ha pronunciato la seguente
                               Ordinanza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 1 e  seguenti
 della   legge   30  dicembre  1986,  n.  943  (Norme  in  materia  di
 collocamento  e  di  trattamento   dei   lavoratori   extracomunitari
 immigrati  e  contro  le  immigrazioni  clan-destine),  promosso  con
 ordinanza emessa l'8 settembre 1997 dal pretore di Bologna,  iscritta
 al  n.  772  del  registro ordinanze 1997 e pubblicata sulla Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 46,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1997.
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  25  marzo 1998 il giudice
 relatore Valerio Onida.
   Ritenuto che, con ordinanza emessa l'8 settembre 1997, pervenuta  a
 questa  Corte  il 20 ottobre 1997, il pretore di Bologna, in funzione
 di  giudice  del  lavoro,  ha  sollevato  questione  di  legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  all'art. 10, primo e secondo comma,
 nonche' agli artt.   2,  3  e  4  della  Costituzione,  "delle  norme
 dell'art.  1  e seguenti della legge 30 dicembre 1986, n. 943" (Norme
 in  materia  di  collocamento  e  di   trattamento   dei   lavoratori
 extracomunitari  immigrati  e  contro  le  immigrazioni clandestine),
 "emessa  come  attuazione   della   convenzione   dell'Organizzazione
 internazionale  del  lavoro n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con
 la legge  10  aprile  1981,  n.  158,  in  quanto  non  prevedono  la
 possibilita'  che  siano  iscritti nelle liste di collocamento di cui
 alla legge 18 aprile  1968,  n.  482,  i  lavoratori  extracomunitari
 legalmente residenti per ragioni di lavoro in Italia";
     che  il  remittente  espone  due  tesi interpretative del sistema
 legislativo in vigore: l'una - sostenuta dal ricorrente nel  giudizio
 a  quo,  e  ritenuta  dallo  stesso  remittente  corrispondente  alla
 tendenza legislativa in atto -,  che  comporterebbe  l'ammissione  di
 detta  possibilita', sulla base del riconoscimento, sancito dall'art.
 1  della  legge  30  dicembre  1986,  n.  943,  in  attuazione  della
 convenzione  OIL  n. 143 del 24 giugno 1975, a favore degli stranieri
 legalmente residenti in Italia, della piena  uguaglianza  di  diritti
 rispetto     ai     lavoratori     italiani;    l'altra,    sostenuta
 dall'amministrazione,   che   esclude   l'accesso   degli   stranieri
 extracomunitari  agli  elenchi speciali per l'assunzione obbligatoria
 degli invalidi, sulla base dell'assenza di una disposizione specifica
 che lo consenta;
     che  il  giudice  a  quo  ritiene,  "allo  stato  del  processo",
 "applicabile  la  tesi  interpretativa  del  Ministero  del  lavoro",
 osservando che il "diritto vivente" nella materia sarebbe  costituito
 dalle   direttive   e  dalle  prassi  amministrative,  che  escludono
 l'applicabilita' ai lavoratori immigrati delle norme sulle assunzioni
 obbligatorie degli invalidi, e che "sarebbe  certamente  improduttiva
 di  effetti  concreti nei confronti della amministrazione una diversa
 interpretazione giudiziaria";
     che, cosi' ritenuta la rilevanza della questione,  il  giudice  a
 quo  osserva  che,  mentre  la  convenzione  internazionale  n.  143,
 adottata dall'Organizzazione internazionale del lavoro il  24  giugno
 1975, e resa esecutiva in Italia con la legge 10 aprile 1981, n. 158,
 prevede  all'art.  10  l'impegno  degli Stati aderenti a formulare ed
 attuare una politica nazionale diretta a promuovere  e  garantire  la
 "parita' di opportunita' e di trattamento in materia di occupazione",
 e  all'art.   12 l'impegno ad abrogare o modificare le disposizioni e
 le prassi amministrative incompatibili con tale politica, la legge n.
 943 del  1986,  che  pur  costituisce  specifica  applicazione  degli
 obblighi assunti con la convenzione, si limita invece ad affermare la
 "parita'  di trattamento" e la "piena uguaglianza di diritti rispetto
 ai lavoratori italiani", norma che viene  interpretata  nella  prassi
 dell'amministrazione come riguardante solo le condizioni del rapporto
 di  lavoro  gia'  instaurato  e  non  tutti  i  diritti  spettanti ai
 lavoratori italiani;
     che,  secondo  il  remittente,  la  legge  n.   943   del   1986,
 interpretata  nel  senso  che  non  consente  ai lavoratori immigrati
 l'iscrizione negli elenchi per  il  collocamento  obbligatorio  delle
 categorie  protette  alle  stesse condizioni dei lavoratori italiani,
 violerebbe anzitutto l'art. 10, primo comma, della Costituzione, che,
 comportando l'adattamento dell'ordinamento interno al  principio  del
 diritto  internazionale  generale  costituito dalla regola pacta sunt
 servanda,   attribuirebbe   garanzia   costituzionale   e   posizione
 sovraordinata  alle  norme  di  esecuzione dei trattati rispetto alla
 ulteriore legislazione interna di attuazione che non vi si conformi;
     che, in secondo luogo, sarebbe violato l'art. 10, secondo  comma,
 della  Costituzione,  secondo cui la disciplina del trattamento dello
 straniero deve conformarsi alle norme e ai  trattati  internazionali,
 per il divario denunciato fra la legge italiana e la convenzione OIL,
 con violazione del principio della parita' di opportunita' sancito da
 quest'ultima;
     che,  sempre  secondo il giudice a quo, sarebbe violato, in terzo
 luogo, l'art. 3 della  Costituzione,  in  relazione  ai  principi  di
 ragionevolezza  e  di  eguaglianza,  e alla tutela costituzionale dei
 diritti inviolabili di cui all'art. 2 della Costituzione, nonche'  al
 diritto  al lavoro di cui all'art. 4 della Costituzione, in quanto vi
 sarebbe  contraddittorieta'  fra  il  dichiarato  intento   di   dare
 attuazione  alla  convenzione OIL e la garanzia di parita' di diritti
 rispetto  ai  lavoratori  italiani,  da  un  lato,  e  la  negazione,
 dall'altro,  ai  lavoratori  extracomunitari  della  possibilita'  di
 usu-fruire delle possibilita' di collocamento obbligatorio, anche  se
 divenuti  invalidi  a  causa  del  lavoro prestato in Italia: tenendo
 inoltre conto della circostanza che la legge 5 febbraio 1992, n.  104
 (Legge  quadro  per  l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti
 delle persone handicappate) estende l'applicabilita'  delle  norme  a
 tutela  delle  persone handicappate anche agli stranieri residenti in
 Italia, manifestando cosi' l'orientamento della legislazione verso la
 piu' ampia tutela e la parificazione dei diritti,  anche  per  quanto
 riguarda le opportunita' di lavoro, delle categorie piu' deboli.
   Considerato che spetta in primo luogo al giudice a quo, in presenza
 di  dubbi interpretativi della legge ordinaria, risolverli in base ad
 una ricostruzione della portata delle singole norme e del sistema, da
 lui  autonomamente  condotta  in  base  agli   ordinari   canoni   di
 interpretazione,  incluso  quello che impone di dare la preferenza ad
 un significato, fra quelli compatibili col  testo,  che  tenga  conto
 delle  norme  costituzionali  ed  eviti  di  attribuire alla legge un
 significato incostituzionale (cfr. sentenze nn. 169 del 1982, 146 del
 1985 e 473 del 1989; ordinanza n. 63 del 1989);
     che,  nella  specie,  il  remittente  non  propone  una   propria
 ricostruzione  interpretativa, ma si limita a prospettare le due tesi
 in contrasto, ritenendo poi "applicabile" "allo stato  del  processo"
 l'interpretazione  che  egli  stesso  giudica  in  contrasto  con  la
 Costituzione, allo scopo di ottenere da questa Corte  "una  decisione
 che risolva gli aspetti costituzionali del problema";
     che  non  puo' invocarsi un presunto "diritto vivente" costituito
 da direttive e prassi dell'amministrazione (cfr. sentenza n.  83  del
 1996),  spettando  viceversa ai giudici, soggetti soltanto alla legge
 (art. 101, secondo comma, Cost.),  ricostruire  la  corretta  portata
 delle  disposizioni legislative; e che l'interpretazione giudiziaria,
 lungi  dall'essere,  come  afferma  nella   specie   il   remittente,
 "improduttiva    di    effetti    concreti    nei   confronti   della
 amministrazione", e' chiamata proprio a realizzare nel caso  concreto
 la  tutela  dei  diritti,  in  ipotesi  illegittimamente negati dalla
 amministrazione;
     che la  questione  proposta  si  palesa  pertanto  manifestamente
 inammissibile  perche'  non  proposta  nei  confronti di disposizioni
 legislative fatte oggetto da parte del  giudice  a  quo  di  autonoma
 interpretazione e come tali ritenute da lui applicabili alla specie.
   Visti  gli  artt.  26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.