IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza  in  relazione  alle  eccezioni  di
 incostituzionalita'  degli  artt.  513  c.p.p. modificato dall'art 1,
 legge 7 agosto 1997, n. 267, e 6, commi 2 e 5 legge 7 agosto 1997  n.
 267,  con  riferimento  agli  artt.  3 e 112 Cost., proposte dal p.m.
 all'udienza del 20 febbraio 1997
   Sentite le difese;
                                Osserva
  Il presente dibattimento si e' aperto il 9 luglio 1997, data in  cui
 si  e'  tenuta  la  relazione introduttiva delle parti: lo stesso era
 percio' in corso al 12 agosto 1997, allorche' e' entrata in vigore la
 legge 7 agosto  1997,  ma  a  tale  data  non  erano  state  compiute
 attivita'   processuali   che   avessero   importato  la  lettura  di
 dichiarazioni rese nella fase precedente al  giudizio.    All'udienza
 del  20  febbraio  1997, stante la contumacia del latitante Maklouk e
 l'irreperibilita' dei soggetti citati ex art. 210, c.p.p.,  il  p.m.,
 che  in  sede  di  richiesta  delle  prove  aveva chiesto l'esame del
 coimputato Maklouk e degli imputati di reato connesso  Essabar  Karim
 ed  Adam  Ben  (gia' separatamente giudicati per lo stesso fatto), ha
 prodotto, per la loro lettura, le dichiarazioni da costoro rese nella
 fase delle indagini preliminari.  Le difese nulla hanno osservato  in
 merito  all'acquisizione  dei  verbali  resi  dagli imputati di reato
 connesso, mentre quella del Gharbi ha negato - a sensi dell'art.  513
 n.  1  ultima parte c.p.p.  - il proprio consenso all'utilizzabilita'
 anche nei confronti del proprio assistito delle dichiarazioni rese al
 g.i.p. ed  al  p.m.  dal  Maklouk.    Il  p.m.  ha  quindi  eccepito,
 richiamando  le  argomentazioni  gia'  svolte  il  10  novembre 1997,
 l'illegittimita' costituzionale dell'art.  513 c.p.p. come  novellato
 dalla  legge  n.  267/97 ed anche della disciplina transitoria di cui
 all'art. 6 della detta legge, disciplina la cui inapplicabilita'  nel
 presente caso deriverebbe da un'intrinseca irrazionalita' della norma
 stessa,  tale  da importare lesione del principio di uguaglianza.  Il
 p.m. pare aver  mosso  tali  rilievi,  ritenendo  l'utilizzalibilita'
 "condizionata"  di  cui  all'art.  513  c.p.p.  riferibile  sia  alle
 dichiarazioni a carico dell'imputato Gharbi promananti dal coimputato
 Maklouk contumace, sia a quelle  degli  imputati  di  reato  connesso
 Essabar  Karim  ed Adam Ben, non presentatisi in quanto irreperibili.
 Va detto sul punto che in relazione all'acquisizione dei verbali resi
 da tali ultimi due soggetti la norma  non  trova  applicazione  sotto
 quel   profilo,   si'   che   le  eccezioni  proposte  sono  entrambe
 irrilevanti.  Cio', non tanto perche' la difesa  non  si  e'  opposta
 all'integrale  utilizzo  dei  verbali  sottoscritti dagli imputati di
 reato connesso,  ma  perche'  Essabar  Karim  e  Adam  Ben  risultano
 divenuti  imprevedibilmente  irreperibili.  I  documenti in questione
 devono percio' ritenersi acquisiti ex art. 512 c.p.p. e quindi  senza
 che  sussista alcuna facolta' di veto delle parti in ordine alla loro
 piena utilizzabilita'.
  Vero che lo stesso art 513, n. 2, c.p.p. nella parte in cui opera il
 rinvio all'art. 512 c.p.p.  ora  precisa  che  "l'impossibilita'"  di
 ottenere  la  presenza  del  dichiarante  o  di procedere comunque in
 contraddittorio al suo esame - deve dipendere "da fatti o circostanze
 imprevedibili al momento delle dichiarazioni".    Non  bisogna  pero'
 incorrere  nell'errore  di  ritenere  che  debba  considerarsi sempre
 prevedibile che i soggetti di cui all'art. 210 c.p.p., per  il  fatto
 di   essere  usciti  dalla  scena  processuale  e  di  essere  quindi
 scarsamente stimolati da eventuali benefici  ancora  sub  iudice,  si
 rendano addirittura irreperibili: una tale interpretazione imporrebbe
 al  p.m., posto che tale ipotesi e' sempre in astratto plausibile, di
 porre sempre preventivo  riparo  (mediante  incidente  probatorio)  e
 restringerebbe la possibilita' di fare ricorso all'art. 512 c.p.p.  a
 soli  casi  eccezionali,  quali  la  morte, l'evasione, l'impedimento
 psichico (o quello fisico  all'eloquio)  del  dichiarante.    Secondo
 nozioni  pacifiche  - che vengono ad esempio in considerazione quando
 si prende in esame il reato colposo - la prevedibilita' di un  evento
 si  fonda  sulla probabilita' concreta del suo verificarsi, non sulla
 sola  astratta  possibilita'  che  esso  si  produca,  ed   e'   alla
 prevedibilita'  che  la legge fa riferimento.  Nel caso di specie, il
 Collegio reputa che  l'impossibilita'  di  procedere  a  nuovo  esame
 dell'Adam  Ben  e  dell'Essabar  Karim  non  sia  derivata da fatti o
 circostanze prevedibili al momento  delle  dichiarazioni:    che  gli
 stessi  potessero  rendersi  irreperibili era da ritenersi possibile,
 certo; non si hanno, pero', elementi concreti per ritenere  che  cio'
 fosse   probabile  (infatti  i  soggetti  in  questione,  per  quanto
 stranieri, risultavano  abitare  stabilmente  a  Torino  ove  avevano
 eletto  domicilio).    Il  limite  alla  piena  utilizzabilita' delle
 dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari ora previsto
 dall'art. 513, n. 1, c.p.p. viene dunque in gioco per i soli  verbali
 resi  dal  coimputato Maklouk.   Ricordiamo che la norma, nella nuova
 formulazione di cui  alla  legge  n.  267/97,  mira  ad  ottenere  la
 reiterazione   in   dibattimento  delle  dichiarazioni  a  carico  di
 coimputati rese nella fase delle indagini preliminari: ove  cio'  non
 sia possibile (per la contumacia del soggetto o perche' questi non si
 sottopone  all'esame,  ovvero, se sia stata separata la sua posizione
 ed egli abbia acquisito lo status di imputato di reato connesso,  nel
 caso  tale  persona  si  avvalga  della  facolta' di non rispondere),
 prevede che l'utilizzabilita'  delle  dichiarazioni  conseguentemente
 acquisite  sia  condizionata  all'accordo  di  tutte  le parti, se le
 dichiarazioni provengono da una delle persone indicate nell'art. 210,
 c.p.p. e al consenso dell'imputato se provengono da coimputato.   Con
 l'introduzione  del  nuovo testo dell'art. 513 c.p.p., il legislatore
 ha  altresi'  dettato,  all'art.  6,  legge  cit.,   una   disciplina
 transitoria,  che  consente  (o  meglio consentiva, dato che e' ormai
 perento il termine di due mesi previsto) di  ricorrere  all'incidente
 probatorio anche dopo l'esercizio dell'azione penale e che stabilisce
 una  deroga  al  principio del tempus regit actum per i dibattimenti,
 che, gia' iniziati alla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge,
 avessero  prima  di  tale  data visto l'acquisizione di dichiarazioni
 delle persone di cui all'art.  513 c.p.p.  Per le dichiarazioni  gia'
 legittimamente  acquisite,  la  cui  utilizzabilita'  all'atto  della
 successiva decisione  sarebbe  stata  esclusa  dall'intervento  della
 nuova  disciplina,  si e' infatti delineato un meccanismo di parziale
 salvataggio: una nuova citazione dei soggetti che abbiano  reso  tali
 dichiarazioni,  a  seguito  della quale resti immutata la situazione,
 da' luogo alla  deroga  alla  nuova  regola,  consentendo  ancora  un
 utilizzo, sia pure con alcuni limiti, dei verbali gia' acquisiti.  La
 disciplina  introdotta  con  la  legge  n.  267/97 ad avviso del p.m.
 dovrebbe essere censurata in sede costituzionale:   In  primo  luogo,
 perche'  l'art.  6  della legge, subordinando il regime intermedio di
 valutazione probatoria di cui al comma 5 al requisito della  avvenuta
 lettura  -  condizione  che la fa ritenere inapplicabile nel presente
 procedimento - sarebbe formulato in violazione  dell'art.    3  della
 Costituzione:  l'applicabilita'  o  meno  della  norma  transitoria a
 procedimenti in corso al momento dell'entrata in vigore  della  legge
 deriverebbe,  ad  avviso  del  p.m., da un presupposto "assolutamente
 casuale".
  In secondo luogo, perche', comunque, l'art.  513  c.p.p.  nel  nuovo
 testo  si  porrebbe  in  contrasto  con lo scopo del processo penale:
 essendo  lo  stesso,  come  piu'  volte  sottolineato   dalla   Corte
 costituzionale,    finalizzato    all'accertamento   della   verita',
 accertamento della verita' che implica la non dispersione  dei  mezzi
 di  prova,  la  concessione  alla  difesa  della  facolta' di inibire
 l'utilizzo di un  mezzo  di  prova  porterebbe  alla  violazione  del
 principio   dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  e  sarebbe  di
 ostacolo alla punizione dei  colpevoli.    Il  collegio  non  ritiene
 rilevanti  le  eccezioni proposte dal p.m.  in ordine alla disciplina
 transitoria.   Si deve osservare che  quand'anche  si  ritenesse  non
 manifestamente  infondata  la  censura  mossa  dal  p.m.  alla  norma
 transitoria,  reputando  che  sussista  irragionevole  disparita'  di
 trattamento  tra i dibattimenti in corso che gia' abbiano registrato,
 al momento della nuova disciplina, lettura di dichiarazioni acquisite
 ex art. 513 c.p.p. e dibattimenti che, parimenti gia' in  corso,  non
 abbiano  visto  -  come  in  questo  caso  -  il  verificarsi di tale
 condizione, la questione non sarebbe rilevante.  Siamo infatti qui in
 presenza di situazione che deriva dalla contumacia del  soggetto  che
 ha  precedentemente  reso dichiarazioni accusatorie nei confronti del
 coimputato: anche ove una decisione della Corte sul punto permettesse
 di superare il dato che delle dichiarazioni rese al p.m. non e' stata
 data lettura prima dell'entrata  in  vigore  della  legge,  la  norma
 transitoria non troverebbe applicazione.  Infatti, ancorche' l'art. 6
 legge  cit.  esordisca  -  al comma 2 - con il riferimento a tutte le
 "persone indicate nell'art. 513 c.p.p.", esso prosegue - al comma 5 -
 stabilendo che si  provveda,  ad  istanza  di  parte,  ad  una  nuova
 citazione  delle  predette  persone  e  che  "ove  le stesse si siano
 ulteriormente avvalse della facolta' di non rispondere ovvero non  si
 siano  presentate,  nonostante il ricorso alle misure di cui al comma
 2, primo periodo dell'art. 513 del codice di procedura  penale,  come
 sostituito...",  le  dichiarazioni  acquisite possano essere valutate
 come prova, ma secondo nuovi parametri di valutazione.  Posto che  si
 parla di nuova citazione e che tra le misure cui si deve fare ricorso
 per  ottenere  la  presenza  del  soggetto  in questione vi e' quella
 dell'accompagnamento,   misura   non   adottabile    nei    confronti
 dell'imputato   -   la   cui   presenza   non  puo'  essere  ottenuta
 coattivamente se non per l'unica e diversa ipotesi del confronto - e'
 chiaro che la norma riguarda, in realta', le sole  dichiarazioni  dei
 soggetti  di  cui  all'art. 210 c.p.p.   Infatti, anche ove si voglia
 interpretare la dizione "citazione"  in  senso  ampio  (il  che  pare
 arduo),  facendone  cioe'  discendere  un  rinnovo  della citazione a
 giudizio nei confronti  di  chi  non  si  sia  presentato  o  di  chi
 presentatosi  si  sia  allontanato  dopo  aver rifiutato di reiterare
 precedenti dichiarazioni, al persistere della contumacia o del lecito
 atteggiamento processuale dell'imputato da ritenersi  gia'  presente,
 non  potrebbe  opporsi,  senza  ledere  il diritto di difesa, nessuna
 attivita' di coazione.  Al piu' si potrebbe  ritenere  che  la  norma
 riguardi  anche  il  coimputato,  laddove  si  interpreti  la dizione
 "disposta la citazione" anche in senso atecnico, sostanziandola cioe'
 in una richiesta, rivolta al coimputato presente che si sia sottratto
 all'esame, per accertare  se  intenda  persistere  nella  sua  scelta
 processuale  (ed  in  tal  caso  utilizzandone  le dichiarazioni gia'
 acquisite ex art. 513 c.p.p.  nei limiti di cui al comma 5).
  Ma le dichiarazioni acquisite al presente procedimento ex art.   513
 c.p.p.  senza  assenso  del  difensore dell'imputato Gharbi alla loro
 piena utilizzabilita' promanano,  come  sopra  detto,  da  coimputato
 contumace,  si'  che, da quanto sopra osservato, deriva l'irrilevanza
 nel caso qui in esame della questione proposta  dal  p.m.  in  ordine
 alla  disciplina  dettata  dall'art.  6, legge 7 agosto 1997, n. 647.
 Diciamo, per completezza, che la difesa  ha  osservato  che  il  p.m.
 avrebbe  potuto, per il presente processo, fare ricorso, nel termine,
 al comma 1, dell'art. 6, legge cit.   Sul punto sono  da  condividere
 gli  argomenti  del p.m.  Se il consentire di ricorrere anche dopo la
 richiesta  di  rinvio  a  giudizio  all'incidente  probatorio  poteva
 rispondere  all'esigenza  di  permettere  di  prevenire,  ove  lo  si
 ritenesse probabile, il verificarsi  di  una  situazione  in  cui  le
 dichiarazioni  a  carico di un imputato non fossero piu' reiterate in
 contraddittorio, prevedere, per il caso che  in  un  dibattimento  in
 corso  alla  data  di entrata in vigore della nuova normativa non sia
 gia' stata data  lettura  di  dichiarazioni  acquisite  ex  art.  513
 c.p.p.,  la  possibilita' di instaurare un incidente probatorio anche
 durante la fase del giudizio, non avrebbe avuto senso  alcuno,  posto
 che funzione dell'incidente probatorio e' anticipare la formazione di
 un contraddittorio che, una volta iniziata la fase del giudizio, gia'
 sussiste  nella  sua  pienezza.   Diversa l'opinione del tribunale in
 ordine ai rilievi mossi all'art.  513 ,n. 1, c.p.p.  La questione  e'
 rilevante  per  la  decisione:  il coimputato Maklouk ha infatti reso
 avanti il g.i.p. ed il p.m. interrogatori in  cui  ha  anche  fornito
 elementi a carico del Gharbi.  Per via dell'atteggiamento processuale
 legittimamente  assunto  dalla  difesa  del  Gharbi, di tali elementi
 pero',  in  assenza  di  una  pronuncia  della  Corte  che   dichiari
 incostituzionale il diritto di veto che l'art. 513 c.p.p., conferisce
 alla  parte  che vede contro di se' prodotte dichiarazioni promananti
 da coimputati, il collegio non potra'  tenere  conto  all'atto  della
 decisione.
  Si tratta ora di vedere se la nuova regola che disciplina la fase di
 acquisizione della prova, che si muove in una ottica di accentuazione
 del  processo  accusatorio come processo di parti, urti o meno contro
 parametri  costituzionali.    Un'indicazione  per  procedere  a  tale
 valutazione  puo'  e  deve  essere  tratta dalle pronunce della Corte
 costituzionale.   La stessa ha gia'  individuato  nella  Costituzione
 limiti  al  processo  accusatorio,  ove  i  nuovi istituti o le nuove
 regole, rendendolo conforme al solo modello astratto di  processo  di
 parti,  si prestino a storture, si' da ledere l'effettivo svolgimento
 della funzione giurisdizionale.  Si deve tenere presente che la Corte
 ha considerato irragionevoli il divieto di  testimonianza  de  relato
 della  p.g.,  l'omessa  previsione  della  possibilita'  di acquisire
 dichiarazioni di imputati in procedimento connesso,  quando  essi  si
 fossero  avvalsi  della facolta' di non rispondere, l'utilizzo solo a
 fini  della  valutazione  di   attendibilita'   delle   dichiarazioni
 contestate ai testimoni; che ha riconosciuto l'acquisibilita' ex art.
 512  c.p.p.  delle  dichiarazioni  di  congiunti che si siano avvalsi
 della facolta' di astenersi dal deporre e di quelle del teste affetto
 da amnesia dovuta ad infermita'; che ha dettato regole interpretative
 sull'art. 507, considerato legittimo solo  ove  l'impulso  giudiziale
 all'acquisizione  probatoria possa sostituirsi pienamente all'inerzia
 delle parti.  Tali decisioni sono basate su affermazioni,  in  ordine
 alla indefettibilita' della giurisdizione, alla funzione del processo
 penale  ed  al  ruolo di ricerca di una verita' non meramente formale
 assegnato costituzionalmente al medesimo, che giova ricordare.
  La Corte con la sent. n. 88/91  ha  ricordato  come  i  principi  di
 legalita'   ed   uguaglianza   si   possano  realizzare  solo  grazie
 all'indipendenza    del    p.m.    garantita     dall'obbligatorieta'
 dell'esercizio  dell'azione  penale,  principio che il nuovo processo
 non  puo' pertanto intaccare.  A tutela dell'effettivita' dell'azione
 penale, della sua completezza e della sua imparzialita' il dovere del
 p.m., soggetto, come il giudice solo  alla  legge,  di  estendere  le
 proprie  indagini a tutto cio' che puo' formare oggetto di prova.  La
 Corte ha  rammentato  come,  di  conseguenza,  il  nuovo  ordinamento
 processuale  abbia  previsto istituti a rimedio dell'inerzia del p.m.
 stesso, quali i poteri di controllo del g.i.p.,  quelli  della  parte
 lesa  a fronte di richiesta di archiviazione, il potere di avocazione
 del p.g. e come essa stessa abbia, con le sent. 409 e 445  del  1990,
 reso  concreto il potere di impulso del g.i.p.  La Corte, ha altresi'
 precisato, con la sent. n. 255 del  1992,  che  dei  mezzi  di  prova
 raccolti  occorre  evitare  la  successiva  dispersione, perche' cio'
 porterebbe a frustrare lo scopo stesso del processo penale.
  Sul fine del processo, la Corte, con la sent.  n.  111  del  1993  -
 sull'interpretazione da dare all'art. 507 c.p.p. per poterne ritenere
 la  portata  conforme  al dettato costituzionale - ha ribadito quanto
 gia' precisato nelle sentenza n. 255 del 1992 e 258 del  1991,  cioe'
 che  "fine  primario  ed ineludibile del processo penale non puo' che
 rimanere  quello  della  ricerca  della  verita'"  e  dettato  alcuni
 principi  di  particolare  rilievo  per  la  presente decisione.   Ha
 sottolineato come, attesa  la  natura  non  meramente  formale  della
 verita'   cui   si   deve  tendere,  la  scelta  del  contraddittorio
 dibattimentale quale opzione  migliore  rispetto  al  fine  assegnato
 costituzionalmente  al  processo  non  implichi  che l'oralita' debba
 essere veicolo esclusivo di formazione  della  prova  e  ricordato  i
 numerosi   casi   di  acquisizione  al  dibattimento  di  prove  gia'
 costituitesi aliunde,  la  cui  previsione  e'  fondata  proprio  sul
 ricordato  principio  "della  non  dispersione".   L'acquisizione dei
 mezzi di prova tende  a  consentire  l'accertamento  di  una  verita'
 conforme  alla  realta'  dei  fatti, non la formazione di una verita'
 "processuale" rimessa al solo impulso delle parti e  della  quale  le
 stesse  dunque  potrebbero  disporre:  "sarebbe contrario ai principi
 costituzionali di legalita' ed obbligatorieta' dell'azione  concepire
 come  disponibile  la  tutela giurisdizionale assicurata dal processo
 penale".  La Corte, ricordando che il nuovo codice non prevede  alcun
 caso  in  cui  sia  riconosciuto alle parti il potere di vincolare il
 giudice, ha sottolineato come riconoscere  alle  parti  un  principio
 dispositivo    sul    piano   probatorio   significherebbe   "rendere
 disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda".
  Sarebbe incompatibile con i principi di  uguaglianza,  legalita'  ed
 obbligatorieta'  dell'azione penale un processo "ridotto a tecnica di
 risoluzione delle controversie nel  cui  ambito  al  giudice  sarebbe
 riservato  essenzialmente  un  ruolo di garante dell'osservanza delle
 regole di una contesa tra parti contrapposte ed il  giudizio  avrebbe
 la  funzione  non  di  accertare  i fatti reali onde pervenire ad una
 decisione il piu' possibile corrispondente al  risultato  voluto  dal
 diritto  sostanziale,  ma  di  attingere  -  nel  presupposto  di una
 accentuata autonomia finalistica del processo - quella sola 'verita''
 processuale  che  sia  possibile  conseguire  attraverso  la   logica
 dialettica  del  contraddittorio  e  nel  rispetto di rigorose regole
 metodologiche e processuali coerenti al modello".  E' ad evitare  che
 l'inerzia  delle  parti  porti  alla dispersione delle prove e che la
 stessa si traduca di conseguenza in atto di  disposizione  della  res
 iudicanda, che deve secondo la Corte essere esercitato dal giudice il
 potere di cui all'art. 507 c.p.p., potere che, pur suppletivo, non e'
 dunque   eccezionale,   posto  che  si  tratta  di  impedire  che  il
 dibattimento  non  assolva  "la  funzione  di  assicurare  la   piena
 conoscenza  da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde
 consentirgli di pervenire ad una giusta decisione" di  evitare  cioe'
 assoluzioni  o  condanne immeritate.  Dunque, il legislatore non puo'
 introdurre regole che consentano ad una delle parti di disporre della
 prova e di conseguenza del processo.  Cio' e' avvenuto con  la  legge
 n.  267/97: l'art. 513 c.p.p., nel nuovo testo, conferisce ad uno dei
 soggetti processuali, in sostanza la difesa, la facolta' di  inibire,
 per  il solo fatto che - per una lecita scelta difensiva (nel caso di
 specie, di restare contumace) - non risulta piu'  possibile  svolgere
 rispetto  ad  essi il contraddittorio, l'acquisizione al dibattimento
 di elementi di prova legittimamente e  doverosamente  raccolti  dalla
 controparte.      Causa   una   scelta  discrezionale  immotivata  ed
 insindacabile,  e  per  la  sua  natura  di  scelta   personale   non
 prevedibile,  quale  quella  dell'imputato di rendersi contumace o di
 sottrarsi all'esame, se presente,  le  dichiarazioni  precedentemente
 rese divengono irripetibili.
  Di  fronte  ad altri atti divenuti imprevedibilmente irripetibili il
 legislatore  aveva   previsto   meccanismi   di   recupero   che   ne
 consentissero  tuttavia  l'acquisizione  e  l'utilizzabilita'  per la
 decisione: ora, invece, rimasta inalterata per l'imputato che con  le
 sue  dichiarazioni  abbia  accusato  il  coimputato  la  facolta'  di
 sottrarsi all'esame, l'aver subordinato  al  consenso  di  parte,  in
 particolare  del  soggetto  a carico del quale sono state raccolti in
 precedenza elementi, l'acquisizione dei mezzi di prova divenuti cosi'
 irripetibili, permette l'apposizione di un blocco  al  meccanismo  di
 formazione  della  prova  previsto  suppletivamente  laddove  non sia
 possibile ricorrere all'oralita'.  Posto quanto messo in  luce  dalla
 Corte  sulla  funzione del p.m.   e sullo scopo del processo, c'e' da
 dubitare della legittimita' di una regola processuale che si  traduce
 in una preclusione al razionale esercizio dell'azione penale e che si
 risolve  nell'inibizione  al  giudice  di utilizzare atti che possono
 portarlo ad una piu'  completa  conoscenza  del  fatto,  al  fine  di
 pervenire  ad una giusta decisione.  La disciplina in esame contrasta
 con  il  principio  di   razionalita'   nell'esercizio   obbligatorio
 dell'azione  penale  (artt. 3 e 112 della costituzione).  L'esercizio
 dell'azione   penale   non   e'   facoltativo,   bensi',   a   tutela
 dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, obbligatorio per
 l'inquirente.    I  verbali  -  documenti  che  godono di particolari
 garanzie di rispondenza al vero del loro contenuto - di dichiarazioni
 rese nella fase delle indagini danno conto di  atti  compiuti  da  un
 organo  giudiziario,  pubblico  ed  indipendente,  il  p.m.,  la  cui
 attivazione  e'   prevista   obbligatoriamente   solo   in   funzione
 dell'applicazione  della  legge.   L'utilizzo da parte del p.m. delle
 risultanze ottenute, al fine di indirizzare le  indagini  e'  percio'
 altrettanto  obbligatorio:  egli  non  puo' trascurare di valutare il
 materiale che gli e' cosi'  pervenuto  o  rifiutarsi  di  raccogliere
 eventuali  elementi  a  favore dell'indagato.   E' dunque irrazionale
 imporre all'organo dell'accusa di raccogliere i mezzi  di  prova,  di
 prendere  le  conseguenti  iniziative  (quali  la richiesta di misura
 restrittive, o  la  richiesta  di  revoca  di  quelle  in  precedenza
 ottenute),   prevedere   rimedi   alla   sua  inerzia  istruttoria  e
 dibattimentale con  l'intervento  di  impulso  del  g.i.p.  e  quello
 suppletivo del giudice, da un lato, stabilire, pero', dall'altro, che
 se  gli  atti compiuti divengono irripetibili per la libera scelta di
 uno  dei  soggetti  che  ha  contribuito  alla  loro  formazione,  la
 controparte  processuale  a carico della quale tali elementi l'accusa
 ha raccolto, possa, con una decisione ovviamente presa  in  un'ottica
 di  privato  interesse in collisione con il fine del processo penale,
 disporre della loro utilizzabilita'.   Si pone un  ostacolo,  rimesso
 all'arbitrio  o  comunque all'interesse esclusivo ed egoistico di una
 parte, alla formazione della prova, che non viene consentito  opporre
 in altre situazioni: tale ostacolo non sussiste per l'acquisizione di
 dichiarazioni  di  imputati  di reato connesso divenuti irreperibili,
 per il caso di decesso, di infermita' che abbia portato  ad  amnesia,
 per  il  caso  di  soggetto  che  si  avvalga  della  facolta' di non
 rispondere  su  singoli  punti  (per  il   che   e'   consentita   la
 contestazione      ed      utilizzazione      delle     dichiarazioni
 predibattimentali).  Si tratta, si badi, di  situazioni  identiche  a
 quella  che  si produce nel silenzio dibattimentale dell'imputato che
 abbia reso precedentemente dichiarazioni  a  carico  del  coimputato,
 posto  che,  anche se la causa della situazione e' in alcuni dei casi
 sopracitati naturale, in altri giuridica e nel nostro solo  giuridica
 (il  riconoscimento  del diritto a restare contumace o della facolta'
 di sottrarsi all'esame), l'effetto sulla parte interessata e'  sempre
 lo  stesso,  quello di inibirle il contraddittorio.  Vi e' dunque, in
 violazione  dell'art.  3  della  Costistuzione,   una   irragionevole
 disparita'  di trattamento tra situazioni processuali influenti sulla
 formazione della prova che sono identiche, cui consegue la  possibile
 vanificazione   della  finalita'  del  processo,  che  e'  quella  di
 ricostruire la verita' dei fatti, onde accertarne le  responsabilita'
 e di perseguirne i colpevoli.  Infatti, se all'imputato, che non puo'
 interdire  l'assunzione  di elementi di prova a suo carico promananti
 da coimputati, elementi che il p.m. ha l'obbligo di raccogliere e  su
 cui  possono essersi fondate ulteriori doverose e legittime attivita'
 dell'accusa, si consente, ove non possa farsi ricorso all'oralita'  -
 che  s'e'  gia'  detto essere opzione preferenziale, ma non unica del
 legislatore -, di interdire  l'utilizzo  di  tali  elementi  in  sede
 dibattimentale,  si  permette  allo  stesso  di  sottrarre al giudice
 elementi   per   l'accertamento   della   eventuale   responsabilita'
 dell'imputato  medesimo.    Ad  avviso  del  tribunale, il meccanismo
 previsto dalla norma in questione collide infine anche con gli  artt.
 101  e  111  della  Costituzione.   Il potere concesso alle parti con
 l'art. 513, n. 1, c.p.p. sulla formazione della prova e' cosi' ampio,
 essendo preclusa  ogni  sindacabilita'  sul  suo  esercizio,  che  si
 concreta  in  un  impedimento,  possibile  grazie all'introduzione di
 quello che e' un vero e proprio principio di disposizione della prova
 e dell'oggetto stesso del processo,  al  regolare  svolgimento  della
 giurisdizione.    Risultano  violate  le  regole  secondo le quali il
 giudice e' soggetto solo alla legge e deve pervenire a  decisione  in
 base  ad  un razionale e motivato convincimento: infatti, se l'ultima
 parola sull'utilizzabilita' di una prova viene  demandata  al  potere
 discrezionale  di una parte, la decisione del giudice viene coartata,
 non nasce piu' da un libero convincimento sorto dalla valutazione  di
 tutti i mezzi di prova raccolti.
  Ne'  si  puo'  invocare  a  giustificazione il diritto di difesa: la
 Corte ha sempre affermato che lo stesso, per quanto inviolabile,  non
 puo'  non  trovare  bilanciamento rispetto ai principi costituzionali
 dettati  a  tutela  della  funzione  pubblica  giurisdizionale  ed  a
 garanzia  del  corretto  perseguimento  dei  suoi compiti (proprio in
 un'ottica di bilanciamento tra esercizio dell'azione penale  e  della
 funzione  giurisdizionale  e diritto di difesa, si era mossa la Corte
 con  la  sent.  n.  254  del  1994,  introduttiva  della   disciplina
 dell'utilizzabilita'     delle     dichiarazioni    predibattimentali
 dell'imputato di reato connesso che si fosse avvalso  della  facolta'
 di   non   rispondere:   si   sottolineava   che   l'imputato  doveva
 necessariamente vedere limitato il  suo  diritto  al  contraddittorio
 dall'esercizio  di  tale  facolta' e l'attivazione di un procedimento
 alternativo di formazione della prova).