tal modo
 l'esercizio del diritto di difesa nel momento di genesi della  prova,
 veniva   attivato  il  procedimento  sussidiario  ed  alternativo  di
 formazione  della  prova  che  comunque  consentiva  il  tradizionale
 esercizio  del  diritto  di  difesa  sulla  prova  formata  (oltre ad
 introdurre,   di   fatto,   argomenti   sfavorevoli    all'intrinseca
 credibilita'  del dichiarante).   Infine, quanto all'irragionevolezza
 dell'ostacolo frapposto dal  nuovo  art.  513  comma  2  c.p.p.  alla
 formazione  della  prova,  non  sembra  superfluo sottolineare che il
 potere concesso alle parti e' cosi'  ampio  -  si  parla  infatti  di
 accordo  "delle  parti"  e  non  gia' delle parti "interessate" - che
 ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla
 sua  posizione  -  ma  rilevanti  rispetto  a  posizioni  diverse   -
 senz'altro  scopo  che  il porre un impedimento al regolare esercizio
 della giurisdizione Ma la situazione si  aggrava  proprio  quando  la
 parte  -  in  particolare  l'imputato  -  si  oppone  alla lettura di
 dichiarazioni irripetibili rese direttamente a suo carico.    In  tal
 caso  infatti  -  posto  che  tali dichiarazioni non sono considerate
 ontologicamente inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non  ne
 avrebbe  consentito  la  documentazione e l'utilizzo anche in fase di
 indagini preliminari ed  anche  a  fini  cautelari  -  il  meccanismo
 normativo  risulta  semplicemente  paradossale:  i veti incrociati di
 soggetti privati  -  quali  sono  gli  imputati  e  gli  imputati  in
 procedimento  connesso  - possono precludere l'esercizio stesso della
 giurisdizione  e prima ancora quello dell'azione penale.  Considerato
 che i soggetti predetti  agiscono,  come  si  notava,  per  interessi
 privatissimi  e  sinanco  meramente  egoistici,  l'ostacolo frapposto
 all'esercizio  della  giurisdizione  non  puo'  non  essere  ritenuto
 irrazionale.   La stessa Corte costituzionale (sent. n. 111 del 1993)
 ha infatti considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico
 ministero - organo cui pure la  Corte  riconosce  funzioni  pubbliche
 finalizzate  esclusivamente  all'applicazione della legge (sent n. 88
 del 1991) - di disporre del processo disponendo della  prova  (potere
 riconosciutogli  dai  giudici  di  merito  remittenti  grazie  ad una
 interpretazione dell'art.   507  c.p.p.  ritenuta  illegittima).    A
 questo  punto  non  si  puo'  non  considerare  illegittimo a maggior
 ragione l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti  privati
 -  quali  sono  gli  imputati  e  la  parte  civile - che, come tali,
 orientano   i   loro   comportamenti   secondo   logiche    meramente
 individualistiche.      E'  altresi'  prospettabile,  considerate  le
 precedenti osservazioni, una diretta violazione dell'art. 25 comma  2
 nella  parte in cui prevede che i colpevoli debbano essere puniti. E'
 invero quanto mai evidente che, condizionando l'utilizzo da parte del
 giudice  di  elementi  di  prova  irripetibili  raccolti  durante  le
 indagini  al  consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi
 spiegano la loro efficacia probatoria,  si  consente  che  l'imputato
 stesso,  mediante una scelta discrezionale, immotivata, insindacabile
 ed eventualmente ispirata  ad  interessi  non  tutelabili,  impedisca
 l'accertamento   del   fatto   e   percio'   delle   sue  (eventuali)
 responsabilita'.  In sostanza, si consente  all'imputato,  disponendo
 della  prova  a  suo  carico, di disporre indirettamente dell'oggetto
 stesso del processo, in violazione  -  gia'  riconosciuta  una  volta
 dalla  Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  111  del  1993 con
 riferimento all'interpretazione astrattamente formalistica  dell'art.
 507  c.p.p. recepita dai giudici remittenti - degli artt. 3, 25 comma
 2, 27 comma 1 Cost.  Ne' puo' essere richiamato, in contrario avviso,
 il  principio  di  presunta  innocenza  dell'imputato,  poiche'  tale
 principio,   se   fosse   interpretato  nel  senso  assolutistico  di
 conferimento all'imputato del potere di interdire l'assunzione  delle
 prove a suo carico, renderebbe inutile l'esercizio stesso dell'azione
 penale  e  della  giurisdizione  annullando  il  valore  dei connessi
 principi.  Va approfondito, seguendo prospettive gia'  accennate,  il
 contrasto  della disciplina di cui si discute con gli artt. 101 e 111
 della Costituzione.   E'  banale  osservare  che  la  formazione  del
 razionale e motivato convincimento giudiziale - artt. 3, 101 comma 2,
 111  Cost.  -  non  e'  solo  parte  integrante  dell'esercizio della
 funzione giurisdizionale, ma e' cio'  in  cui  lo  scopo  stesso  del
 processo  si invera.  Ebbene, a parere del tribunale, la normativa di
 cui si tratta, introducendo il potere delle parti di  disporre  della
 prova  -  tale  essendo,  lo  si  ripete,  in  tutta  la  sistematica
 codicistica l'elemento raccolto in  sede  di  indagini  dal  pubblico
 ministero    divenuto    imprevedibilmente    od    irrimediabilmente
 irripetibile -, consente  di  sottrarla  alla  razionale  e  motivata
 valutazione  del  giudice,  in  tal  modo impedendogli di formarsi un
 convincimento  che  si  avvicini  il  piu'   possibile   alla   reale
 verificazione  dei  fatti  e,  quindi,  impedendo la pronuncia di una
 giusta decisione.   Vale  anche  notare  che,  almeno  nella  materia
 dell'utilizzabilita' delle prove processuali penali, quando, come nel
 caso  di  specie, la legge devolve a privati quali sono gli imputati,
 gli imputati in procedimento connesso e la parte civile, la decisione
 ultima  e  definitiva,  oltre  che   discrezionale,   immotivata   ed
 incontrollabile  (tali  non sono le scelte effettuate nell'ambito dei
 procedimenti speciali, che hanno sempre come alternativa il  giudizio
 ordinario)  sull'utilizzabilita'  delle  prove, allora appare violata
 dalla legge stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto  solo
 alla legge:  per il tramite formale di una norma giuridica il giudice
 -  nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio
 - viene fatto soggiacere alle decisioni altrui.
   Si individuano, infine, contrasti contrapposti della  normativa  in
 questione rispetto alla posizione della parte civile.
   Da un lato, infatti, la disciplina descritta contrasta anche con il
 diritto  di  difesa  della parte civile (artt. 24 commi 1 e 2 Cost.),
 poiche' la devoluzione  agli  imputati  della  facolta'  di  impedire
 l'utilizzo   di   elementi   di   prova   divenuti  imprevedibilmente
 irripetibili, danneggia irragionevolmente - in base a quanto detto in
 precedenza  -  il  suo  diritto  di  veder  tutelati  gli   interessi
 privatistici di cui assume avvenuta la lesione ad opera dell'imputato
 con la commissione del reato.
   Mette  conto  notare,  in  proposito, che la parte civile non puo',
 nella fase delle indagini preliminari, ne' chiedere ne'  partecipare,
 come tale, all'incidente probatorio e, nell'udienza preliminare, puo'
 parteciparvi  se  chiesto da altri ma non chiederlo (art. 392 comma 1
 c.p.p., non modificato, quanto a legittimazione alla richiesta  dalla
 sent.  Corte  cost. n. 77 del 1994).  Percio', ammesso e non concesso
 che possa  onerarsi  la  parte  civile  della  previsione  in  ordine
 all'esercizio  o  no  della facolta' di non rispondere da parte degli
 imputati od imputati in prodimento connesso, la  parte  in  questione
 non  potrebbe,  anche  se volesse, rimediare mediante l'anticipazione
 del  contraddittorio  all'(evetualmente)  prevedibile  esercizio   di
 quella  facolta'. Cioe', rispetto alla parte civile, le dichiarazioni
 rese al p.m. dall'imputato  in  procedimento  che  si  avvalga  della
 facolta'    di   non   rispondere   sono   sempre   irrimediabilmente
 irripetibili.    Per  apprezzare  le  ulteriori  contraddizioni   che
 emergono   da  altro  e  opposto  angolo  di  visuale,  quello  della
 titolarita' in capo alla parte civile del potere di negare il proprio
 consenso all'utilizzo  delle  dichiarazioni  predibattimentali  degli
 imputati  in procedimento connesso che si avvalgano della facolta' di
 non  rispondere,   occorre   preliminarmente   osservare   che   tale
 titolarita',  in  base  alla  lettera  della legge, e' incontroversa.
 L'accordo circa l'utilizzabilita' di quelle dichiarazioni e' devoluto
 "alle parti", dunque a tutte le parti compresa la parte  civile,  che
 parte  e',  incontestabilmente,  nel  processo. Ne' e' possibile dare
 della lettera della  legge  interpretazione  piu'  restrittiva  -  ad
 esempio intendere "parti" come "parti interessate" - non solo perche'
 la  determinazione  nel pieno della istruttoria dibattimentale la cui
 possibile evoluzione e' sconosciuta al giudice apparirebbe quanto mai
 disagevole, ma  soprattutto  perche'  valorizzare  l'interesse  della
 singola   parte  all'utilizzo  dell'atto  significherebbe  fatalmente
 concedere a ciascuna il potere di interdire l'utilizzabilita'  di  un
 atto  nei  suoi confronti, ma non nei confronti di altre parti - come
 esplicitamente, con diversa formula, previsto dall'art. 513  comma  1
 c.p.p.   -.  Tale  eventualita'  porterebbe  ad  una  utilizzabilita'
 soggettivamente  indirizzata  per  imputato degli atti acquisiti, con
 conseguenti ostacoli ancora maggiori ed in alcuni casi  probabilmente
 insormontabili  sia  alla  formazione  di  un  razionale e motivabile
 convincimento  giudiziale,  sia  alla  unitarieta'  dell'accertamento
 fattuale  operato  dal  giudice.   Considerati i suesposti argomenti,
 appare dunque evidente che anche la parte civile risulta titolare del
 potere di interdizione di cui si va discorrendo.   Se cio'  e'  vero,
 ben  potrebbe  la  parte civile - nella personale interpretazione dei
 suoi  interessi  privatistici  -  o  opporsi  alla  acquisizione   di
 dichiarazioni  di  imputati  in  procedimento  connesso  che si siano
 avvalsi della facolta' di non rispondere e che il pubblico  ministero
 intenda   introdurre   a   carico   degli   imputati  o,  ancor  piu'
 verosimilmente, opporsi alla acquisizione di dichiarazioni del genere
 quando ridondino a discarico degli imputati ma il pubblico  ministero
 si  determini  a  prestare  il  suo  consenso in armonia con il ruolo
 istituzionale che gli e' proprio.  Nel primo caso sarebbe evidente la
 lesione del principio di cui  all'art.  112  Cost.,  nel  secondo  la
 lesione  contemporanea, oltre che del principio predetto, del diritto
 di  difesa  degli  imputati.    Ma,  rispetto  alla   parte   civile,
 l'irragionevolezza  della  disciplina  legislativa  si apprezza anche
 considerando che la parte medesima, come detto, non e' legittimata  a
 chiedere  l'incidente probatorio:  l'irrazionalita' si rinviene nella
 circostanza che una parte, alla quale e' gia' in astratto preclusa la
 possibilita' di chiedere l'esame predibattimentale di un  imputato  o
 di   un  imputato  in  procedimento  connesso  con  le  garanzie  del
 contraddittorio, abbia il potere di interdire l'utilizzo di  elementi
 di  prova  raccolti in assenza di un contraddittorio che comunque non
 era legittimata ad attivare.  5. - Non manifesta  infondatezza  della
 questione  di legittimita' degli artt. 210 comma 4 e 513 c.p.p. nella
 parte in cui prevedono che l'imputato in  procedimento  connesso  che
 abbia  reso dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a
 carico di soggetti non presenti all'atto  di  assunzione  davanti  al
 pubblico  ministero,  possa  avvalersi,  nel dibattimento a carico di
 quei soggetti, della facolta' di  non  rispondere.    Ritiene  questo
 Collegio  che  le  discrasie e le contraddizioni in cui si involge la
 disciplina introdotta con l'art. 1 legge n. 267  del  1997  -  ed  in
 particolare  quella  di  cui al comma 2 dell'art. 513 c.p.p. -, siano
 dovute alla creazione legislativa di un vero e proprio conflitto - in
 quanto tale irragionevole - tra diritto di difesa ed esercizio  della
 funzione   giurisdizionale.    Infatti,  tutelando  sino  all'estremo
 limite, per un verso il diritto al contraddittorio degli imputati  e,
 per   altro   verso  il  loro  diritto  a  non  sottoporsi  all'esame
 dibattimentale - entrambi espressione del piu'  generale  diritto  di
 difesa   -,  la  legge  finisce  per  sacrificare  l'esercizio  della
 giurisdizione: in nome del suo diritto  al  contraddittorio  ciascuna
 parte  puo' vietare ad nutum l'utilizzabilita' di dichiarazioni di un
 altro soggetto (imputato in procedimento connesso) che, in  nome  del
 suo  diritto  di  difesa,  abbia  reso impossibile il contraddittorio
 medesimo avvalendosi ad nutum della facolta' di non rispondere.    Da
 tale  pur  sintetica  analisi  emerge  immediatamente  per  un  verso
 l'irragionevolezza del meccanismo - poiche' gli artt. 2, 3, 25  comma
 secondo,  101  comma  secondo, 102, 111 della Costituzione fondano il
 principio di indefettibilita' di  una  giurisdizione  penale,  ed  in
 particolare  di  un  dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena
 conoscenza  da  parte  del  giudice  dei  fatti  oggetto del processo
 affinche' possa essere emessa una giusta decisione - per altro verso,
 che il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e  giurisdizione,
 ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti e,
 per  altro  verso  ancora,  che  il  conflitto  in questione e' stato
 erroneamente risolto a danno della giurisdizione.  E' evidente che il
 diritto al silenzio  (e  la  facolta'  di  menzogna)  possono  essere
 indirettamente tutelati in tanto in quanto non consentano di bloccare
 ne'  l'esercizio  dell'azione ne' l'esercizio della giurisdizione, ma
 solo come diritto dell'individuo ad astenersi dal collaborare con gli
 organi preposti alla verifica della responsabilita' penale.  Quindi i
 contemperamenti volti a risolvere il  problema  del  conflitto  degli
 interessi  contrapposti  non  possono  che  essere ricercati su altri
 piani.
   Ed invero,  il  processo  introdotto  nel  1988  -  tendenzialmente
 accusatorio  -, ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine
 quello  dell'oralita'  -  id   est,   formazione   della   prova   in
 dibattimento,  cioe'  nel  contraddittorio  delle  parti di fronte al
 giudice che decide nel merito del processo -. Cio',  tra  l'altro  in
 armonia con il disposto dell'art. 6 comma 2 let. d) della Convenzione
 per  la  salvaguardia  dei diritti dell'uomo.   L'intendimento di una
 maggiore salvaguardia  del  contraddittorio  nella  formazione  della
 prova,  del  resto, e' apparso uno degli scopi fondamentali che hanno
 mosso  l'azione  del  legislatore  del  1997.  Seppure  a  mezzo   di
 meccanismi   processuali   irrazionali   e'  palese  l'intenzione  di
 costruire il contraddittorio,  sub  specie  di  diritto  all'esame  e
 controesame, come diritto delle parti.  Tanto premesso, e' pero' pure
 palese  che una delle condizioni per lo sviluppo del contraddittorio,
 quando  esso  assume  forma  genetica  della  prova  cioe'  la  forma
 dell'esame  incrociato,  e'  che il soggetto che vi e' sottoposto sia
 gravato dell'obbligo di  rispondere  alle  domande  che  gli  vengono
 rivolte.  Se  tale  condizione  non  sussiste,  invero, si concede al
 soggetto in  questione  il  potere  di  vanificare  l'altrui  diritto
 all'esame  e  controesame.    D'altra  parte  e' scontato, almeno nel
 nostro ordinamento processuale penale, che elementi di accusa possano
 provenire  da  coimputati  od  imputati  in  procedimento   connesso,
 peraltro  titolari,  come  tali,  della  facolta'  di non rispondere.
 Ebbene, mentre la concessione  alle  parti  di  un  diritto  di  veto
 rispetto    all'acquisizione    delle    dichiarazioni   rese   senza
 contraddittorio dagli  imputati  in  procedimento  connesso  divenute
 irripetibili   finisce   per  ledere  irreparabilmente  il  razionale
 esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della  giurisdizione
 e  lo  scopo  stesso  del processo, la acquisizione immediata di tali
 dichiarazioni finisce per ledere il  diritto  di  azione  e/o  difesa
 delle  parti  sub  specie  di diritto all'esame ed al controesame. Si
 privano le parti del  potere  di  fare  domande,  ricevere  risposte,
 dialettizzare,  rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito nelle
 indagini attraverso le contestazioni.  Cio' posto - considerando come
 fondamento della costruzione  ordinamentale  da  un  lato  la  stessa
 prospettiva   del   legislatore   del   1988   e  del  1997  e  cioe'
 l'intangibilita' del diritto  al  contraddittorio  e,  dall'altro,  i
 principi    di   uguaglianza,   legalita',   obbligatorio   esercizio
 dell'azione  penale,  funzione  conoscitiva  del   processo   e   del
 dibattimento,   indefettibilita'   della   giurisdizione  -,  diviene
 irrazionale   riconoscere,   al   coimputato   od   all'imputato   in
 procedimento  connesso  che  abbiano  reso  al   pubblico   ministero
 dichiarazioni  che  costituiscono  elemento  indiziante  a  carico di
 determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel  dibattimento
 a  carico di quei soggetti.  In tali limiti non appare manifestamente
 infondata, in relazione agli artt. 3 e 24 comma 2 della Costituzione,
 la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210 comma 4 e
 513 comma 2  c.p.p.    E'  superfluo  sottolineare  che  un'eventuale
 declaratoria  di illegittimita' costituzionale delle norme predette e
 nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di esercitare il
 proprio  diritto  all'esame  -  con  le  correlative   ed   eventuali
 contestazioni  -,  mentre  non  introdurrebbe  per  gli  imputati  in
 procedimento  connesso  l'obbligo  di  dire  la   verita',   con   le
 correlative   sanzioni.   Dichiarazioni  rese  in  sede  di  esame  e
 contestazioni sarebbero ovviamente valutabili  dal  giudice  ai  fini
 della  decisione.    In  sostanza,  l'unica via razionale aperta alla
 soluzione del problema in questione - posti i  vincoli  di  principio
 dell'indefettibilita'    della    giurisdizione,    dell'obbligatorio
 esercizio  dell'azione  penale,  della   funzione   conoscitiva   del
 processo,  del  diritto  di difesa degli imputati e degli imputati in
 procedimento connesso - e'  quella  di  ritenere  che,  a  fronte  di
 dichiarazioni  indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri,
 il diritto di difesa del dichiarante si  affievolisca  di  fronte  al
 diritto  di  difesa  dei chiamati in causa - sub specie di diritto ad
 interrogarlo sulle accuse direttamente od indirettamente rivolte loro
 -. La ragionevolezza di tale  affievolimento  si  apprezza  anche  in
 considerazione  del  fatto  che,  quando  il sede penale - indagini o
 dibattimento -, un soggetto sottoposto  ad  indagine  o  un  imputato
 rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato
 esercita  in  quel modo preciso il suo diritto di difesa, con tutti i
 benefici  e   gli   inconvenienti   del   caso,   dall'altro   impone
 all'autorita'   giudiziaria   (art.   112   della   Costituzione)  di
 approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini
 sia di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in  sede
 cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti
 all'accertamento.    Date  le  conseguenze di un tale comportamento -
 universalmente note a qualsiasi cittadino - non e' possibile  esimere
 il  dichiarante  da  una  assunzione di responsabilita' che comporti,
 quanto meno, l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in  sede
 di  esame  e  controesame.    Del  resto,  il  diritto  di difesa del
 dichiarante non e' del tutto cancellato, posto che egli manterrebbe -
 in quanto non trasformato in testimone, anche se  con  i  limiti  del
 caso  (artt. 367 e ss. c.p.)  - la facolta' di dare versioni diverse,
 ritrattare, perfino mentire, facolta' pure  essa  ritenuta,  fino  ad
 oggi,  espressione  del  diritto  di difesa. D'altro canto proprio le
 virtu'  euristiche  dell'esame  dibattimentale  -  nelle   quali   il
 legislatore  mostra  di  riporre  la  massima  fiducia  -,  oltre che
 l'intero sistema processuale nel suo complesso garantiscono piu'  che
 a  sufficienza  dal  pericolo  che le menzogne dibattimentali vengano
 recepite in sentenza o, quanto meno, riducono tale pericolo  rispetto
 al  livello  che  esso attinge quando vengono acquisite dichiarazioni
 assunte da una parte senza contraddittorio e  divenute  irripetibili.
 Al  legislatore  rimarrebbe,  comunque,  sia  la  valutazione  se  il
 dichiarante-accusatore debba o no  essere  equiparato  al  testimone,
 sia,   in   caso  contrario,  la  decisione  circa  l'introduzione  -
 ovviamente  opportuna  poiche'  costituente  una  forma   di   tutela
 dell'effettivita'  del  contraddittorio  -  di  un nuovo reato contro
 l'amministrazione della giustizia avente come  fattispecie  obiettiva
 l'omessa  risposta a domande rivolte nel corso dell'esame ad imputati
 in procedimento connesso che abbiano reso dichiarazioni indizianti  a
 carico  di  altri  in  loro  assenza.    Occorre infine notare che la
 questione di legittimita' di cui si discorre e'  stata  trattata  per
 ultima  per comodita' espositiva dei complessi problemi sottostanti a
 quelle dianzi considerate.  Tuttavia essa si  pone  come  preliminare
 sia  rispetto a quella concernente l'art. 513 comma 2 come modificato
 dall'art. 1 legge n. 267 del 1997, sia rispetto a quella  concernente
 l'art.  6 comma 5 della citata legge.  E' chiaro infatti che, qualora
 venisse accolta la eccezione di cui qui si  discorre,  verrebbe  meno
 uno  dei  presupposti  fondamentali  su  cui  e'  costruita l'attuale
 disciplina dell'acquisizione delle dichiarazioni  degli  imputati  in
 procedimento  connesso  e si determinerebbe immediatamente, in base a
 questo dato nuovo, la  necessita'  di  verificare  la  compatibilita'
 costituzionale di una disciplina che affida alla volonta' delle parti
 il   potere   di   interdire   l'acquisizione   delle   dichiarazioni
 predibattimentali di chi - a questo punto illegittimamente -, rifiuta
 di rispondere.
   Ritiene  il  Collegio  che  tutti  i   motivi   che   rendono   non
 manifestamente  infondata  la  questione  concernente l'attuale testo
 dell'art. 513 comma 2 c.p.p., non possano  che  essere  ribaditi  con
 forza anche con riferimento a questa nuova situazione.
   Ed  invero  l'illegittimo  rifiuto  di rispondere puo' conferire in
 astratto alle precedenti dichiarazioni o particolare  credibilita'  -
 perche' sono acquisiti elementi dai quali si ricava che l'imputato di
 reato  connesso  ha  rifiutato  di  rispondere  a causa di minacce od
 offerte di utilita' ovvero  "risultano  altre  situazioni  che  hanno
 compromesso  la  genuinita'  dell'esame"  (art. 500 comma 5 c.p.p.) -
 oppure  particolare   inaffidabilita',   potendosi   ipotizzare   che
 l'illegittimo   rifiuto   di   rispondere  sia  assimilabile  ad  una
 attendibile ritrattazione.   Orbene, un problema  del  genere  appare
 ovviamente  irresolubile  in  astratto  -  cioe'  mediante disciplina
 legislativa - e, per sua natura, non puo' che essere risolto caso per
 caso nell'ambito del singolo processo e, cioe', sottoposto  prima  al
 contraddittorio   delle   parti   e   poi  al  razionale  e  motivato
 convincimento giudiziale, affinche' sia  resa  una  giusta  decisione
 nella  situazione concreta.   Si deve concludere, quindi, che accolta
 quest'ultima eccezione, non e' manifestamente infondata la  questione
 di  legittimita'  dell'art.    513  comma  2 c.p.p. - come sostituito
 dall'art. 1 legge n. 267 del 1997 - nella parte in cui  subordina  al
 consenso    delle    parti    l'acquisizione    delle   dichiarazioni
 predibattimentali  degli  imputati  in  procedimento   connesso   che
 comunque  si  rifiutino di rispondere 6. - Non manifesta infondatezza
 della questione di legittimita' dell'art 6 comma 5 legge n.  267/1997
 nella  parte in cui esclude che elementi di prova utili alla conferma
 dell'attendibilita' di dichiarazioni acquisite al  fascicolo  per  il
 dibattimento  ex  art. 513 previgente siano desumibili anche da altre
 dichiarazioni dello stesso tipo.  La questione sollevata dal pubblico
 ministero  non  e'  manifestamente  infondata,  seppure  per   motivi
 parzialmente  diversi  da  quelli  indicati.    6.1.  -  Natura delle
 dichiarazioni  delle  persone indicate dall'art.   513 c.p.p. e degli
 elementi di prova atti a confermarne l'attendibilita'.  Per  valutare
 la  legittimita'  costituzionale  della  regola di giudizio contenuta
 nell'art. 6 comma 5 legge n. 267 del 1997  occorre  premettere  brevi
 osservazioni  circa  la  natura riconosciuta dalla Suprema Corte alle
 dichiarazioni predibattimentali delle persone indicate dall'art.  513
 c.p.p. - specie quando assumano la forma di chiamate in correita'  od
 in  reita'  - ed agli elementi di prova ritenuti idonei a confermarne
 l'attendibilita'.  In proposito occorre notare che il testo dell'art.
 6 comma 5  legge  n.  167  del  1997  riproduce,  salvo  che  per  la
 limitazione  sopra  evidenziata, quello dell'art. 192 comma 3 c.p.p.,
 pacificamente applicabile anche con  riferimento  alle  dichiarazioni
 acquisite  ex  art.  513  previgente, cosicche' appaiono mutuabili in
 chiave  interpretativa  gli   orientamenti   giurisprudenziali   gia'
 consolidatisi  al  riguardo.    Con  riferimento alla prima questione
 costituisce ormai dato acquisito l'affermazione secondo la  quale  la
 chiamata  in  correita',  quando abbia superato il rigoroso vaglio di
 attendibilita' intrinseca  (genuinita',  spontaneita',  disinteresse,
 costanza,  logica  interna  del  racconto,  precisione,  completezza,
 diffusione descrittiva, assenza di elementi  probatori  contrastanti:
 cfr, tra le tante, Cass., sez. un., 21 ottobre 1992-22 febbraio 1993,
 Marino;  Cass.,  sez. I, 24 giugno 1991, Agnoletto; Cass., sez. VI, 2
 giugno-24 agosto 1993, Geido ed altri) ha natura  non  gia'  di  mero
 indizio,  ma natura di prova e precisamente di prova rappresentativa,
 sebbene abbisognevole di elementi estrinseci di conferma (Cass., sez.
 I, 27 novembre 1989, Andreini ed altri; Cass., sez. un.,  3  febbraio
 1990,  Belli;  Cass.,  sez.  I, 23 agosto-19 settembre 1990, Carollo;
 Cass., sez. II, 26 ottobre 1989-3 luglio 1990, Guzzardi; Cass.,  sez.
 un.,  6 dicembre 1991, Scala ed altri; Cass., sez. II, 19 febbraio-26
 aprile 1993, Fedele ed altri; Cass., sez. I, 30 gennaio 1992, Abate e
 altri; Cass., sez. VI, sent. n. 2775 del 12 gennaio-16  marzo  1995).
 Il  vaglio  di  attendibilita'  delle  dichiarazioni  di  imputati in
 procedimento connesso (o coimputati) e'  poi  pacificamente  ritenuto
 preliminare rispetto alla verifica della sussistenza ed efficacia dei
 riscontri, pur se il giudizio finale sul raggiungimento del risultato
 di  prova  e'  indicato  come  il frutto di una operazione unitaria e
 complessiva di valutazione delle diverse  risultanze.    Quanto  alla
 seconda    questione    -   natura   degli   elementi   di   conferma
 dell'attendibilita' delle  dichiarazioni  predette  -  sono  costanti
 alcune  affermazioni.    Anzitutto  gli  elementi  probatori  atti  a
 confermare l'attendibilita' delle dichiarazioni in questione  debbono
 essere  "altri" rispetto alle dichiarazioni stesse, cioe' avere fonte
 o  natura  diversa.  In  secondo  luogo  tali  elementi   "non   sono
 predeterminati  nella  specie  e  qualita' e, di conseguenza, possono
 essere, in via generale, di qualsiasi specie o natura"  (Cass.,  sez.
 I,  27  novembre 1989, Andreini ed altri; Cass., sez. un., 3 febbraio
 1990, Belli; Cass., sez. un., 6 dicembre 1991, Scala ed altri; Cass.,
 sez. I, 20 febbraio-26 marzo 1996, Emmanuello;  Cass.,  19  aprile-28
 maggio  1991,  Riccardi).  A  tal proposito la Corte di cassazione ha
 tracciato un utilissimo elenco esemplificativo di possibili  elementi
 probatori idonei a costituire riscontro delle dichiarazioni di cui si
 discute:  "... In dette esperienze esterne e' un dato consolidato ...
 che sono  valorizzabili,  in  termini  di  efficaci  riscontri  della
 rapportabilita'  del  fatto  delittuoso  al  soggetto accusato ... le
 analisi  scientifiche  di cose connesse con il delitto, le ammissioni
 dell'accusato,  i  comportamenti  del  medesimo  sia  anteriori   che
 successivi  al  reato  tali  da  destare  sospetti o inspiegabili, le
 contraddizioni  nelle  quali   l'accusato   sia   incorso,   le   sue
 dichiarazioni  false  o  menzognere,  la  fuga  dopo  il  delitto, la
 partecipazione dell'accusato agli atti preparatori  del  delitto,  la
 prossimita'  dell'accusato al luogo dove e' stato commesso il delitto
 accompagnata da circostanze inusuali,  l'associazione  con  modalita'
 tali  da  suggerire  la  partecipazione  al  delitto,  il possesso di
 strumenti probabilmente usati  per  commettere  il  delitto,  la  non
 spiegabile  disponibilita'  dei frutti del delitto, la deposizione di
 altri complici.  E se ne possono aggiungere sia in base ad  una  piu'
 minuziosa   rassegna   dell'esperienza  giurisprudenziale  interna  e
 comparata,  sia  procedendo  per  assimilazione  o  scorporazione   o
 sottodistinzione  delle  ipotesi  generali in sottoipotesi aventi gli
 stessi elementi costitutivi.   Come si puo' notare  gli  elementi  di
 riscontro  coprono  un'area  indefinita e vastissima" (Cass., sez. I,
 Abate,  cit.).    E'  altresi'  dato  consolidato  che  i  cosiddetti
 riscontri  esterni,  dovendo  avere  la semplice funzione di conferma
 della credibilita' delle dichiarazioni accusatorie,  non  debbono  di
 necessita'  costituire  di  per se stessi piena prova del fatto anche
 perche' una regola siffatta  renderebbe  sostanzialmente  inutile  la
 presenza  della  chiamata  in correita' ai fini della prova del fatto
 stesso (per tutte: Cass., sez. I, 21 settembre-9  novembre  1990,  n.
 14669,  Fidenzia; Cass., sez. II, 7 dicembre 1993-17 gennaio 1994, n.
 4947, Alessandrino; Cass., sez.  IV,  sent.  n.  9509,  11  maggio-20
 ottobre 1993, Ameglio; Cass., sez. I, 18 gennaio 1991, Liguori).
   Da  tali  affermazioni  si  sono  coerentemente  tratte  almeno due
 conseguenze, ovvero che gli elementi di conforto  dell'attendibilita'
 possano  essere  di  natura logica - cioe' concretantisi in inferenze
 concettuali che, a  partire  da  un  fatto  noto,  facciano  ritenere
 probabile  l'accadimento  di  un  fatto  ignoto  capace di confermare
 l'attendibilita'  delle  dichiarazioni  del  chiamante  in  correita'
 (Cass.,  sez.  IV,  Ameglio,  cit.;  Cass., sez. II, 7 febbraio 1991,
 Vannini) - e la possibilita' che  una  chiamata  in  correita'  possa
 essere  corroborata  a  mezzo  di  altra  chiamata in correita', alla
 tassativa condizione che entrambe siano valutate come  intrinscamente
 attendibili e soprattutto tra loro autonome distinte (Cass., sez. VI,
 sent.  n. 2775 del 12 gennaio-16 marzo 1995; Cass., sez. VI, sent. n.
 13316 del 29 marzo-11 ottobre 1990,  Pecorella;  Cass.,  sez.  I,  25
 giugno-10 ottobre 1990, Barbato; Cass., sez. II, sent. n. 7767 del 29
 novembre  1990-24  luglio  1991; Cass., sez. I, sent. n. 3744, del 30
 gennaio-27 marzo 1992, Arbore; Cass., sez.  I, 20  febbraio-26  marzo
 1996,  Emmanuello).  Da  questa  ultima affermazione si inferisce che
 l'ordinamento  come  interpretato  dalla  Corte  di  cassazione  gia'
 prevede  che  sia  negata  efficacia  di  reciproco  riscontro a piu'
 chiamate in correita'  quando  non  siano  predicabili  di  reciproca
 autonomia.    Occorre  inoltre sottolineare con forza che la prevista
 capacita',  in  base  all'art.  6  comma   5   legge   n.   167/1997,
 indipendentemente   da   qualsiasi   consenso   delle   parti,  delle
 dichiarazioni  predibattimentali  di   fondare   la   prova,   quando
 corroborate  da  elementi  probatori  di  natura  diversa, non fa che
 ribadire,  nel  regime  transitorio,  la  natura   probatoria   delle
 dichiarazioni  acquisite  ex  art.  513  c.p.p. previgente.   Orbene,
 all'esito  delle  precedenti  osservazioni non si puo' non concludere
 che le dichiarazioni delle persone indicate dall'art.    513,  quando
 siano   giudicate   attendibili,  hanno  ontologicamente,  oltre  che
 normativamente  (art.  192  comma  3  c.p.p.)  un  valore  probatorio
 intrinseco  ben  maggiore  del mero elemento di prova utilizzabile in
 funzione di riscontro poiche' costituiscono il  dato  principale,  il
 vero  architrave,  dell'intero procedimento valutativo che porta alla
 dichiarazione  del  risultato  di  prova,  dato  rispetto  al   quale
 l'elemento  di  riscontro  riveste funzione accessoria.   Infine ed a
 scanso di equivoci, va ancora osservato che lo stesso art. 6 legge n.
 267/1997 e' esso stesso espressione, rispetto alle fasi di assunzione
 ed acquisizione della prova; della esigenza di non dispersione  degli
 elementi  di  prova  acquisiti  in  fase  di  indagine  in assenza di
 contraddittorio e che non siano ripetibili in dibattimento.   6.2.  -
 Profili  di  non manifesta infondatezza della questione sottoposta al
 Tribunale.  Considerato il quadro generale della giurisprudenza della
 Corte costituzionale rilevante in materia (cfr. par.  4.1),  si  deve
 valutare  se,  rispetto  alla  disciplina dettata dall'art. 6 comma 5
 legge n.   267 del 1997, siano  ipotizzabili  violazioni  dei  limiti
 costituzionali sopra indicati.  Il tribunale rinviene anche in questo
 caso  varie prospettive di violazione, quanto meno non manifestamente
 infondate.  6.2.1. - Intrinseca irrazionalita' della norma: contrasto
 con gli artt. 3, 101 commi primo e  secondo,  102  comma  primo,  111
 commi primo e secondo della Costituzione.  Occorre premettere, quanto
 all'utilizzabilita'  del canone in questione, che la Corte ad esso ha
 gia' fatto ricorso, proprio nella materia che ne  occupa  in  diverse
 occasioni,  anche  se  si  possono  distinguere  casi riconosciuti di
 irrazionalita' intrinseca  per  assoluta  carenza  di  ragionevolezza
 della disciplina speciale, di irrazionalita' intrinseca per possibile
 utilizzo  arbitrario  dell'istituto da parte del titolare del potere,
 di irrazionalita' intrinseca per autocontraddittorieta' della  norma.
 Alla  prima  categoria  appartengono  le  irrazionalita' riconosciute
 nella sentenza n. 24 del 1992 - "Non si puo' sostenere nemmeno in via
 di mera astrazione, che gli  appartenenti  alla  polizia  giudiziaria
 siano   da   ritenersi   meno  affidabili  del  testimone  comune;  a
 prescindere dalla palese assurdita' di  una  ipotesi  siffatta,  essa
 risulterebbe  poi in insanabile contrasto col ruolo e la funzione che
 la  legge  attribuisce  alla  polizia  giudiziaria  (...).  Ne'  puo'
 sostenersi   che  proprio  dall'attivita'  svolta  nella  fase  delle
 indagini preliminari derivi una ragionevole  giustificazione  atta  a
 sorreggere il divieto di cui si discute ..." - e nella sentenza n. 60
 del  1995 - "La questione e' fondata sotto l'assorbente profilo della
 assoluta  irragionevolezza  di  tale  disparita'  di  disciplina  ...
 risulta  del tutto priva di razionale giustificazione una disciplina;
 quale quella in esame, che determina una  disparita'  nel  regime  di
 utilizzazione    processuale    tra    interrogatorio    diretto   ed
 interrogatorio delegato in deroga al criterio - seguito dallo  stesso
 codice  (...)  -  della  assimilazione, anche sotto tale profilo, tra
 atti diretti ed atti delegati"  -.    Alla  seconda  delle  categorie
 illustrate   appartengono   le  irrazionalita'  riconosciute  con  le
 sentenze n. 11 del 1997 e n. 81 del 1991, piu' sopra  citate.    Alla
 terza  categoria  -  irrazionalita'  per autocontraddittorieta' della
 norma - appartiene invece uno dei  profili  in  forza  dei  quali  la
 Corte,  con  la  sentenza  n.  255  del  1992, ha ritenuto fondata la
 questione  propostale.    Ed invero, l'enunciazione del summenzionato
 principio di non dispersione delle prove sarebbe stato insufficiente,
 di per se', a produrre la declaratoria  di  illegittimita'  dell'art.
 500  comma  3  c.p.p.  nella  sua  originaria  versione.  Tale  norma
 prevedeva infatti due momenti preclusivi:  il  primo,  a  livello  di
 ammissione,  laddove  impediva  di  acquisire  al  fascicolo  per  il
 dibattimento  il  verbale   delle   dichiarazioni   predibattimentali
 utilizzate per le contestazioni; il secondo, a livello di valutazione
 della prova, laddove impediva di utilizzare quelle dichiarazioni come
 "prova  dei  fatti  in  esse(a)  affermati".    Orbene,  l'ambito  di
 operativita' del cosiddetto principio di non dispersione delle  prove
 -  che  altro  non e' se non un procedimento probatorio alternativo e
 sussidiario rispetto al principale fondato sul contraddittorio per la
 prova - e' individuabile con riferimento alla fase  dell'acquisizione
 della  prova (ulteriormente suddivisibile nelle fasi di ammissione ed
 assunzione della prova), ma non spiega nessun effetto  rispetto  agli
 elementi  di  prova  che  siano  stati legalmente acquisiti, elementi
 rispetto ai quali si pongono soltanto problemi di valutazione.    Che
 tale  prospettiva sia corretta e' dimostrato dalla circostanza che la
 declaratoria di  illegittimita'  ha  trovato  il  suo  fondamento  in
 profili ulteriori rispetto a quelli afferenti la fase di acquisizione
 della  prova  e  riguardanti invece il momento della sua valutazione.
 Al paragrafo 3 della sentenza n. 255 del 1992  la  Corte  ha  infatti
 affermato.  "La  regula  iuris  posta  dalla norma impugnata presenta
 anche un duplice profilo in  intrinseca  irragionevolezza:  in  primo
 luogo ... In secondo luogo, posto che il nuovo codice fa salvo (e, in
 aderenza  ai principi costituzionali non poteva essere altrimenti) il
 principio del libero convincimento, inteso come liberta' del  giudice
 di  valutare  la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con
 l'obbligo di dare conto in motivazione dei  criteri  adottati  e  dei
 risultati  conseguiti (art. 192), la norma in esame impone al giudice
 di contraddire la propria motivata  convinzione  nel  contesto  della
 stessa  decisione  -  come rileva il giudice a quo - in quanto, se la
 precedente dichiarazione e' ritenuta veritiera,  e  per  cio'  stesso
 sufficiente  a  stabilire  l'inattendibilita' del teste nella diversa
 deposizione resa in dibattimento, risulta chiaramente irrazionale che
 essa,  una  volta  introdotta  nel  giudizio,  entrata   quindi   nel
 patrimonio    di   conoscenze   del   giudice,   ed   esaminata   nel
 contraddittorio delle parti (con la presenza  del  teste  che  rimane
 comunque sottoposto all'esame incrociato), non possa essere utilmente
 acquisita al fine della prova dei fatti in essa affermati".
   Ebbene,  ritiene  il Tribunale che lo stesso modulo di ragionamento
 che ha indotto la Corte a ritenere illegittimo  l'art.  500  comma  3
 nella sua originaria versione, valga, a maggior ragione, per ritenere
 l'illegittimita'  dell'art.  6  comma  5  legge n. 267 del 1997 nella
 parte in cui esclude  che  elementi  di  prova  utili  alla  conferma
 dell'attendibilita'  di  dichiarazioni  acquisite al fascicolo per il
 dibattimento ex art.  513 previgente siano desumibili anche da  altre
 dichiarazioni dello stesso tipo.
   Ed  invero,  posto  il principio che la decisione del processo deve
 essere il frutto del razionale e motivato convincimento del giudice -
 principio questo facilmente desumibile dagli artt. 3,  101  comma  2,
 102 comma 1, 111 commi 1 e 2 -, la Corte ha affermato che non possono
 introdursi   norme   che  impongano  irrazionalmente  al  giudice  di
 contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa
 decisione.    Ma  la norma di cui si discorre impone irrazionalmente,
 gia' in linea astratta, al giudice di contraddire la propria motivata
 convinzione nel contesto della stessa  decisione.    Ed  invero,  una
 volta   prevista,   come   fa   il   legislatore,   l'acquisizione  e
 l'utilizzazione a fini di prova  delle  dichiarazioni  delle  persone
 indicate  dall'  art.  513  previgente  che  si siano (ulteriormente)
 avvalse in dibattimento della facolta' di non rispondere sol  che  la
 loro  attendibilita'  sia  confermata da un altro elemento di prova -
 elemento che, come detto, puo' essere  anche  solo  indiziante  o  di
 natura meramente logica -, non si puo' poi contemporaneamente vietare
 che  tale  elemento  di conferma possa essere tratto da dichiarazioni
 della stessa natura provenienti da persone  diverse,  quando  ne  sia
 riconosciuta  l'attendibilita'  e  la  reciproca autonomia (cfr. par.
 4.1.).  Traducendo il dictum legislativo in termini logici e' come se
 il legislatore dicesse  che  1  +  X  =  2  (dove  1  rappresenta  le
 dichiarazioni  acquisite  ex art. 513 c.p.p. previgente, X l'insieme,
 comprendente 1, degli elementi utilizzabili a conferma di 1, e  2  il
 risultato  di  prova) ma se X =1 allora 1 + 1 =/=2.  Ne' e' possibile
 individuare la ragion  d'essere  di  una  esclusione  cosi'  grave  e
 generalizzata nell'eventuale rischio di un inquinamento reciproco tra
 i  dichiaranti  e  cio'  non  solo  e  non tanto perche' non sussiste
 l'esperienza storica che  possa  fondare  la  ragionevolezza  di  una
 presunzione  cosi' astratta e generalizzata, quanto piuttosto perche'
 tale disciplina contraddice  la  premessa  adottata  dal  legislatore
 medesimo  all'interno della stessa norma, e cioe' che il risultato di
 prova fondato sulle dichiarazioni acquisite ex  art.  513  previgente
 possa  essere  dichiarato  solo dopo che il giudice abbia vagliato in
 concreto, caso per caso, la loro attendibilita' e che abbia  concluso
 positivamente  sul  punto.    Orbene, considerato che nel giudizio di
 attendibilita'  delle  dichiarazioni  in  questione  e'  incluso  per
 giurisprudenza  costante  quello sulla loro genuinita' ed autonomia -
 cioe' che esse non siano distorte da influenze inquinanti ad opera di
 terzi, tra  cui  si  annoverano  ovviamente  anche  i  coimputati  od
 imputati  in  procedimento connesso - la legge finisce per imporre al
 giudice la formazione del convincimento in  punto  di  attendibilita'
 (e,    quindi,    genuinita'   ed   autonomia)   delle   medesime   e
 contemporaneamente per imporgli  di  non  dichiarare  o  smentire  in
 decisione i risultati di tale vaglio.  Tale regime normativo non puo'
 che  predicarsi  di  contraddittorieta'  siccome  contrastante con il
 principio di identita' (a = a) e con il  ragionamento  a  maiori:  se
 dichiarazioni  acquisite  ex  art. 513 previgente possono, secondo il
 dettato legislativo, costituire il fondamento, la base,  l'architrave
 del procedimento di valutazione probatoria, tanto che, riconosciutane
 l'attendibilita',  necessitano  solo  di riscontri che per necessita'
 logica possono essere anche minusvalenti come  efficacia  probatoria;
 ebbene  allora  a  dichiarazioni  della stessa natura, provenienti da
 persone diverse, riconosciute parimenti attendibili ed autonome,  non
 puo'  essere  negata l'utilizzabilita' a fini di riscontro di quelle.
 Ogni  qualvolta  si  presentasse  in  un  processo   una   situazione
 probatoria  in cui l'esistenza di un fatto rilevante si puo' desumere
 solo dalla pluralita'  e  convergenza  di  dichiarazioni  di  persone
 diverse,  acquisite  ai  sensi  dell'art. 513 previgente, di ciascuna
 delle  quali   sia   riconosciuta   l'intrinseca   attendibilita'   e
 l'autonomia;  il  giudice sarebbe posto dalla legge in condizione "di
 contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della stessa
 decisione".   Ne'  sarebbe  corretto  obiettare  alle  argomentazioni
 dedotte  sinora  che  la  Corte,  nella  sentenza  n. 255 del 1992 ha
 trattato di un caso  -  quello  delle  contestazioni  -  che  prevede
 comunque  il  contraddittorio tra le parti (il teste "rimane comunque
 sottoposto  all'esame  incrociato").     L'obiezione  sembra   invero
 inconferente  considerando, lo si sottolinea con forza, che lo stesso
 legislatore ha, in questo caso ed in  omaggio  al  principio  di  non
 dispersione   delle   prove,   riconosciuto  efficacia  probatoria  a
 dichiarazioni  acquisite  ex  art.  513  previgente   attendibili   e
 riscontrate.    E'  il  caso di rilevare che la contraddizione cui il
 giudice  viene  irrazionalmente  obbligato  dalla  norma  di  cui  si
 discute,  oltre a porre un ostacolo irragionevole all'esercizio della
 giurisdizione in se' stessa intesa  -  con  violazione  del  disposto
 degli  artt.  3,  101  comma 2 e 102 comma 1 -, finisce per minare la
 legittimazione delle decisioni giudiziarie che, come  si  evince  dal
 combinato  disposto degli artt. 101 comma 1 e 111 comma 1, riposa non
 solo sulla scrupolosa applicazione della legge (art. 101 comma 2), ma
 anche sulla loro comprensibilita' ai  destinatari  (le  parti  ed  il
 popolo)  e,  quindi,  in  primis  sulla loro rispondenza alla logica;
 condizione primaria della loro possibile condivisione collettiva.  Si
 impone, da ultimo una notazione circa il rapporto della disciplina de
 qua con il diritto di difesa  dell'imputato.  Tale  rapporto  sfugge,
 posto  che  la norma in questione non impone ne' agevola alcuna forma
 di contraddittorio tra le parti ne' incrementa in alcun modo i poteri
 della   difesa   in   quanto   tale   nel    processo,    limitandosi
 (irrazionalmente)  a  dichiarare  la  parziale  inutilizzabilita'  di
 elementi di cui e' altrimenti riconosciuto il valore probatorio.  Ne'
 e'  pensabile  che la mera reiterazione della citazione dell'imputato
 in procedimento connesso ai sensi dell'art. 6 comma 1  legge  n.  267
 del  1997  possa  in  alcun  modo  indurlo  a  smentire la scelta del
 silenzio gia' consapevolmente adottata in precedenza e determinarlo a
 rispondere alle domande, situazione che sola tutela effettivamente il
 diritto al contraddittorio.  6.2.2. - Disparita' di  trattamento  tra
 imputati.   Violazione  degli  artt.  3  e  25  comma  secondo  della
 Costituzione.  Proseguendo sulla stessa linea ma sotto altro profilo,
 si rinviene una disparita' di trattamento tra imputati che siano  gli
 uni  raggiunti  da  chiamate  in correita' attendibili corroborate da
 elementi di prova di natura diversa da altre chiamate in correita' ma
 di efficacia probatoria minusvalente  rispetto  ad  esse  (es.:  meri
 indizi),  ed  altri  che  siano  raggiunti  da  chiamate in correita'
 convergenti,  giudicate  pienamente  attendibili  ed   autonome.   La
 condanna  dei  primi  e l'assoluzione dei secondi importa una patente
 violazione dei principi di uguaglianza e  legalita'  (artt.  3  e  25
 comma secondo della Costituzione).
    Una  violazione  dello  stesso  genere  si ha tra imputati gli uni
 raggiunti da chiamate in correita' del  genere  da  ultimo  descritto
 (c.d.  "incrociate")  e gli altri solo da indizi che pero' il giudice
 ritenga, giusta il disposto dell'art. 192 comma 2 c.p.p., sufficienti
 a fargli dichiarare accertato il fatto.
    Ancora, appare priva di giustificazione alcuna la differenziazione
 di trattamento tra imputati a carico dei quali gravi  una  pluralita'
 di  convergenti  chiamate  in correita' formalizzate in dichiarazioni
 acquisite ex art. 513 previgente  ed  imputati  a  carico  dei  quali
 gravino   o   solo   dichiarazioni  di  coimputati  e/o  imputati  in
 procedimento connesso  acquisite  ex  art.  512  c.p.p.  (ad  esempio
 perche'  deceduti  o affetti da totale amnesia causata da infermita')
 oppure dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente e dichiarazioni
 di coimputati ed imputati in procedimento connesso acquisite ex  art.
 512  c.p.p. Solo nel primo caso, infatti, ma non nel secondo la norma
 di cui si discute impedisce il  riscontro  reciproco,  nonostante  si
 tratti  di  dichiarazioni  tutte  ugualmente  acquisite  dal pubblico
 ministero nella fase delle indagini in assenza della difesa  e  tutte
 divenute irripetibili a causa di imprevedibili fatti sopravvenuti. In
 particolare   tra   questi   untimi   deve   sicuramente  annoverarsi
 l'esercizio da parte dell'imputato o  dell'imputato  in  procedimento
 connesso  della  facolta'  di  non rispondere, trattandosi di diritto
 meramente potestativo il cui azionamento  e'  rimesso  esclusivamente
 alla valutazione che il titolare faccia di suoi particolari interessi
 di    carattere   processuale   od   extraprocessuale.      Parimenti
 ingiustificato e' il differente  trattamento  riservato  ad  imputati
 raggiunti  solo  da dichiarazioni acquisite ex art. 513 previgente ed
 imputati raggiunti o soltanto da dichiarazioni acquisite a seguito di
 contestazione ex art. 503 c.p.p. - quando l'imputato o l'imputato  in
 procedimento  connesso  hanno accettato l'esame ma si siano rifiutati
 di rispondere a singole domande - o sia da dichiarazioni acquisite ex
 art. 513 previgente e da dichiarazioni acquisite ex art.  503  c.p.p.
 Infatti,  mentre  nel  primo  caso  e' inibito il riscontro reciproco
 delle dichiarazioni, nel secondo e nel terzo il  riscontro  reciproco
 e'  ammissibile,  nonostante  si  tratti  di dichiarazioni, come gia'
 detto, di identica natura.  6.2.3. - Violazione degli artt. 3  e  112
 della  Costituzione.    Quanto  detto  in  precedenza con riferimento
 all'apprezzamento della  prova  da  parte  del  giudice  puo'  essere
 ripetuto  con  riferimento  all'esercizio dell'azione penale da parte
 del pubblico ministero - azione che  deve  essere  caratterizzata  da
 imparzialita'  e  razionalita'  -  poiche' la disciplina in questione
 condiziona, prima che la formazione del convincimento del giudice  in
 sede  di  decisione,  il  contenuto  e  l'esito di almeno un atto che
 costituisce  tipicamente  esercizio   di   quel   potere   quale   la
 formulazione   ed   i   termini   delle   conclusioni  all'esito  del
 dibattimento (art. 523, comma 1, c.p.p.).  L'applicazione della norma
 in questione costringerebbe infatti il pubblico ministero a  chiedere
 assoluzione  di  imputati nei cui confronti abbia esercitato l'azione
 penale ed eventualmente anche chiesto ed ottenuto  l'applicazione  di
 misure  cautelari coercitive in base a plurime autonome e convergenti
 dichiarazioni a carico  di  persone  indicate  nell'art.  513  c.p.p.
 6.2.4.  -  Irrazionalita'  intrinseca  dell'art. 6, comma 5, legge n.
 267/1997 in quanto regime transitorio: violazione degli artt.    3  e
 112   della  Costituzione.     Constatato  che  il  regime  ordinario
 introdotto con l'art. 1, legge n.  267/1997  comportava  un  notevole
 depotenziamento   delle   armi  dell'accusa  -  poiche'  le  indagini
 antecedenti all'entrata in vigore della legge erano state compiute in
 vista di un processo  in  cui,  quando  l'imputato  o  l'imputato  in
 procedimento  connesso  si  fossero  avvalsi  della  facolta'  di non
 rispondere o si fossero comunque  sottratti  al  contraddittorio,  le
 loro dichiarazioni erano incondizionatamente acquisibili e pienamente
 utilizzabili  -  l'intenzione  del  legislatore,  quale  palesata nei
 lavori  preparatori  della legge, era quella di non consentire che il
 sopravvenuto  mutamento   normativo   danneggiasse   irreparabilmente
 l'esercizio   dell'azione  penale  in  quei  processi.    Orbene,  la
 disciplina  adottata  non  evita  tale  danno  irreparabile,  ma   al
 contrario  ne  costituisce  la  causa,  ogni  qualvolta  il  pubblico
 ministero si  sia  determinato  ad  esercitare  l'azione  penale  nei
 confronti  dell'imputato  ritenendo  di  avere  raccolto a suo carico
 elementi sufficienti a provarne la responsabilita' e  consistenti  in
 convergenti,  autonome  ed  attendibili dichiarazioni suscettibili di
 acquisizione ex art.  513 previgente. In tal caso, infatti, la  norma
 di  cui  si  discute  introduce  a  sorpresa  e senza che il pubblico
 ministero possa porvi rimedio una  regola  di  valutazione  nuova  ed
 opposta  alla  precedente  che  determina  l'annullamento  del valore
 probatorio gia' riconosciuto a quelle risultanze. Si rinviene in cio'
 una lesione del diritto alla prova del  pubblico  ministero,  diritto
 che  e'  immediata  manifestazione  del  principio di obbligatorieta'
 dell'azione penale.
   E' inoltre appena il caso di  rilevare  che  non  sembra  possibile
 giustificare  la disciplina in questione sul presupposto che tutte le
 volte che le  dichiarazioni  acquisite  ex  art.  513  previgente  si
 corroborano  reciprocamente,  v'e'  il  sospetto che tale effetto sia
 stato ottenuto mediante manovre fraudolente degli organi  inquirenti.
 Tale  sospetto infatti appare innanzi tutto istituzionalmente assurdo
 ed  inaccettabile  ancor  piu'  di  quello  che  alcuni  ipotizzavano
 caratterizzasse   la   ragion   d'essere   della   esclusione   della
 testimonianza de relato della polizia giudiziaria; in secondo  luogo,
 se  per  avventura  fosse  ritenuto  fondato,  dovrebbe  portare alla
 cancellazione del valore probatorio del mezzo  di  prova  di  cui  si
 discute, non gia' alla affermazione della sua utilizzabilita', seppur
 parziale o disponibile.